giovedì 30 dicembre 2010

Ricetta dei brownies al cioccolato e all'arancia


In onore del folletto Brownie, la ricetta omonima dei brownies al cioccolato e all’arancia data da Benedetta Parodi nella trasmissione “Cotto e mangiato”, una ricetta tra l’altro molto yulizia!
Ma prima conosciamo i folletti Brownies:
Nel folklore britannico e irlandese sono dei minuscoli e pelosissimi uomini con la pelle raggrinzita dalle rughe. Sono alti una sessantina di centimetri. Di solito vanno in giro totalmente nudi o, al meglio, vestiti con abiti cenciosi. Ai Brownies piace sorvegliare le case degli uomini. Di notte essi escono fuori dai loro nascondigli e portano a termine piccoli lavori domestici lasciati in sospeso dalla massaia della casa , oppure sorvegliano il bestiame. Se nella casa c'è un servo pigro, allora essi lo tormentano per questo motivo. Tutto ciò che i Brownies si aspettano in cambio sono una bella palla di crema o del buon latte e una torta al miele.
Il cibo per i Brownies va lasciato in un angolo della casa, se glielo offriamo direttamente si offendono a morte.
Altri doni graditi sono: la focaccia d’orzo, la frutta secca, la panna, qualche dolcetto.
Ma attenzione a non lasciare cibo e vestiti in grande numero, i Brownies infatti lo ritengono molto offensivo. E attenzione anche a criticare il loro lavoro. Si racconta che ad un fattore che osò lamentarsi del loro operato, i Brownies gettarono l'intero raccolto oltre un dirupo.
A volte i Brownies si fanno vedere anche in occasione di banchetti funebri: molte persone nei tempi passati avevano avuto modo di notare dei Brownies mentre mangiavano seduti accanto ai commensali, così pure si son viti mentre portavano le bare o le casse con i morti al cimitero insieme ai becchini. I loro vestiti sono solitamente ricavati da pezze di stoffa marrone recuperata qua e là per la casa, anche se qualche volta girano completamente nudi.
Una volta ad un Brownie che viveva nel Lincolnshire e che era stato abituato a ricevere ogni anno una camiciola di lino venne data una camicia di tela di sacco da un contadino avaro. Su questa lo spiritello scrisse una poesia:
“Dura, dura canapaccia,
più non leverò l’erbaccia,
se del lino mi avessi dato
molto tempo sarei restato,
ma tu hai fatto economia
e per questo me ne andrò via.”

Da: Le creature del Piccolo Popolo di Dario Spada

Ma ora passiamo alla ricetta dei brownies al cioccolato e all’arancia:




Ingredienti:
180 g di cioccolato fondente
1 arancia non trattata
2 uova
230 g di zucchero canna
150 g olio di semi
30 g di cacao
70 g di farina
1 cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale
zucchero a velo

Spezzettare il cioccolato, unire il succo, la polpa e la buccia dell'arancia e far sciogliere a fuoco dolce. Nel frattempo sbattere bene le uova con lo zucchero, unire il cioccolato fuso, l'olio, il cacao, la farina, il pizzico di sale e il lievito,mescolare bene. Bagnare la carta forno e strizzarla, stenderla in una teglia e versare il composto, infornare a 180° per 30 minuti circa. Sfornare e tagliare a quadrotti, spolverizzare con lo zucchero a velo.

lunedì 27 dicembre 2010

Natale – Yule – La tradizione della Caccia allo Scricciolo


Un altro costume di “Natale” che ha un significato speciale nella tradizione celtica è la Caccia allo Scricciolo, svolta ora in forma simbolica.
Gli “scriccioli” in gara (dréoilìnì, cioè fratellanze rituali) spendono talvolta delle fortune in costumi e musica. Nella forma di più antica attestazione, che è anche la più semplice, la cerimonia (che si tiene sempre il 26 dicembre, giorno di S. Stefano o “Giorno dello Scricciolo”) iniziava con l’inseguimento di un vero scricciolo che infine veniva lapidato. Il suo corpo era quindi deposto in una scatola o gabbia stupendamente decorata con rami di sempreverdi, nastri colorati e frutti (detti perllan o “frutteto” in gallese) che veniva fissata all’estremità di un palo e portata in parata di casa in casa da una compagnia di danzatori, cantanti e musicisti in costume. La composizione specifica dei personaggi variava ma, almeno in Irlanda, includeva sempre un uomo travestito da “megera” (cailleach) e un cavallino chiamato Lair Bhan (“Giumenta Bianca”). Ovunque fossero accolti, i “ragazzi dello scricciolo”  eseguivano una performance di danza, clownerie e musica nuova e vecchia (parte della quale riferita specificamente all’occasione), e quindi chiedevano la carità “per seppellire lo scricciolo”. In effetti, si trattava più precisamente di soldi non per seppellire lo scricciolo, dato che si riteneva che il suo corpo portasse sfortuna; per vendicarsi, i figuranti di alcune comunità si sbarazzavano infine del cadaverino deponendolo sulla terra della casa che li aveva accolti più miseramente o in modo scortese nel corso della giornata. In altre aree, la sepoltura dello scricciolo era un rituale elaborato e il corpo veniva lasciato in un luogo “liminale” (per esempio sulla riva, né sulla terra, né in mare) dove il suo influsso veniva così neutralizzato. Talvolta, oltre alla ciotola o alla borsa in cui si raccoglievano i soldi, i ragazzi dello scricciolo portavano in giro una grossa ciotola usata più che altro per chiedere da bere (anche se in alcuni esempi significativi veniva riempita prima di ogni altra cosa con una mistura “da bagordi” passata poi tra i partecipanti, da assaggiare versando una quota).
Perché fare di uno scricciolo il fulcro di tutte queste attività goliardiche? Lo scricciolo figura in modo prominente nella tradizione popolare come uccello della divinazione (si pone quindi nella classe “druidica” o “bardica” degli esseri) ed è il protagonista di un racconto popolare molto diffuso (senza dubbio quanto resta di una mitologia molto antica) che spiega il suo appellativo di “Re di tutti gli uccelli”.  La storia narra che in una gara a chi riusciva a volare più in alto, lo scricciolo si posò sulla testa dell’aquila e, una volta che il grande uccello aveva raggiunto i limiti della propria forza, lo scricciolo emerse dal suo nascondiglio e volò più in alto degli altri uccelli, guadagnandosi così la supremazia su tutto il popolo alato, nonostante le sue minuscole dimensioni. Tutto questo ci fa ben capire quanto sia astuto lo scricciolo, pronto a partire da quanto altri hanno raggiunto per dare un colpo al loro orgoglio e metterli fuori gioco all’ultimo momento.
Lo sciamano era spesso conosciuto come “l’astuto”, e il Druido, sciamano a sua volta, è anche “astuto” -  un uomo che può farsi invisibile come lo scricciolo, che può viaggiare sul dorso di una nobile aquila per raggiungere la sua destinazione, preservando contemporaneamente le sue energie.
La tradizione usa chiamare il nido dello scricciolo “Casa del Druido”. Di tutti gli uccelli riveriti dai druidi, lo scricciolo è considerato il più sacro. In Irlanda era chiamato il Drui-en, o l’Uccello Druido: nel Galles la parola Dryw significa sia druido che scricciolo.
Ad ogni Capodanno l’apprendista druido entrava nella foresta alla ricerca della saggezza nascosta, così come un nativo americano sarebbe andato ad una Ricerca della Visione. Se in questa ricognizione avesse potuto incontrare uno scricciolo, lo avrebbe letto come segno della benedizione di una conoscenza profonda che avrebbe ricevuto nell’anno a venire.
I druidi bretoni dicono sia stato lo scricciolo a portare il fuoco dal cielo, ma che nel portarlo sulla terra si fosse incendiato le ali fino a dover passare il suo dono al pettirosso, cui pure si infiammarono le piume. A questo punto entrò in scena l’allodola che finalmente fu in grado di portare il fuoco al mondo. In questa leggenda vediamo la simbologia del passaggio di poteri dello scricciolo, re dell’Anno Calante, al pettirosso, re dell’Anno Crescente.
Lo scricciolo cacciato ed ucciso in modo rituale riproponeva l’idea che la morte di un re nel pieno delle sue forze potesse garantire il passaggio dei suoi poteri al successore.
Llew Llaw Gyffes (il Brillante, il Luminoso Abile di Mano, secondo altri il Leone dalla Mano Ferma), figlio di Arianrhod, è chiaramente un re dell’Anno Crescente o Re Quercia, riconosciuto come tale da sua madre nel momento in cui lo loda dandogli il nome, dopo che egli colpisce uno scricciolo ad una zampa con una fionda, come ci viene narrato nei Mabinogi nel racconto Math figlio di Mathonwy. Egli non lo uccide, ma lo azzoppa, cioè azzoppa il suo animale rivale facendo in modo che possa essere riconosciuto da sua madre come Re Sacro. Graves spiega ne La Dea Bianca che alla morte rituale del re si sostituì il culto di un re che regnasse a lungo, il quale però veniva castrato o azzoppato. Più tardi ancora la zoppìa venne sostituita con la circoncisione e con l’uso di scarpe regali, i coturni. Quando Llew viene a sua volta sacrificato e ucciso da Grown Pebr Lleu si trasforma in un’aquila e vola via per andare a vivere su una quercia. La sua resurrezione ha poi luogo nel cuore dell’inverno, nella stagione della Vecchia Scrofa, Ceredwen.
  
