domenica 23 dicembre 2012

La Befana e il ramo volante



Nelle Befanate profane recitate nel contado toscano il viaggio della Befana è percepito come un volo fantastico, un ritorno da una terra remotissima e vaga:

Tra’ rigor dell’atmosfera
Di libeccio e tramontana,
È qui giunta la Befana,
E vi dà la buona sera.
Da paesi assai lontani,

Dopo un anno a voi ne viene;
Ha sofferto tante pene,
Per sentieri ignoti e strani… .

Come osserva Paolo Toschi, il tema del viaggio della Befana, che giunge volando nel gelo dell’inverno e nell’atmosfera tempestosa, viene ripreso dal Pascoli nella sua ben nota filastrocca, riecheggiante anche nello stile, oltre che nei contenuti, i temi delle cantate popolari:

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Com’è stanca! La circonda
Neve, gelo e tramontana
Viene viene la Befana…

Traspare da queste leggende e immagini consolidate nella tradizione la misteriosa provenienza del personaggio della Befana: essa parte da un luogo remoto, e deve affrontare un lungo viaggio, nonostante la fatica e le intemperie. Altre volte si narra che essa giunge in volo e nello spazio di una notte, a cavallo della sua scopa fatata, attraversa i cieli delle città e dei paesi, in tempo per lasciare i suoi regali a tutti i bambini.
Nelle credenze popolari della Spagna la notte del primo dell’anno le streghe, a cavallo di un fruciandolo, volano fuori dai comignoli. Nelle leggende celtiche si racconta che la notte del primo novembre si può osservare una moltitudine di fate volanti da un colle incantato all’altro, sotto la musica dei campanelli e dei corni degli elfi. In questa notte si possono vedere streghe e maghi che solcano l’aria a cavallo di ramoscelli. Baba Jaga, la strega delle fiabe russe vola dentro un mortaio di ferro, incitando col pestello e spazzando via le tracce con la scopa. Quando lei vola la terra geme, i venti fischiano, le fiere ululano, gli spiriti impuri mugghiano. In queste immagini mitiche gli accessori domestici, i ramoscelli e gli oggetti che i personaggi fantastici recano con sé assumono una chiara funzione dinamica, quali rappresentazioni esplicite del volo immaginario. Altrove i rametti hanno in se stessi il potere di trasportare in volo l’essere divino, come nel mito egizio, dove i rami staccati dagli alberi sacri rivestono il ruolo di mezzi magici atti a trasferire verso luoghi remoti. Un testo delle Piramidi esorta il dio Osiris a servirsi di due rami, uno di ginepro ed uno di cipresso, apprestati dalla dea boomorfa Hathor, per attraversare “la verdissima”, ossia il mare.
Nel rito degli aborigeni australiani Yuin, incluso nelle cerimonie di passaggio alla pubertà, un uomo viene leggermente ricoperto di terra e deposto in una finta tomba. L’uomo si distende su di un letto di foglie, reggendo tra le dita le radici di un piccolo alberello e, quando i candidati al rito d’iniziazione si avvicinano, egli li spaventa facendo tremare la piantina e sorgendo dalla tomba. L’uomo simboleggia la luna, che riappare dopo l’oscurità, e l’albero è quello celeste delle stelle. Per cercare di comprendere il rito non possiamo limitarci alla sola simbologia lunare; è evidente che si tratta di una cerimonia di morte e rinascita inclusa nei riti di iniziazione. In questo caso potremmo forse interpretare la figura dell’uomo come la personificazione di un antenato defunto. Quanto all’alberello, esso è certamente un albero astrale, infatti, se dobbiamo ammettere che in seguito l’albero dalla terra  è passato in cielo ed ha cominciato a volare, bisogna riconoscere che l’interpretazione dell’albero magico quale albero astrale è corretta. Questo albero serviva ad inoltrarsi nel difficile cammino verso l’al di là, ed ha acquisito così una funziona dinamica, divenendo un mezzo di trasporto. Le prerogative del ramo volante hanno subito nel corso del tempo una serie di stratificazioni, tali da offuscare il senso originario. A questo proposito intendiamo riferire alcuni esempi che testimoniano uno stadio intermedio nell’evoluzione del ramo magico. In questo caso il rametto, ormai privo della peculiarità di attrezzo adoperato per “trasferire” lo spirito da un luogo all’altro, viene concepito come puro mezzo magico adottato per costringere lo spirito a manifestarsi. In Germania si credeva che con l’aiuto di un rametto portato in chiesa durante i dodici giorni da Natale all’Epifania, si sarebbe potuta vedere la strega. Similmente, nelle isole Ebridi, il giorno della festa di Santa Brigida, il primo febbraio, si usava raccogliere un fascio di giunchi verdi e tenendoli in mano si invitava la santa ad entrare in casa.