Anche il vischio viene tagliato e appeso come decorazione, oppure come talismano della fertilità sotto cui si baciano le giovani coppie. Solitamente, in situazioni del genere, dobbiamo prendere in considerazione una tradizione precedente di sacrificio. I destinatari del sacrificio di sangue sono invariabilmente i poteri dei Fomori, gli spiriti della Terra la cui insaziabile ingordigia e indifferenza alle preoccupazioni umane mette sempre in pericolo la sopravvivenza della Tribù.
Il sacrificio di sangue è associato all’energia solare in molte culture. Per fare uno spettacolare esempio, i sinistri sacrifici umani che caratterizzavano l’America Centrale avevano l’intento esplicito di mantenere forte il sole; se non veniva ben nutrito di sangue, l’astro luminoso poteva non emergere mai più dal buio Mondo Sotterraneo in cui scendeva la sera. La lucentezza di sangue, oro e luce solare venivano collegate fra loro, e potevano trasformarsi l’una nell’altra: l’oro condensava perciò le proprietà di guarigione e di vita della luce solare in forma metallica, mentre il sangue era in grado di aumentare il calore del sole stesso. Si dava quindi del sangue agli spiriti della terra profonda che imprigionavano il sole nei periodi di buio. I Celti condividevano chiaramente una simbologia di questo genere, e possiamo certamente trovarne altre applicazioni nel loro rituale del Solstizio d’Inverno. Fino al Diciannovesimo Secolo, i sacrifici di sangue erano una componente delle celebrazioni natalizie (o di Santo Stefano) in molte parti del Galles. In alcune comunità ciò si limitava a sacrifici di bestiame, e poteva essere spiegato come una sorta di medicina popolare; ma in altri luoghi era un rituale che coinvolgeva esclusivamente esseri umani: talvolta un unico individuo designato a caso o tramite estrazione a sorte (per esempio, l’ultimo a svegliarsi al mattino), il quale veniva fustigato con un ramo di agrifoglio fino a far scorrere il sangue, altre volte l’intera comunità, i cui membri si colpivano a vicenda con rami dello stesso albero in un finto combattimento. In ogni caso l’holming (termine con cui questa pratica finì per essere indicata nei distretti di lingua inglese) aveva lo scopo esplicito di versare del sangue.
A questo punto dovremmo analizzare il ruolo ricoperto da un’altra presenza del Natale, l’agrifoglio. Ben noto ai Celti già nelle prime fasi della loro tradizione (come suggerito dal termine in celtico antico kolennos, “pungitore”), l’albero di agrifoglio acquisì un significato religioso in virtù dei suoi tratti caratteristici. Come tutti i sempreverdi, che sono in qualche modo in grado di sconfiggere l’influsso della stagione giamos sul mondo vegetale, esso divenne un simbolo di vitalità divina, di immortalità che trascende i cicli della natura. Come tutte le creature dotate dei tre colori sacri (in questo caso foglie “nere” – o verde scuro -, fiori bianchi e bacche rosse), esso era una manifestazione speciale di divinità, dato che il nero, il bianco e il rosso sono i colori del triplice aspetto della Dea correlato alle tre fasi della Luna: la luna crescente nell’aspetto della Bianca Dea Fanciulla, la luna piena della Rossa Dea Madre e la luna calante della Nera Dea Anziana. Ma a distinguere l’agrifoglio in modo particolare sono le sue spine in grado di estrarre sangue e che suggeriscono le varie applicazioni di tale attività nel mondo umano, che si tratti di scopi militari o rituali.
L’agrifoglio è quindi il sacrificatore divino tra gli alberi; posizionarlo nel momento più buio della stagione giamos, a presiedere sul nutrimento di sangue del Sole rinato, appare del tutto appropriato.
Il sacrificio di sangue è menzionato anche nel contesto della nascita di Pryderi nel Primo Ramo dei Mabinogi: le serve sporcano le mani e il volto addormentato di Rhiannon con il sangue, così che gli altri credano sia stata lei a uccidere il proprio figlio. Il sangue utilizzato è in effetti quello di un cane appena nato. Secondo alcuni ricercatori, il cane è un animale associato con Lugh e con tutte le figure divine o eroiche che lo hanno preso a modello. Forse che questa sia di nuovo un’eco di un sacrificio di sangue che deve avvenire alla nascita del Figlio della Luce? Nonostante altrove nella storia Pryderi sia equino come sua madre, le divinità celtiche hanno solitamente più di una manifestazione animale e sembra del tutto plausibile che cagna e cagnolino siano qui da intendersi come riflesso della Grande madre e del Grande Figlio, proprio come avviene poco dopo con la Giumenta di Teyrnon e col suo puledro. Il cagnolino non potrebbe allora essere una creatura di natura simile a Pryderi e che viene a lui sostituita, non soltanto come richiede la trama dei Mabinogi, ma anche come sacrificio?
È in ogni caso evidente che sia il rituale di Mari Lwyd sia quello della Caccia allo Scricciolo sono collegati da motivi comuni e carichi di riferimenti mitologici, e che un tempo potrebbero aver fatto parte di un’unica cerimonia. In una tradizione rivitalizzata moderna potrebbe essere illuminante combinare le due cerimonie, sottolineando la forza dell’ immaginario mitologico nel loro contesto stagionale.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti. Una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev e L’oracolo dei druidi di Philip e Stephanie Carr-Gomm

venerdì 24 dicembre 2010

Oíche Chiúin (Silent Night) - Enya


Natale – Yule – La tradizione della Mari Llwyd

...Ma quando Pwyll tentò di guardarla in viso, non gli fu possibile, dovette abbassare gli occhi e allora capì che Essa non era una donna bensì una Dea, e che quel posto viveva della Eterna Gloria di Lei.

(I Mabinogion, Evangeline Walton)