Da questi esempi risulta che, per analizzare più ampiamente la struttura del ramo magico e definirne in modo più esplicito le funzioni inerenti alla figura della Befana, occorre tener presente che il rametto, nell’ambito della festa di Capodanno, accanto alla funzione principale di mezzo per compiere un volo, riveste anche quella di segno evocativo. Le tradizioni europee hanno conservato un riflesso di questa funzione magico-evocativa del ramo, ma possiamo ritrovare analoghe modalità e funzioni del ramo sacro anche presso popolazioni lontane, sempre in corrispondenza del Capodanno.
La grande festa si celebra nello stretto di Bering con lunghi intervalli da una  cerimonia all’altra. Dopo aver preparato una grande quantità di viveri, s’invitano i defunti ad assistere al banchetto Ognuno pianta davanti alla tomba del proprio antenato un bastone d’invito sormontato dall’effige dell’antenato totemico. Questo bastone ha il compito di avvertire il defunto che la festa ha inizio. Mentre risuonano i canti d’invito, le ombre escono dalle tombe e tornano nelle case dei loro congiunti, ove si radunano sulla cavità del focolare o sotto la tavola.
Nell’area padano-veneta si usava esporre fuori della finestra durante i dodici giorni tra Natale e l’Epifania un ramo d’albero sfrondato e con intagli, diverso per ogni bambino o bambina della famiglia. Questa azione veniva compiuta principalmente dal nonno, insieme ai nipoti, e si collocava nelle tradizioni relative all’arrivo della Befana; così come lo era deporre una scarpina o una calza accanto al focolare.
La finalità evocativa, o di richiamo dello spirito, attribuita al bastone sacro e perseguita dai popoli abitanti lo stretto di Bering, viene ulteriormente confermata da una singolare cerimonia compiuta dai Khond, popoli di agricoltori dell’India dravidica, al fine di ricondurre in casa l’antenato. Il decimo giorno dopo la morte, l’anima viene richiamata in casa inducendola a cavalcare un bastone ricoperto da un telo, che viene poi lasciato in un angolo dell’abitazione. In questo significativo rituale troviamo l’immagine esplicita dello spirito che si trasferisce  dal luogo della sepoltura fino a casa dei suoi familiari, a cavallo di un bastone, esattamente come lo sciamano che compie un volo, e come la Befana che fa ritorno nella case con l’aiuto della sua scopa magica. Sia nella cerimonia di Bering, sia in quella diffusa tra i Khond dell’India, la funzione del bastone sacro è di tipo evocativo; tuttavia mentre presso le popolazioni di Bering il bastone d’invito, oltre a rappresentare l’antenato totemico, è anche un segno che indica l’inizio della festa e del rituale commemorativo, per i Khond invece il bastone più che un segnale, è un vero e proprio mezzo di locomozione, usato allo scopo di attirare e trasportare l’anima nel luogo voluto.
Il motivo della scopa intesa quale mezzo di trasferimento dello spirito ricorre in un gran numero di credenze, miti e leggende. Spesso essa è considerata un accessorio dell’antenato, o un oggetto di cui egli si appropria. La conferma dell’esistenza di una simile rappresentazione proviene da un racconto popolare del territorio di Otranto, dove si narra di una massaia che, angosciata dai dispetti del folletto casalingo, “Llaùru”, decise di traslocare. Quando tutto era pronto e la famiglia si accingeva a partire, la donna si accorse che mancava la scopa, andò così a cercarla, ma nell’angolo dov’era la scopa trovò il Llaùru che le disse. “Andiamo, andiamo, questa qui la porto io”. Lo spirito domestico manifesta qui esplicitamente la sua intenzione di trasferirsi nella nuova casa, portando con sé la scopa. Il tema di questa facezia familiare trova tuttavia un fondamento concreto nelle consuetudini di varie popolazioni. In Algeria, ad esempio, è considerato di cattivo augurio introdurre una scopa nuova in una casa nuova. Al momento del trasloco, dopo aver fatto i sacrifici ed i riti propiziatori, si trasportano le ceneri  le spazzature della casa precedente, insieme agli utensili e alle vecchie scope.
Talvolta si usava lasciare delle scope sulle tombe, affinché le anime, aggrappandosi ad esse potessero tornare sulla terra. Un esempio di questa usanza si può trovare in un rituale di commemorazione dei defunti in Bielorussia. Nel rituale autunnale i familiari, dopo aver fatto il bagno e aver preso con sé della legna ed una scopa, si recavano alle tombe dei propri defunti e vi accendano il fuoco, poi spazzavano la tomba e vi lasciavano sopra la scopa, affinché l’ombra, quando i vivi avrebbero lasciato il cimitero, potesse rimettere in ordine la sua tomba.
In questo rito l’anima viene evocata mediante un fuoco acceso, mentre l’azione di lasciare la scopa presso la tomba viene giustificata con l’esigenza del defunto di rimetterla in ordine. Certamente si tratta di una spiegazione etiologica a posteriori, quando il significato  del rito rimaneva ormai oscuro. In realtà è possibile scorgere in quest’usanza rituale una originaria modalità di invito, simile a quella già esaminata presso i Khond: l’anima dell’antenato veniva invitata a lasciare la tomba per ritornare a far visita ai vivi e, collocandovi un bastone magico, si dotava l’anima di un mezzo per raggiungere in volo la propria casa.
La caratteristica peculiare della scopa è quella di pulire e purificare un ambiente, raccogliendo ed ammonticchiando la spazzatura. Vi erano una volta delle scope speciali che servivano per raccogliere i chicchi di grano sparsi sull’aia dopo la battitura dei covoni, le cosiddette “scope cranare” o “scope ranare”, come ancora oggi vengono definite nell’Italia meridionale. La scopa rustica è detta in Piemonte dvigia, in Lucania riviglia, voci risalenti al lat. vilis, it. “vigliare”, separare il grano da elementi nocivi. Le spazzature dell’aia avevano per i primi agricoltori delle proprietà magiche, le medesime che si attribuivano ai rifiuti domestici. Si tratta di proprietà arcane e misteriose. I beduini della Tunisia evitano di spazzare la casa o la tenda dopo il tramonto, per non offendere i geni che errano di notte. La stessa credenza si ritrova anche in Sicilia, in Sardegna e nell’Italia centrale. In Bassa Bretagna non si usa spazzare la casa di sera, per timore di scacciare i trapassati, o di gettarli fuori dalla casa insieme alla polvere. È interessante anche un’usanza della Romania, dove è proibito spazzare, prestare il fuoco, e portare via le ceneri dalla casa, durante le feste dedicate agli antenati protettori della famiglia.
Dopo aver indicato il senso di trasferimento nello spazio, insito nel ramo magico, osserviamo che questo movimento si definisce come un allontanamento dell’anima al termine della festa, mediante lo stesso ramo dotato di poteri apotropaici.
Durante i cortei di Capodanno in Austria, uno “spazzino” precedeva le maschere e ripuliva il luogo dove si sarebbe svolta la rappresentazione. Una traccia di queste arcaiche tradizioni la ritroviamo nell’opera shakespeariana Sogno di una notte di mezza estate, dove il folletto Puck, all’inizio della rappresentazione scenica, afferma di essere stato “inviato innanzi con la scopa per spazzare la polvere dietro la porta”.  A questi motivi si può ricollegare anche il gioco detto dell’aguinaldo, organizzato dai giovani della Galizia il primo dell’anno. Essi facevano il giro delle case recando con sé delle scope, con le quali spazzavano accuratamente il pavimento prima di andare via.