Due tradizioni emergono tra le festività del Natale Celtico, e paiono provenire da una radice indigena: la Processione di Mari Lwyd e la Caccia allo Scricciolo (sebbene quest’ultimo costume possa essere di provenienza scandinava). Sono spesso separate nella pratica, ma appaiono collegate in termini simbolici.
La Mari Lwyd (“Maria la Grigia”, ma probabilmente anche “Giumenta Grigia”) viene ancora portata di casa in casa a un certo punto delle festività natalizie in vari distretti del Galles meridionale e centrale. Si tratta di una figura mostruosa composta da un teschio di cavallo montato su un palo, portato da una persona solitamente celata sotto una coperta a dare l’impressione di un essere umano gigantesco con una testa di animale. La mascella inferiore è disposta in modo tale da poterla aprire e chiudere di scatto, e talvolta le orbite sono dotate di occhi di vetro per dare un effetto ancor più terribile. Nastri escono dalle orecchie, si notano campanelle attaccate intorno al collo e, in alcune comunità, i componenti la sua scorta sono anch’essi abbigliati in costumi grotteschi. Nelle processioni del passato si portava anche la Aderyn Pica Llwyd (“Gazza Grigia”), un uccello artificiale appeso a un bastone con mele e arance. A ogni casa il leader della processione bussa  sulla porta col proprio bastone e il gruppo intona una filastrocca in musica chiedendo il permesso di entrare per sé e per la Mari. Gli abitanti della casa replicano con un’altra filastrocca che esprime sospetto e chiede rassicurazioni sul fatto che Mari non causerà violenza e disordine se lasciata entrare; questo porta a un lungo dialogo musicale che culmina nell’apertura della porta per far entrare la Mari. Ella si dimentica ovviamente delle sue promesse e gira per la stanza cerando di agguantare gli abitanti della casa (specialmente le donne), che fingono di esserne terrorizzate. Spesso un bambino piccolo si para di fronte alla Mari e le dà una torta o una caramella, dopodiché il mostro viene improvvisamente soggiogato.
Considerato nei termini più generici,  questo rituale si colloca in un ampio continuum di tradizioni dette del “cavallino” che si ritrovano in tutta l’Europa rurale. Molte località, dall’Inghilterra alla Polonia, hanno una festa (solitamente durante la metà oscura dell’anno) in cui un gruppo di figuranti va di casa in casa con un cavallo artificiale (o qualche altro tipo di mascheramento da cavallo) che finge di attaccare le donne, in particolare quelle non sposate. Talvolta, come accade in alcune aree della Germania meridionale, tale ruolo è demandato ai “diavoli” o ad altre maschere fantastiche. Il significato di un rituale del genere pare risalire alla comune eredità di simbolismo e credenze indoeuropee. Gli spiriti della Terra che governano la fertilità (dai Centauri della Grecia ai divini Ashvin dell’India) erano immaginati con tratti da cavallo, e ogni volta che se ne invocava il potere si utilizzava un immaginario equino. Nel cuore più buio dell’inverno, quando il potere generativo della vita pare essere nel punto più basso, era evidentemente ritenuto appropriato invocare i guardiani primordiali della fertilità della Terra e associarli con i simboli di generazione della Tribù: le donne. I Celti, la cui mitologia trabocca di figure come Eochu, Echbél e March, condividono certamente tale schema concettuale e devono aver preso i propri rituali del cavallino dalla memoria comune della tradizione. Ma ci sono alcuni aspetti della cerimonia di Mari Lwyd che suggeriscono una struttura di riferimento ancor più legata alla specificità celtica.
Per prima cosa, se in altri paesi il cavallino è di sesso indeterminato oppure è esplicitamente maschio (come si addice a una figura che “insemina” simbolicamente le donne), la Mari è sempre dichiaratamente femmina. Ella è quindi la Grande Giumenta, Epona, la Dea-Terra stessa, non soltanto uno degli spiriti della Terra del suo seguito. Sia lo scandalizzato resoconto di Giraldo Cambrensis sull’investitura di un re irlandese che la maestosa forma del cavallo bianco di Uffington, scavata in una collina di gesso nell’antico territorio dei Dobunni, illustrano l’importanza della Grande Giumenta come immagine della Dea-Terra che assicura la Sovranità tramite la propria unione con il sacro re della tribù. Ma anche quando presenta una serie di attributi animali, la Dea-Terra è solitamente concepita in forma antropomorfica nei resoconti della sua interazione con la tribù. Cosa determina quindi la sua apparizione in forma animale?
Il suggerimento più prezioso viene dal Primo Ramo dei Mabinogi: Rhiannon (“Grande Regina”) appare per la prima volta al marito, il nobile Pwyll, cavalcando nello stile tipico di Epona. Ella stessa viene degradata ad un ruolo equino quando il figlio appena nato, Pryderi, viene rapito dai poteri dell’Altromondo, ed è quindi accusata di averlo ucciso. La sua condanna consiste nello stare davanti all’entrata del suo castello e di offrire agli ospiti di portarli in groppa all’interno di esso, dopo aver raccontato in che modo ha ucciso il proprio figlio. Nel Terzo Ramo, quando sia lei che Pryderi (ora adulto) sono prigionieri della fortezza dell’Altromondo di Llwyd ap Cil Coed, sono costretti a indossare gioghi da cavallo intorno al collo. È implicito in entrambi gli episodi che la Dea e suo figlio (il neonato Pridery viene riportato indietro da Teyrnon in compagnia di un puledro magicamente rapito) vengono realmente trasformati in cavalli; e questo è un fatto confermato dalle varianti della tradizione orale, specialmente in Bretagna. La ragione precisa di questa involuzione allo stato animale non viene mai chiarita (eccetto finora nella struttura generale della narrazione, secondo cui riflette la vendetta di Gwawl su Rhiannon e sulla sua famiglia, usando Lwyd ap Cil Coed come agente), ma se, come suggerito da Caitlìn Matthews, Rhiannon e Pryderi rappresentano qui Modron e Mabon (Matrona e Maponos), la Grande Madre e il grande Figlio, la trasformazione potrebbe essere spiegata con la sua funzione nel più ampio contesto mitologico e rituale. La nascita del Figlio della Luce (che diverrà Maponos, il giovane e vigoroso dominatore della metà samos dell’anno) avviene quando l’aspetto materno e umanamente attraente della Dea Terra è addormentato, sostituito dalla Scrofa, la Megera, la Dea nel suo aspetto ostile (forse rappresentata nel Primo Ramo dalle serve che architettano l’umiliazione di Rhiannon). È l’ascesa della Megera a produrre in effetti l’eclissi della Madre, espressa dalla perdita delle facoltà umane quando il personaggio assume caratteri animali (natura animale = giamos; natura umana = samos). Il volto umano e orientato verso la Tribù della Dea tornerà soltanto quando l’anno si avvicinerà alla sua metà luminosa. Llwyd (la “Grigia”) è la figura che possiede la chiave dei cambiamenti.
Considerando nuovamente il nostro rituale del Solstizio alla luce di quanto sopra, ci si rende conto che, nella stagione invernale, Mari Lwyd è una madre che è stata separata dal figlio. Questo porta immediatamente alla mente molte figure di altre mitologie, Dee-Madri che vagano in lacrime su una terra deserta in cerca di un amore perduto (figlio o consorte) collegato al potere della fertilità: Demetra e Persefone, Iside e Osiride, Nanna e Balder, Leminkäinen e sua madre… Nel caso di Demetra e Iside, le dee vaganti acquisiscono un seguito di compagni che assumono essi stessi significato individuale nei miti. Forse che il racconto di Rhiannon, o dell’archetipo da lei rappresentato nel sapere celtico, contenesse un tempo proprio questo elemento, sopravvissuto fino ad oggi nel rituale che ha ispirato? È il proprio il puledro che la Giumenta Grigia o la Grande Giumenta cerca una casa dopo l’altra, e gli strani personaggi che l’accompagnano, suonando campanelle e violini e sventolando nastri, sono gli aiutanti dell’Altromondo che la sostengono nel suo esilio; le loro identità ci sono sconosciute in questo contesto specifico, ma senza dubbio sono molto vicine a quei “compagni magici”  così comuni nella tradizione popolare. Ovviamente, nonostante la possibilità di tali associazioni, la cerimonia funge ancora chiaramente da rituale “cavallino” mirato a ripristinare la fertilità o riattivare i poteri della generazione: anche in esilio, incapace di manifestarsi apertamente nella natura, la Dea-Terra può ancora trasmettere la sua “energia equina” (eoghus) a coloro che ne hanno bisogno, e lo fa con la tipica turbolenza di un “cavallino”.
Che la cerimonia di Mari Lwyd e il racconto di Rhiannon e Pryderi siano effettivamente collegati a livello storico o no, i collegamenti mitologici e poetici sono sempre più evidenti, e non possono essere ignorati.
Da Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev

giovedì 23 dicembre 2010

Yule



Sonno di terre candide t'accoglie
notte infinita rabbrividente in gelo

vapori diacci di sospesa vita

seguono il nostro passo soffocato.


Taglia il respiro il freddo che rinnova

tutto sa di pulito, immacolato

lucente il cielo spande a piene mani

pulviscoli d'argento sfavillante.


Campane a valle chiamano le genti

a riscaldarsi al fuoco della festa

preparano la notte dell'arrivo

e levano le voci in soavi canti


Qui c'è ricco il silenzio degli Antichi

ognuno è solo innanzi al suo sentiero

ma un cerchio di promesse non si spezza

le mani nelle mani e caldi i cuori.


S'accendono fiammelle nella notte

candele d'oro a richiamare il Sole

passerà questa notte senza fine

passerà il gelo e il tempo della veglia.


Signora, apri di nuovo il tuo sorriso

vieni con noi nel canto dell'inverno

da questo ghiaccio nasceranno fiumi

e nuove foglie agli alberi dormienti,


bevi con noi al calice dei sogni

il miele ardente a illuminare i volti

guarda ruggire ancora i nostri fuochi

sorridi a questa vita che non cede,


nascere al mondo dentro queste notti

è un privilegio di cui essere grati

correre lieti insieme alle stagioni

incontro ai nuovi fiori che verranno,


portiamo i nostri doni a chi è arrivato

che sia di carne o di brillante luce

perchè la vita ha mille e più stagioni

perchè siam tutti uguali

nella sera.


Marius Tavernese

Natale - Yule nelle terre celtiche


Deuoriuos (?)
Alban Arthan (Solstizio d’inverno, Natale)
21 (25 dicembre)

Una delle feste identificate per nome nel calendario di Coligny è Deuoriuos Riuri. Se M. Kerjean-Lemaître ha tradotto correttamente il termine Riuros come “mese del gelo” (per analogia col gaelico reo, gallese rhew, bretone riv), facendolo corrispondere all’incirca col mese di dicembre, allora Deuoriuos  (Deuo-ri-uos, “grande festa divina”) parrebbe coincidere col Solstizio d’Inverno ed essere così l’antico nome celtico di questa festa (sebbene oggi non vi sia consenso unanime in tal senso tra gli studiosi).
Tutte le feste solari derivano la propria importanza rituale da un fenomeno astronomico totalmente prevedibile: il mutevole rapporto di lunghezza tra giorni e notti, che noi scegliamo di celebrare alle estremità e ai punti mediani.
Quale sarebbe una reazione tradizionale celtica alle necessità rituali di questa fase dell’anno? Da una parte, la questione è complicata dal preponderante influsso del Natale, sia come fenomeno religioso che commerciale. In quest’epoca non esiste ovviamente una comunità celtica che non associ il Solstizio d’Inverno prima di tutto col Natale e con l’immaginario che la cultura dominante vi ha associato tramite istruzioni e mezzi di comunicazione. Sepolto sotto lo strato imposto dalla cultura di massa, troviamo solitamente qualche elemento che ci riporta alla storia antica della comunità, ma si tratta nei migliori casi di una vita debole che non sta in piedi da sola, poiché raramente si ritiene sia qualcosa di più di un’aggiunta locale alla celebrazione della festa sopranazionale moderna.
D’altra parte, però, dato che l’osservanza del Solstizio d’Inverno si basa non su un’eredità sociale di una qualche cultura particolare, ma su una risposta generale a un fenomeno esterno non specifico a livello culturale, si assiste a una significativa aderenza agli schemi rituali della celebrazione, almeno in Occidente. Si trovano ovunque elementi che drammatizzano il potere della luce nell’oscurità, che si tratti delle luci degli alberi di Natale, di fuochi o di candele. E lo stesso vale per l’incoraggiamento della solidarietà familiare e per lo scambio dei doni. Anche i temi mitologici che servono a convalidare la celebrazione tendono ad avere un profilo simile: un Figlio della Luce (il Sole che ritorna) nasce nel momento più buio in circostanze precarie, ma se lo abbracciamo con affetto e amore gli è concesso di crescere e infine di rivelarsi nella stagione luminosa. Che si pensi al bambino come Gesù o a Lugh oppure a Mabon (per quanto tale questione possa sembrare importante in termini di fedeltà religiosa personale) non fa in pratica alcuna differenza. E così gli strati successivi di immaginario che coesistono nelle tradizioni di Solstizio di una comunità tendono tutte a rafforzarsi a vicenda, e non vi è ragione per rigettarne nessuna come “straniera” e quindi negativa.
Le versioni native del mito del Figlio della Luce (che conosciamo sia dalla letteratura medievale che dal folklore recente) sono incentrate sulla rinascita del Maponos, “il Grande bambino” o “Grande figlio”, il giovane dio dell’Estate che domina il regno dell’esperienza samos e che è morto o altrimenti sparito a Samhain. Nel racconto Culhwch e Olwen, egli è ancora chiamato col suo nome antico, Mabon ap Modron, “Grande Figlio della Grande Madre”, rapito “quando aveva 3 notti” (cioè dopo il completamento dell’abituale periodo rituale di tre notti) “tra sua madre e il muro” e liberato appena in tempo per ricoprire un ruolo necessario nel salvare la Fanciulla dell’Estate, Olwen, dal controllo del padre, gigante della terra. Nei Mabinogi egli appare anche come Pryderi, rapito alla nascita alla madre Rhiannon da un artiglio dell’Altromondo e riscoperto soltanto nella notte del Primo Maggio. E se accettiamo il fatto che il Dio Lugh, che adempie a una funzione mitologica differente, condivide numerosi tratti con il Maponos, troveremo il medesimo schema nella storia della sua nascita: nelle fonti popolari irlandesi si narra che il suo padre segreto è Cian (uno dei Tuatha Dé Danann, gli dei “tribali”) e la madre Eithne, figlia di Balor (il campione dei Fomori o giganti della terra); egli nacque per adempiere a una profezia secondo cui Balor sarebbe stato ucciso dal proprio nipote; così il bambino, per sfuggire alla paura assassina di Balor, dovette essere rapito alla nascita, affidato a Manannan Mac Lir, che presiede il Banchetto dell’Altromondo nella Terra delle Mele, e alla regina del Leinster Tailltiu, finché fu grande e forte abbastanza da sfidare Balor e compiere il suo destino. Anche nella più scarna versione gallese troviamo un’eco di questo: Lleu è nato come una “cosa” non formata dalla madre vergine ignara, Arianrhod, e viene subito portato via dallo zio Gwydion, il quale lo nasconde per rivelarlo in seguito con tutti gli attributi. Inutile ripetere qui la storia di Gesù Bambino, nato nell’oscurità, fatto sparire in Egitto per  sfuggire all’ira del re Erode, quindi tornato in tutta la sua potenza per redimere il mondo; questa storia fa parte della tradizione celtica da oltre mille anni ed è così vicina ai racconti nativi che, invece di competere con esse, continua a dar loro potere mantenendoci in contatto con lo schema mitico che esprimono.
Nonostante sia la notte più lunga a dare al Solstizio d’Inverno la sua importanza rituale, la celebrazione vera e propria non si limitava a quell’unica giornata, ma si estendeva per un periodo più o meno lungo, andando talvolta oltre i familiari “dodici giorni d Natale” fino a coprire anche tre settimane intere! Nella società rurale tradizionale non si trattava di una festa intima da trascorrere in famiglia com’è diventata oggi, ma coinvolgeva numerose attività comunitarie, spesso eseguite all’aperto. Queste ultime, tratte in modo eclettico da svariati influssi culturali, variavano da comunità a comunità, sebbene comprendessero di solito eventi sportivi, musica, processione, divinazione, e ovviamente un sacco di roba da mangiare e da bere. Il costume di bruciare il tronco di Yule, sebbene d’origine germanica, si naturalizzò in alcune aree celtiche prendendo talvolta le caratteristiche che ne hanno assicurato la continuità con la tradizione celtica precedente. In alcune parti della Scozia, per esempio, il tronco veniva scolpito nella forma di una donna, la Cailleach Nollag (“Megera di Natale”), e il suo lento bruciare su un fuoco di torba rappresentava la sconfitta della Dea nel suo aspetto sterile e minaccioso: i giorni del Suo regno erano contati, grazie alla nascita del Figlio della Luce.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica, di Alexei Kondratiev