Da: L’incanto e l’arcano. Per una antropologia della Befana di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco


martedì 18 dicembre 2012

Sorellanza



Sospese a fievoli sussurri portati dal Vento
Siamo le figlie della Sacra Isola dei Meli
Siamo il Canto che proviene da oltre i Veli
Dai profondi abissi osserviamo la Storia
Siamo
la Voce che incanta la Luna e ne conserva memoria,
Siamo della fonte arcaica il richiamo sopito
Siamo l'alito che alimenta il fuoco del Calderone Antico
Custodi della Coppa...
Reggenti della Spada del Mito.
Ammantate di piume lucenti
Abbiamo ali tenere ed evanescenti
Al calar delle Tenebre
Doniamo Notti Incantate
E in luoghi segreti danziam con le Fate
Siamo la Notte di Stelle ammantata
Siamo la Voce che annuncia l'Alba incantata
Siamo il fiore che a Maggio avrai colto
Siamo d'Estate il Sogno per un Buon Raccolto
Siamo in Autunno la foglia che cade leggera
Presenti all'inizio e alla fine di ogni Era
Siamo il ricordo di un sommerso Mito Ancestrale
Sorelle nel Cerchio della Triplice Spirale

(Sussurro portato dal vento da una Sorellanza di Avalon di cui si è persa traccia nel web)

lunedì 10 dicembre 2012

Lombardia, terra di draghi



Nella seconda sala del Castello Sforzesco a Milano si conserva un frammento del XII secolo raffigurante draghi e serpenti. Nella sala VI troviamo invece una effige del tardo XII secolo e che in passato era apposta sul pilastro centrale della Porta Romana della città. Si tratta della figura di un guerriero che in molti associano a Federico Barbarossa con ai piedi un drago. Nella XII sala vi è la Cappella Ducale, voluta da Galeazzo Maria Sforza, dove sono affrescati anche gli stemmi del Ducato con il biscione.
Uscendo dalla sala della Pietà, si accede invece ad un cortile i cui quattro lati sono chiusi dalle mura in mattoni rossi del castello. Si tratta del “cortile della fontana” dove, ovviamente, sgorga acqua dalle fauci di un drago.
Al primo piano del museo si trova un ennesimo drago, questa volta ucciso da San Giorgio, dipinto su un cassone contenente oggetti nuziali del XV secolo.
Durante le Crociate nacque un importante simbolo milanese, probabilmente il più famoso: il “biscione”. Si narra che Ottone I Visconti, comandante di un esercito di settemila soldati lombardi, affrontò a duello alle porte di Gerusalemme il nobile e temibile saraceno Voluce. Il saraceno combatteva sotto l’insegna di un serpente nell’atto di divorare un bambino od un giovane uomo. Ottone lo sconfisse uccidendolo con un fendente di spada e, per celebrare la vittoria, s’impadronì di quel simbolo sostituendo però il bambino tra le fauci con un saraceno rosso e da allora, a partire dall’XI secolo, compare nello stemma dei Visconti, quindi della loro Signoria, poi anche in quello degli Sforza quando, imparentandosi con loro, succedettero alla guida dello Stato Milanese; il simbolo fu soppresso da Napoleone e poi ripreso
 