lunedì 20 dicembre 2010

Riflessioni su Natale - Yule

Il Solstizio d'Inverno è la Porta degli Dei
In questo periodo dell’anno si è chiuso un ciclo, il ciclo della discesa nella profondità della nostra anima. Un altro giro di ruota sta per compiersi, un ennesimo giro per riprendere lo stesso ciclo ma su un piano più avanzato, in una spirale infinita. Sta iniziando la nostra Risalita, se abbiamo lavorato bene su noi stessi, scavando a fondo dentro la nostra anima, affrontando l’Ombra reintegrandola, può nascere e accrescersi la nostra Luce Interiore. Questa festa celebra la Luce che rinasce dall’Ombra. Tutto quello che ormai non ci serve più va lasciato andare. Questa nuova luce interiore, come quella del Bambino Divino andrà accolta, coccolata e nutrita affinché cresca bene, si fortifichi e produca i suoi frutti quando verrà il tempo del Raccolto.
Si passa dallo stadio alchemico della Nigredo, quello in cui ci siamo dissolti nella nostra morte simbolica, alla fase del Solve et Coagula. Nella Nigredo abbiamo incontrato ombre, mostri, demoni, come quando Ercole dovette affrontare dodici imprese quasi impossibili. Abbiamo fatto pulizia di tutte le nostre impurità e abbiamo percorso un tratto verso l’auto-conoscenza. Riducendo un problema nella sua essenza abbiamo causato la decomposizione, la putrefazione di ciò che ci impediva di vedere chi siamo realmente. La fase della Nigredo è governata da Saturno, simbolo del caos, della materia grezza, Dio della morte e della putrefazione dalla quale sorgerà una nuova vita, ma anche Dio della fertilità, poiché Saturno è nero come la terra nera fertile. Viene raffigurato con una falce nella mano destra e l’Ouroboros nella sinistra: ogni cosa ha un’alba e un tramonto, così come l’ultimo mese dell’anno raggiunge il primo, per poi ripartire nuovamente senza distacco.
Semina e mietitura sono aspetti senza interruzione di continuità, poiché dalla pianta vengono generati i semi che nuovamente segneranno la nuova rigenerazione.
Il fatto che il serpente sia un animale che di continuo ringiovanisce, grazie alla muta della sua pelle, ne fa maggiormente un simbolo di rinnovamento e cambiamento.
Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Occultum Lapidem o anche Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Operae Lapidem. Il V.I.T.R.I.O.L. alchemico che ci dà la sintesi del processo: Visita l’interno della terra, cioè la profondità del tuo essere e distillando, troverai la Pietra nascosta, o la Pietra dell’Opera.
È nel regno di Saturno che si deve rettificare ed è Saturno il detentore della Pietra Filosofale, o meglio il seme da cui deve nascere l’Uomo, quindi la Semina per eccellenza.
Saturno è anche colui che divora i suoi figli, questo richiama al simbolismo dello smembramento. Tutte le iniziazioni sciamaniche prevedono una fase di "smembramento", ovviamente simbolico, dell'aspirante iniziato, a cui fa seguito una "ricomposizione sacra" del corpo che in questo modo acquisisce virtù soprannaturali; il candidato acquista infatti il potere di staccare di propria iniziativa lo spirito dal corpo e di intraprendere i grandi viaggi mistici.
Lo "smembramento", ossia la dissoluzione del nocciolo duro del Sé, corrisponde alla "sostanza mescolata" di Yule, in parole povere per rendere questo passaggio comprensibile, possiamo immaginare che nello spirito dell'uomo, o se preferite nella sua psiche, vi siano due componenti, l'Aquila e il Serpente, il Sole e la Luna, Yang e Ying, Destro e Sinistro, una diurna, razionale, cosciente, ed una notturna, intuitiva, inconscia.
Queste due parti devono essere "smembrate" e "mescolate", con l'aggiunta di una “terza parte”, di origine superiore, divina, il cosiddetto "Ramo d'Oro", il Fuoco Filosofico. Questa "sostanza mescolata" dovrà poi subire la "purificazione" (Candelora) fino a condurre alla formazione della Pietra, ossia della nuova coscienza e dei poteri ad essa collegati, attraverso le fasi di Albedo (Candelora – Imbolc) e di Rubedo (Beltane). Solve et Coagula!
Una delle più antiche descrizioni di questo processo si ha nel mito di Osiride degli antichi Egizi. Il corpo di Osiride, ucciso con l'inganno dal malvagio Seth, venne gettato nelle acque dei Nilo chiuso in un sarcofago. Giunto presso la foce del fiume fu avvolto da una pianta di erica, così bella e profumata, che il re di quelle terre la fece tagliare per farne una colonna per il proprio palazzo. lside (sposa e sorella di Osiride) dopo lunghe ricerche giunse proprio in quel palazzo, ritrovò il corpo di Osiride e lo nascose in un canneto. Seth però, mentre inseguiva un cinghiale (animale simbolico del passaggio da Yule a Imbolc), s'imbatte proprio nel luogo in cui il corpo di Osiride è nascosto, allora, infuriatosi, lo smembra in 14 parti (una per ogni notte di Luna calante) che disperde per tutto l'Egitto. Sarà poi Anubi, grazie alla sua magia, a ricomporre il corpo di Osiride donandogli in questo modo l'immortalità e i poteri di un dio.
Osiride è quindi “scampato dalle acque”. Ciò richiama al fatto che spesso i Grandi Iniziati sono per l’appunto gli “scampati dalle acque”. Un altro nome di Yule è proprio il “Regno delle Acque”, che sottolinea uno stadio fluidico, mescolato, altamente in potenza e ancora quasi totalmente inconscio.
Da notare che lo "smembramento" ha luogo solo dopo che Iside e Osiride si sono ricongiunti, cioè dopo che la parte lunare e solare si sono unite. Da quell'unione lside partorirà Horus, ovvero l'Oro dei filosofi.
L'Anno Magico è la forma più evoluta e più perfetta di Iniziazione, poiché attinge dalle fonti più pure ed elevate e non richiede nessun vero sacrificio a chi lo segue. Anzi, ogni Festival è innanzitutto ricco di doni materiali, nel rispetto dell'antica tradizione occidentale, ma la nostra Pietra, quando sarà perfetta e coloro che ci hanno preceduto in questo cammino già lo sanno, non avrà nulla da invidiare alle forme esoteriche primitive, e sarà addirittura molto più fulgida e potente.
Yule è da sempre sinonimo di realizzazione di un importante desiderio. In particolare in questo giorno è possibile realizzare un importante desiderio, ma uno solo, che deve essere scelto tra: denaro, amore, equilibrio.
"La putrefazione è così efficace che distrugge la vecchia natura e la vecchia forma dei corpi in decomposizione, li trasmuta in un nuovo stato dell’essere per dar loro un frutto completamente nuovo. Tutto ciò che vive, muore; tutto ciò che è morto si putrefà e trova nuova vita”.
(Pernety, 1758).
Abbiamo detto che questo è l'inizio della fase Solve et coagula, morte e rinascita, purificazione ed elevazione.
Solve: rottura degli elementi, dissolvenza delle forzature, degli stati negativi del corpo e della mente. Coagula: coagulazione degli elementi dispersi nella fase “Solve”, la nuova sintesi degli elementi.
Nel ciclo di guarigione di Avalon il Solstizio rappresenta l’inizio del Confronto che culmina a Imbolc, il primo passo per la nostra presa di coscienza, dopo il lavoro con la nostra Ombra e l’esplorazione del Sé nella Stazione della Discesa. Il Confronto caratterizza la stabilità prima della Riemersione. Ci vuole molto coraggio per immergersi nell’oscurità dell’Ombra, rivelando tutto quello che è nascosto e lavorando per conoscere i meccanismi del Sé inferiore. Quello che  scopriamo durante il lavoro della Discesa può guarire le ferite che hanno motivato le nostre azioni. Armati della consapevolezza che proviene dallo scoprire l’origine di quello che ci affligge, possiamo cominciare la nostra Ascesa, portando quello che una volta era nascosto alla luce della coscienza. Siamo giunti nel fondo del calderone di Ceridwen. La nostra successiva trasformazione, come nella storia di Taliesin, sarà in lepre, con la Dea che ci incalza a sua volta sotto le spoglie di segugio. Le associazioni a questa Stazione sono l’elemento terra, il Tor nell’area geografica di Glastonbury, il chakra alla base della spina dorsale, la luna nera e la Dea Ceridwen. In questa fase possiamo chiamare con il suo nome quello che ci blocca e in ciò risiede un grande potere. Si libera l’energia psichica che altrimenti sarebbe per sempre costretta a perpetuare gli impulsi del Sé inferiore. Più a fondo andiamo nel periodo della Discesa e più in alto saliamo nel periodo della Riemersione preparato dal Confronto. È dal Confronto che attingiamo la nostra energia per ricreare il nuovo Sé, ma non c’è niente da temere in questo lavoro: ci verrà presentato solo quello che saremo pronti a vedere. I limiti del Viandante sono come delle porte chiuse gelosamente a chiave, non si apriranno se non è ancora Tempo che si aprano.
Le porte solstiziali sono controllate dai due Giovanni: il Battista al solstizio estivo e l'Evangelista a quello invernale.
Il solstizio stesso è chiamato "la porta", un tempo custodita dal guardiano Giano Bifronte (con l'avvento del cristianesimo il romano Giano dai due volti ha ceduto il posto ai due Giovanni) che sono il simbolo di una contemporanea esistenza di due dimensioni, che durante i solstizi si congiungono, le porte sono aperte ed è permesso il varco, poiché, come si è detto, è il tempo della morte simbolica dell'adepto che si avvicina al rito iniziatico. Giano è l'Attimo dell'inizio, il momento del “varcare la  Soglia”. La sua natura bifronte mette in contatto due eventi temporali antitetici come passato e futuro, rappresentati dal volto vecchio e da quello giovane, così egli è la stessa Porta, intesa come contemporanea esistenza di due dimensioni diverse. I solstizi stessi erano chiamati "porte" in cui da una parte entrano gli uomini, dall’altra escono gli Dei. Ora sono i due Giovanni a "sorvegliare" i varchi solstiziali, e ancora adesso da una parte entrano gli uomini, dall'altra escono gli Dei, ossia coloro che si sono elevati grazie all'iniziazione.
Il Solstizio d’Inverno è presieduto dall’arcangelo Gabriele, le cui forze hanno la facoltà di condensare la materia, l’arcangelo della luna che si occupa della realizzazione della materia sulla Terra. Quando l'alchimista desidera materializzare un'idea, un progetto, utilizza questa festa affinché si verifichi quanto gli è più caro; nell'Universo vi sono tutte le condizioni favorevoli per poterlo fare. L’Arcangelo Gabriele e le schiere al suo servizio sono custodi di tutte le madri, le future madri e dei nuovi nati del regno umano e di quello animale. Egli fu il compagno e l’istruttore della Madonna attraverso tutti gli anni della sua vita su questo pianeta. È ampiamente attestato, inoltre, che Gabriele sia il custode delle forze della natura, durante l’intervallo tra il 21 dicembre ed il 21 marzo ed infatti, in questo periodo, le nuove correnti divengono attive ed inondano i piani interni con le loro vibrazioni ed il loro potere. Verso l’ultima parte di questo intervallo, esse si manifestano sul piano fisico, in una marea di bellezza che l’uomo chiama Primavera. Ogni anno, nella stagione di Natale, legioni di Angeli ed Arcangeli, sotto la direzione di Gabriele, imprimono sul mondo, il segno dell’eterna Madonna. L’umanità è intuitivamente cosciente del potere che promana da questa impronta, tanto che il tema principale della sua devozione nel tempo natalizio, è la Madre col Bambino.
Quindi in questo tempo, che è il  più propizio dell’anno per passare attraverso il portale dell’Iniziazione ed elevarsi ai portali superiori,  si viene accompagnati dai cori celesti.

Da miei appunti vari e da http://www.9999.vg/festival/yule.htm



sabato 18 dicembre 2010

Celebrare Natale - Yule


La natura in questo tempo si riposa per prepararsi a vivere un nuovo ciclo e anche per noi sarebbe fisicamente opportuna una pausa, approfittando magari delle vacanze natalizie per dedicarci alla lettura, alla meditazione, a esercizi di rilassamento. Una cosa piacevole sarebbe l’idromassaggio, una pratica rilassante e allo stesso tempo simboleggiante le acque uterine da cui vogliamo rinascere per l’anno a venire. Purtroppo tutto congiura contro un salutare riposo solstiziale. Infatti questo periodo dell’anno, per l’accumularsi di celebrazioni, feste e acquisti di regali può portare a stress e ansia. La forzata allegria, la caduta della routine quotidiana, il consumismo esasperato, sono tutti elementi che possono condurre a sentimenti di depressione e isolamento. Sarà la minor quantità di luce solare, sarà l’essere costretti a mostrare un aspetto felice, ma questo è uno dei periodi dell’anno con il più alto picco di suicidi. Tuttavia, se ricordiamo che questo tempo è quello in cui siamo più lontani dal Sole e contemporaneamente anche consapevoli della sua rinascita, possiamo provare a trattenere quella piccola luce in noi. Il Solstizio può essere per noi un momento molto calmo e importante, in cui nella silenziosa e oscura profondità del nostro essere, noi contattiamo la scintilla del nuovo sole. Questa è anche un’opportunità per gioire e abbandonarci a sentimenti di ottimismo e di speranza: come il sole risorge, anche noi possiamo uscire dalle tenebre invernali rigenerati. Ci sono tanti modi per celebrare a livello spirituale questa festa: possiamo decorare la nostra casa con le piante del Solstizio oppure fare un albero solstiziale. Non un solito albero natalizio, bensì un albero decorato con tante piccole raffigurazioni del sole. O ancora possiamo alzarci all’alba e salutare il nuovo sole. Si possono accendere candele o luci per rappresentare la nascita delle nostre speranze per il nuovo anno. Possiamo anche compiere una celebrazione più rituale, con l’accensione del ciocco. Anche se non abbiamo un caminetto in casa possiamo accenderlo nel nostro giardino, o in un prato insieme ai nostri amici. Si prende un grosso pezzo di legno di quercia e lo si orna con rametti di varie piante: il tasso (a indicare la morte dell’anno calante), l’agrifoglio (l’anno calante stesso), l’edera (la pianta del dio solstiziale) e la betulla (l’albero delle nascite e dei nuovi inizi). Si legano i rametti al ciocco usando un nastro rosso. Se abbiamo celebrato questo rito anche l’anno precedente e abbiamo un pezzo non combusto del vecchio ciocco, accenderemo il fuoco con questo. Si dice: “Come il vecchio ciocco è consumato, così lo sia anche l’anno vecchio”. Quando il ciocco prende fuoco si dice: “Come il vecchio ciocco è consumato, così lo sia anche l’anno vecchio”. Quando il ciocco prende fuoco si dice: “ Come il nuovo ciocco è acceso, così inizi il nuovo anno”. Una volta che il ciocco è acceso osserviamo le sue fiamme e meditiamo sulla rinascita della luce e sulla nostra rinascita interiore. Accogliamo le nostre speranze, i nostri sogni per il futuro e salutiamo questa luce dicendo: “Benvenuta, luce del nuovo sole!”. Brindiamo con vino brulé (in sostituzione del wassail nord-europeo) e consumiamo dolci, lasciando una parte del nostro festino per la Madre Terra. Se sono con noi amici e familiari doniamo loro rami di vischio. Più tardi le ceneri del ciocco potranno essere sparse nel nostro giardino o nei vasi delle piante che teniamo in casa per propiziare la salute e la fertilità della vegetazione.
Un modo simpatico per celebrare il Solstizio di Inverno è quello del ramo dei desideri, un rituale della tradizione celtica bretone. Nove giorni prima del Solstizio occorre procurarsi un ramo secco di buone dimensioni, pitturarlo con vernice dorata e appenderlo nell’anticamera della propria abitazione, con un pennarello e alcune strisce di carta rossa da tenere lì vicino. Chiunque entri in casa se vuole, potrà scrivere un proprio desiderio su una striscia di carta, che verrà ripiegata per garantire la segretezza del desiderio e legata al ramo con un nastrino colorato. Quando nove giorni dopo si accende il fuoco del Solstizio (nel caminetto di casa o in un falò nel giardino o nel campo) il ramo viene sistemato sulla legna da ardere ed i desideri che sono appesi ad esso bruciando saliranno col fumo sempre più in alto, finché verranno accolti da entità celesti e chissà, forse esauditi.