inquartato al leone di San Marco nello stemma del Regno Lombardo-Veneto.
È indiscutibile che il simbolo affondi le sue radici nella notte dei tempi e in un contesto ben più vasto della storia di una singola famiglia. Come è altresì indiscutibile che la sua collocazione geografica vada ben al di là delle ristrette mura della città di Milano, abbracciando tutti i territori del vecchio Ducato di Milano (Canton Ticino compreso, dove addirittura è anche lo stemma araldico della città di Bellinzona).Quando il 5 settembre 1395 Gian Galeazzo Visconti viene elevato al rango di duca da Venceslao, Imperatore del Sacro Romano Impero, aggiunge nel vessillo al biscione il simbolo stesso della nazione germanica: l’aquila imperiale nera in campo d’oro.Nella basilica di San Marco a Milano, situata nell’omonima piazza, sull’architrave della finestra a bifora a sinistra della facciata, si nota la figura di un drago. Anche all’interno del museo della chiesa (attualmente chiuso al pubblico) si poteva vedere un quadro trecentesco raffigurante un’orribile lucertola gigante.Probabilmente il fatto è legato alla leggenda del drago Tarantasio e del lago Gerundo, o Gerundio, o Girondo, il cui nome deriva da gera, che significa ghiaia in dialetto lombardo, per indicarne il fondo ghiaioso, così come il paese di Gera d’Adda, che sarebbe sopravvissuto fino al 1200. A questo secolo risalgono infatti le prime fonti scritte, anche se, già allora, un tono leggendario aleggiava intorno a questo bacino.Nei fatti si ritiene, oggi, che fosse nient’altro che un insieme di paludi e acquitrini formatisi nelle depressioni della media Pianura Padana e nei quali si riversavano gli irregolari corsi discendenti (Adda, Oglio, Serio, Lambro). Se ne avrebbe qualche testimonianza indiretta anche in epoca classica: il tracciato della via Emilia, in partenza da Milano verso Bologna, era, in corrispondenza del territorio lodigiano, in rilevato per mantenere all’asciutto il transito. L’anarchia della regolamentazione delle acque, tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo, avrebbe concesso in seguito a questo instabile sistema idrografico di alimentarsi e dilagare anche oltre le dimensioni originarie.