Da Feste Pagane di Roberto Fattore, Macro Edizioni

venerdì 17 dicembre 2010

Natale – Yule - Seconda parte


Le attuali decorazioni natalizie richiamano l’antica usanza di mantenere vivo lo spirito della vegetazione con piante sempreverdi. In analogia al Solstizio d’Estate, anche il Solstizio d’Inverno è ricco di simboli vegetali.
L’albero di Natale, l’abete, rappresenta in realtà l’Albero del Cosmo delle mitologie nordiche. Se appendiamo ai suoi rami luci e frutti dorati è per celebrare il mito solare. L’Albero di Natale ha in effetti origini pre-cristiane. Si attribuisce la sua introduzione a Martin Lutero, nella Germania del XVI° secolo, ma la parola tedesca per l’albero non è Kristenbaum bensì Tannenbaum, parola collegata a Tinne o Glas-tin (gli alberi sacri dei Celti). La parola Tin o Tanne era usata per una quercia sempreverde (di qui il nome tannino, l’acido estratto dalla corteccia e usato per la concia delle pelli) e quindi abbiamo un ulteriore rinvio al Re della Quercia.
L’agrifoglio, invece, con le sue bacche rosse allude al sole e ghirlande di agrifogli simboleggiano la Ruota dell’Anno. In certi luoghi delle Isole Britanniche un uomo vestito di nero (colore saturnino!) o con la faccia tinta di nerofumo era il Ragazzo dell’Agrifoglio, la persona designata a entrare per prima nelle case il giorno del Solstizio. Una mazza di agrifoglio era il bastone di Saturno con il quale si uccideva un asino durante i Saturnali. Per le loro associazioni con il Dio dell’Anno Calante, ancora oggi in Irlanda, le decorazioni di agrifoglio vengono spazzate via dalle case dopo Natale perché porta sfortuna conservare i simboli dell’anno vecchio. Tinnìe la parola irlandese per agrifoglio è ritenuta collegata alla parola Glas-Tin che in Cornovaglia significa “albero sacro”: ciò ha fatto ipotizzare che Glastonbury, la località britannica considerata il luogo di sepoltura del mitico re Artù, fosse stata anticamente un bosco di alberi sacri ove magari crescevano agrifogli e querce. L’agrifoglio era collegato folkloricamente all’edera, simbolo di vita e di rinascita a motivo della sua crescita a spirale, e considerato l’arbusto in cui si nasconde lo scricciolo. Nelle antiche usanze britanniche l’edera era utilizzata come decorazione natalizia e si combattevano scherzose battaglie a base di canti satirici tra le Ragazze dell’Edera e i Ragazzi dell’Agrifoglio. Forse ciò rappresentava uno scontro tra la parte dell’anno dominata da una divinità maschile e quella dominata da una divinità femminile. “Fanciulla dell’edera” era chiamato l’ultimo covone di grano mietuto e questo ci conduce al tema agrario e cerealicolo del Solstizio. Lo scrittore Robert Graves riteneva che la foglia a cinque punte dell’edera simboleggiasse il misterioso gruppo delle cinque dee dell’Antica Britannia, le Deae Matronìae che ricorrono in numerose iscrizioni dell’epoca romana e che forse presiedevano i duelli solstiziali dei due Re. Ma è anche probabile che l’edera rappresentasse il nuovo sole, il Dio risorto, dato che era una pianta sacra a Dioniso e a Osiride.
Nel folklore britannico la morte del Re dell’Anno Calante è tuttora celebrata con la caccia e luccisione dello scricciolo (uccello totemico di Saturno) ad opera del pettirosso, l’uccello dell’Anno Crescente. In certe località irlandesi, il 26 dicembre i “ragazzi dello scricciolo”  girano per le case con rami di agrifoglio, chiedendo doni. In altri luoghi a girare sono gruppi di musici adulti, con una piccola effige di uno scricciolo su un ramo di agrifoglio. Non esistono corrispondenti tradizioni estive della caccia al pettirosso, anche se la curiosa credenza irlandese secondo cui i bambini nati alla Pentecoste e ritenuti in pericolo di vita potevano salvarsi se fra le loro mani veniva schiacciato un non specificato uccellino, può suggerire il sacrificio rituale del pettirosso simbolo del Re della Quercia, che si prende la rivincita in inverno. Nei mumming plays irlandesi San Giorgio uccide l’oscuro “Turco”  gridando poi di avere ucciso il suo stesso fratello: luce ed oscurità sono complementari ed inseparabili, così alla fine di queste rappresentazioni folkloriche giunge un misterioso “Dottore” che resuscita con un elisir il personaggio ucciso. Questo equilibrio di buio e luce è stato distorto nel corso dei secoli in una lotta fra bene e male. In molte località europee le campane delle chiese per secoli suonarono il “rintocco funebre del diavolo” nell’ultima ora della vigilia di Natale, avvisando che Cristo stava arrivando per distruggere Satana. Curiosamente, il soprannome inglese del diavolo “Old Nick” ci invia a Nik, un nome del dio nordico Odino, e a San Nicola, che nell’antico folklore cavalcava un cavallo bianco nel cielo, proprio come Odino. Questo santo com’è noto, si è poi trasformato nel Santa Claus americano, l’odierno Babbo Natale e ultima incarnazione del Dio Agrifoglio, l’anno calante, il Saturno vecchio e morente ma dispensatore di doni e di saggezza analogo al dio celtico Bran e come questo signore del benefico caos solstiziale). Babbo Natale vive al Polo Nord e il nord è la direzione simbolica degli spiriti, la terra dei morti. Incidentalmente, in Italia Babbo Natale è sostituito o affiancato dalla Befana, la strega benefica che altri non è che la Vecchia Dea dispensatrice di nuova vita.
Anche la mela, frutto simbolo di Samhain (Capodanno celtico così come il solstizio è Capodanno astronomico), ha giocato un ruolo importante nelle tradizioni solstiziali. Durante i secoli XIV e XV in molte località europee venivano appese mele a rami sempreverdi per usarli in rappresentazioni sacre la vigilia di Natale, chiamata nel Medio Evo anche Giorno di Adamo ed Eva. In queste rappresentazioni sacre i rami con le mele indicavano l’albero dell’Eden. Ma più importante era il significato della continuità della vita spirituale che si manifesta nel continuo ciclo delle stagioni. Nell’epoca più buia dell’anno occorreva mimare il ritorno del sole e un modo semplice per fare questo era adornare rami di sempreverdi con simboli di abbondanza, di luce e di primavera, come frutti e candele accese. L’uso delle mele era molto antico e si ricollegava all’usanza pagana sassone del wassailing (dal sassone wes hai = essere in buona salute) che consisteva nel recarsi di un gruppo di persone nei frutteti al Solstizio d’Inverno con un recipiente di wassail, cioè di sidro bollito e speziato. Il sidro era spruzzato sui rami e versato intorno alla base di un albero scelto a rappresentare tutti gli altri. Danze e canti accompagnavano questo rito che aveva lo scopo di garantire futuri abbondanti raccolti.
Il Solstizio d’Inverno cela tra le sue molteplici manifestazioni anche quelle legate ad un simbolismo granario. San Girolamo, che visse a Betlemme fra il 386 e il 420, scrisse che là c’era un bosco sacro ad Adone o Tammuz, come era chiamato in Palestina. Tammuz, amato dalla dea Ishtar, è il tipico dio morente e risuscitato, Signore della vegetazione e del grano. La religione cristiana assimilò ben presto questo simbolismo nel sacramento dell’eucarestia. La risonanza del ciclo del grano con quello del sole si riflette ancora in molte usanze, come quella scozzese di conservare fino a Yule la Fanciulla del Grano, la bambola costruita con le spighe dell’ultimo covone mietuto, per poi darla come cibo al bestiame per farlo prosperare. Oppure, nell’usanza, diffusa in molte regioni europee, di spargere le ceneri del ciocco di Natale sui campi di grano.
La tradizione del ciocco è quella che, forse più di tante altre, ha fuso in unico simbolo il mito della luce solare e quello del dio che muore per rinascere dalle proprie ceneri. Il ceppo, di solito di legno di quercia (l’albero del Dio dell’anno crescente, trionfante al Solstizio d’inverno…), veniva portato nelle case la sera della vigilia, ornato di sempreverdi e annaffiato di vino, per essere acceso nel caminetto dal membro più giovane o più anziano della famiglia (il nuovo o il vecchio sole…) Spento il giorno dopo, veniva riacceso ogni sera nelle fatidiche 12 notti fino all’Epifania.  La cenere era sparsa intorno all’orto contro i parassiti o sulle travi di casa a protezione dai fulmini.  I carboni erano riaccesi quando minacciava la grandine. Il pezzo che restava era utilizzato per accendere il ciocco dell’anno successivo, a simboleggiare la forza della vita che passa da una modalità dell’esistenza all’altra, in un ciclo senza fine.
In Scozia e Cornovaglia si bruciava un ceppo con una figura umana rozzamente scolpita su di esso, vestigia di un antichissimo sacrificio divino. Il ciocco ci riconduce al simbolo del pettirosso tramite una curiosa credenza. Il nome inglese dell’uccello, Robin Redbreast, richiama infatti Robin Hood e Hood significa ciocco di legno. Nel ciocco di legno di quercia si credeva risiedesse questo spirito. “Cavallo di Robin Hood” era chiamato il pidocchio del legno che fuggiva quando il ciocco veniva acceso; Robin stesso fuggiva dal camino in forma di pettirosso  e a Yule si muoveva contro il Dio dell’Anno Calante. Per gli antichi Ittiti il dio Alalu, il cui nome significa ciocco, personificava il destino. Così il ciocco ci riconduce al significato più autentico della festa solstiziale: il grande cerchio dell’essere dove buio e luce, morte e vita, passato e futuro si intrecciano e si trasformano l’uno nell’altro in quella eterna danza cosmica che è il destino di tutto ciò che esiste. La pianta sacra del Solstizio d’inverno è il vischio, pianta simbolo della vita in quanto le sue bacche bianche e traslucide somigliano allo sperma maschile. Il vischio, pianta sacra ai druidi, era considerata una pianta discesa dal cielo, figlia del fulmine, e quindi emanazione divina. Equiparato alla vita per la sua somiglianza allo sperma, ed unito alla quercia, il sacro albero dell’eternità. Questa pianta partecipa sia del simbolismo dell’eternità che di  quello dell’istante, è simbolo di rigenerazione ma anche di immortalità. I druidi tagliavano ritualmente ai solstizi i rami di vischio con un falcetto d’oro, strumento che univa in sé il simbolo del sei e quello della luna. La pianta era chiamata il tutto-sana (in gaelico irlandese uile-iceadh, in gaelico scozzese uil-ioc), medicina universale, dono del risanante momento dell’eternità. Ancora adesso baciarsi sotto il vischio è un gesto propiziatorio di fortuna e la prima persona a entrare in casa dopo il solstizio deve portare con sé un ramo di vischio. Queste usanze solstiziali sono state trasferite al primo gennaio: il Capodanno dell’attuale calendario civile.

Da Feste pagane di Roberto Fattore, Macro Edizioni

giovedì 16 dicembre 2010

Natale - Yule - Prima parte


Mentre l’anno volge al termine, nelle terre dell’emisfero boreale a clima temperato le notti si allungano e le ore di luce sono sempre più brevi, fino al giorno del Solstizio invernale, il 21 dicembre. Solstizio, dal latino “sol stat”, “il sole si ferma”. E difatti il sole per circa tre giorni sorge sempre nello stesso punto. Il respiro della natura è sospeso, nell’attesa di una trasformazione, e il tempo stesso pare fermarsi. È uno dei momenti di passaggio dell’anno, forse il più drammatico e paradossale: l’oscurità regna sovrana, ma nel momento del suo trionfo cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume invernali. Dopo il Solstizio, la notte più lunga dell’anno, le giornate ricominciano poco alla volta ad allungarsi. Come tutti i momenti di passaggio, il Solstizio d’Inverno è un periodo carico di valenze simboliche e magiche, dominato da una costellazione di miti e di simboli, echi ancestrali di un passato lontanissimo e dei quali abbiamo ormai perso il significato originario. E tuttavia, nelle moderne celebrazioni natalizie e di fine anno è ancora possibile discernere i simboli di tradizioni primordiali sotto la loro attuale veste, cristiana o consumistica che sia.
Cerchiamo per un attimo di immaginare come viveva l’antica umanità questo periodo dell’anno, in epoche prive della tecnologia moderna e nelle quali buio e gelo erano sinonimi di fame e morte. Dalla Siberia alle Isole Britanniche, passando per l’Europa Centrale e il Mediterraneo, era tutto un fiorire di riti e cosmogonie che celebravano le nozze fatali della notte più lunga col giorno più breve. Due temi principali si intrecciavano e si sovrapponevano, come i temi musicali di una grande sinfonia. Uno era la morte del Vecchio Sole e la nascita del Sole Bambino, l’altro era il tema vegetale che narrava la sconfitta del Dio Agrifoglio, Re dell’Anno Calante, ad opera del Dio Quercia, Re dell’Anno Crescente. Un terzo tema, forse meno antico e nato con le prime civiltà agrarie, celebrava sullo sfondo la nascita-germinazione di un Dio del Grano…
Se il sole è un dio, il diminuire del calore e della sua luce è visto come segno di vecchiaia e declino. Occorre cacciare l’oscurità prima che il sole scompaia per sempre. Le genti dell’antichità, che si consideravano parte del grande cerchio della vita, ritenevano che ogni loro azione, anche la più piccola, potesse influenzare i grandi cicli del cosmo. Così si celebravano riti per assicurare la rigenerazione del sole e si accendevano falò per sostenerne la forza e incoraggiarne, tramite la cosiddetta “magia simpatica” la rinascita e la ripresa della sua marcia trionfale. L’inverno era pericoloso, non solo per il freddo e la scarsità di cibo, ma anche perché vagavano sulla Terra spiriti di defunti, vampiri e licantropi, entrati nel varco che si era aperto alle calende di novembre, Samhain (l’attuale Ognissanti). In un anno di tredici mesi lunari e di ventotto giorni ciascuno, resta inevitabilmente fuori un giorno, il giorno senza nome che rappresenta una frattura nel ciclo del tempo, il ritorno del Caos primordiale. Il Solstizio è insieme festa di morte, trasformazione e rinascita. Il Re Oscuro, il Vecchio Sole, muore e si trasforma nel Sole Bambino che rinasce dall’utero della Dea: all’alba la Grande Madre Terra dà alla luce il Sole Dio. La Dea è la vita dentro la morte, perché anche se ora è regina del gelo e dell’oscurità, mette al mondo il Figlio della Promessa, Il Sole suo amante che la rifeconderà riportando calore e luce al suo regno. Anche se i più freddi giorni dell’inverno ancora devono venire, sappiamo che con la rinascita del sole la primavera ritornerà.
I Celti consideravano il sole che si levava fino alla vigilia del Solstizio un sole-ombra, mentre quello vero era prigioniero di Arawn, re del Mondo-di-Sotto. Questo vero sole rinasceva dal grembo di Ceridwen, la vecchia Dea-Strega dell’inverno. Nella tradizione druidica moderna il solstizio prende il nome di Alban Arthuan, “Luce di Artù”, dove il Dio Sole rinasce in questo giorno come il re Artù che dorme in una grotta segreta nelle montagne gallesi si risveglierà un giorno per portare un’epoca di pace e di prosperità.
I grandi monumenti megalitici della preistoria sono testimonianze mute ma possenti di questa tradizione. A Stonehenge, il cerchio di pietre eretto in Inghilterra tra il 3100 e il 1700 a.C. il sole del Solstizio sorge all’alba attraverso il trilite di Sud-Est e proprio sopra la Altar Stone, la Pietra Altare. I costruttori di dolmen e menhir possedevano una notevole sapienza astronomica e appare evidente il loro interesse per il solstizio invernale e per la posizione della luna in questo periodo: si è già visto come il Nuovo Sole era inseparabilmente legato alla Vecchia Strega lunare,  regina dell’inverno. Forse i monumenti preistorici erano teatro di danze rituali in cerchio che, combinate con le energie delle grandi pietre, avevano lo scopo di rigenerare i poteri della vita. A Newgrange, in Irlanda, il simbolismo era più spettacolare: nell’enorme tumulo eretto verso il 3200 a.C., un raggio del sole che sorge all’alba del solstizio percorre esattamente un lungo e strettissimo corridoio per illuminare la piccola cella interna. Molto più tardi, i Celti narreranno che Lugh, dio della luce, era stato sepolto a Newgrange, tomba e utero della sua rinascita.
Sono numerose le tradizioni che vedono nascere un dio del sole o della luce in una caverna. Il sole emerge dall’utero-caverna della Dea o, per usare un altro linguaggio, il buio è l’oscurità alchemica in cui si forma la splendente pietra filosofale.  In una grotta, simbolo del cosmo stesso, nascono Dioniso, Hermes, Zeus. Ad Atene il rituale del Solstizio erano le Lenee, la festa delle Donne Selvagge, in cui si celebravano ad un tempo la morte e la rinascita di Dioniso. Grotte addobbate di fiori commemoravano la nascita del dio, sacrificato in precedenza come capretto dai Titani. I Cretesi uccidevano e mangiavano un toro quale sostituto di Dioniso. E come toro veniva adorato e sacrificato un altro dio solstiziale, il persiano Mithra, che nasceva il 25 dicembre in una grotta, così come grotte erano i suoi santuari di iniziazioni. In Egitto era Iside a circumambulare sette volte, sotto forma di vacca aurea, l’altare di Osiride per cercare le parti del suo cadavere smembrato, raffigurando la ricerca del sole in inverno da parte della Dea. Le case erano decorate con lampade a olio che ardevano tutta la notte. A mezzanotte i sacerdoti uscivano dal santuario gridando: “La Vergine ha partorito! La luce è crescente!” e mostrando un’immagine del bambino ai fedeli. La sepoltura di Osiride, il Vecchio Sole assassinato dal fratello Seth, il dio dalla testa di asino, avveniva il 21 dicembre. Il 23 Iside dava alla luce il figlio Horus, il Nuovo Sole e al tempo stesso il Signore dei raccolti. Horus e Osiride rappresentano contemporaneamente gli aspetti solari e vegetali della divinità, fondendo nel suo mito i tre temi mitici del Solstizio e insegnandoci che morte e vita sono inseparabili: ogni nuova nascita ci porta più vicini alla morte. Il Vecchio Dio deve venire a patti con le implicazioni di questa verità perché solo così può rinascere attraverso il figlio. Il Natale è la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio (337-352 d.C.) al duplice scopo di celebrare Gesù Cristo come “Sole di Giustizia” e creare una celebrazione alternativa alla più popolare festa pagana dell’epoca. Il 25 dicembre infatti, quando il nuovo sole è già salito percettibilmente sull’orizzonte, era a Roma il Dies Natalis Solis Invicti, la festa in onore del Sole Invincibile istituita dall’Imperatore Aureliano per celebrare il sole quale manifestazione della divinità che governa il cosmo. La nuova religione cristiana assorbì gran parte dei significati di questa festa, così come, più tardi, assorbì le usanze legate alla festività nord-europea di Yule (dal norvegese iul, “ruota”, ad indicare la ruota o ciclo dell’anno).
A Roma vi era una festa molto più antica di quella del Sole Invincibile: fra il 17 e il 23 dicembre si celebravano i Saturnali. In ogni città e villaggio veniva nominato un Rex Saturnaliorum che regnava per una settimana fra banchetti, giochi e orge, mentre gli schiavi prendevano il posto dei padroni e viceversa. La libertà e il caos non erano altro che il ricordo della mitica Età dell’Oro, un’epoca felice di abbondanza e uguaglianza in cui aveva regnato Saturno. Solo durante i Saturnali veniva ammesso il gioco d’azzardo, non uno semplice svago ma un atto rituale oracolare, teso ad interpretare la volontà degli dei. La falce di Saturno era in realtà un lituus, il bastone ricurvo usato dagli auguri per vaticinare il futuro. E i dadi dell’antica Roma erano forse il residuo di un antichissimo gioco oracolare: “sortes” erano in latino i dadi, nome che rimanda alla lettura dei destini. La moderna tombola ha ereditato questo valore, con i suoi significati scherzosi attribuiti ai 90 numeri, mentre ancor oggi fioriscono le vecchie usanze divinatorie, come quella secondo cui è possibile trarre pronostici sui 12 mesi dell’anno a venire osservando i 12 giorni che separano il Natale dall’Epifania. Tutti i momenti critici dell’anno sono fratture tra i mondi umani e quelli ultraumani, sono tempi fuori dal tempo, in cui passato, presente e futuro si mescolano, e di conseguenza momenti propizi per le arti divinatorie. Gli antichi Greci chiamavano il Solstizio invernale “porta degli dei”, considerandolo il confine tra il nostro mondo e una dimensione non-spaziale e non-temporale. Per questa porta si accede ad uno stato super-individuale, divino, il regno degli dei.
Un’altra tradizione tramandata dai Saturnali è quella dei doni: in epoca imperiale a Roma ci si scambiava lumi accesi, simbolo della luce crescente. Alla fine dei Saturnali il Rex Saturnaliorum era ucciso simbolicamente (o forse realmente in epoche remote), e Saturno nuovamente legato, perché la frattura spazio-temporale si era richiusa e l’Età dell’Oro poteva essere instaurata definitivamente solo alla fine di un intero ciclo cosmico.
Saturno veniva imprigionato da Giove: questo ricorda chiaramente il tema delle due divinità che si combattono, la metà crescente e quella calante dell’anno o, come appare in certi miti di origine celtica, il Re della Quercia e il Re dell’Agrifoglio.

Da Feste pagane di Roberto Fattore, Macro Edizioni