Sulla base delle descrizioni due-trecentesche ne sono state stabilite le dimensioni. Sostanzialmente poco profondo, lo specchio d’acqua sarebbe stato molto esteso e avrebbe presentato una lunghezza in senso sud-nord di 50 chilometri e una larghezza in senso est-ovest di 35. Nel variegato magma acquitrinoso emergevano isole piuttosto allungate e disposte in senso parallelo ai corsi d’acqua, ossia tendenzialmente da nord a sud. Su queste “asciutte” si stanziarono i primi insediamenti umani e sorsero in seguito le principali città: Crema (sull’isola Fulcheria) e Lodi sul colle Eghezzone o Enghezzone.
Da quel lago, proiezione leggendaria all’origine di molti luoghi (come sedi stabili e sicure rispetto a quel mare), sarebbero in seguito emerse una pletora di creature mostruose che avrebbero assediato città e villaggi. Draghi, principalmente, ma anche coccodrilli e serpi, ognuna con un alito mefitico e pestilenziale che personificava la non certo florida situazione sanitaria derivante dalle acque stagnanti.
Tra le tante creature mostruose e malefiche, Tarando, Taranto o Tarantasio è certamente il drago per eccellenza di Lombardia. Erano infatti di un drago, o almeno così si volle credere, quell’insieme di ossa recuperate a Lodi nel 1300, venerate per secoli come emblema della vittoria possibile contro il male spirituale e l’insidia fisica di malattie e pestilenze, emanate da un sistema territoriale certamente malsano e potenzialmente sempre infettivo.
Narrava dunque un “reportage” trecentesco (giunto però anch’esso attraverso numerose trascrizioni seicentesche) che da un’ampia distesa di acque stagnanti che stringevano d’assedio Lodi nacque all’improvviso “un drago, un enorme serpente… che spirava un fetore intollerabile, e pestilente, ch’era bastevole a privar di vita gl’infelici Cittadini”.
Tarantasio sembra avesse il corpo di serpente, la testa enorme di un sauro, corna smisurate, una coda infinita e zampe palmate. La sua tana era nel profondo inaccessibile di quel mitico mare Gerundo alla cui superficie s’affacciava eruttando fuoco dall’enorme bocca e sputando fumo dalle narici. L’ultima apparizione dello spaventoso rettile sarebbe avvenuta nella notte di San Silvestro del 1299 e si dissolse nel nulla con le acque del mare il Capodanno del 1300 grazie all’intercessione di San Cristoforo.
Per perorare la causa dell’intervento del santo si fece avanti il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che indisse “novena pubblica con la promessa di erigere, cessata l’epidemia, che già tanti morti aveva causato, un grande tempio in onore della Santissima Trinità e di San Cristoforo”. Nei primi giorni del 1300 le acque si ritirarono ed ebbe fine ogni pestilenza; nella palude miracolosamente prosciugata fu rinvenuta una “costola colossale” subito attribuita alla fantomatica creatura. La liberazione dalla pestilenza, esemplificata nella leggenda dalla morte del drago e dal conseguente prosciugamento della malsana fossa, fu festeggiata con l’adempimento del voto e la costruzione dell’edificio sacro dentro il quale fu conservato a lungo il “grand’osso del sopradetto Serpente o Dragone”.
Si pensava che la tremenda creatura vivesse nelle viscere della terra al di sotto della rocca di Soncino (Cremona), dove era stato seppellito un feroce tiranno ghibellino, o che fosse stato ucciso non da San Cristoforo, ma da Federico Barbarossa. In tutte le varianti all’uccisione del mostro sarebbe seguito il ritiro delle acque, la scomparsa del lago e il conseguente recupero di immense terre da coltivare.
Nella Chiesa di San Cristoforo, che oggi presenta il raffinato aspetto conferito da Pellegrino Tibaldi nel 1564-86, fu a lungo conservato un reperto osseo di straordinaria lunghezza appeso alla volta e oggetto di grande venerazione almeno fino all’Ottocento, quando si stabilì inoppugnabilmente la natura non fossile della reliquia. Nella chiesa si sarebbero conservate anche due tavolette di marmo, murate, ma andate disperse assieme al grande reperto, su cui era scritto: serpente che appestava Lodi e che per l’intercessione del Santo Cristoforo nella calenda di gennaio ucciso il drago e prosciugato il lago ove viveva.
Il nome di Tarantasio pare ricalcato su quello della Tarasca, il cui mito Opicino de Canistris importava a Pavia proprio nel corso del Trecento.
La Tarasca è il più noto tra i mitici mostri d’origine celtica, la cui credenza era diffusa in tutta Europa a tal punto che, al mito, alcune città associarono simbolicamente la loro stessa origine, la raffigurazione araldica e, addirittura, il nome: due Tarascona in Francia, una nella regione francese dell’Ariège, a nord dei Pirenei, l’altra presso Avignone; Tarasca in Ucraina. Si trattava di un vero e proprio drago: viveva nelle paludi; si cibava di carne umana; sputava fiamme dalla bocca. L’immaginario collettivo lo dipinse come tartaruga corrazzata e squamosa dotata di testa di leone.
Nella località di Tiolo (Sondrio), una leggenda raccontava di una creatura detta serpen co la gresta, un misterioso rettiliforme caratterizzato, come lo stesso nome denuncia, da una grande cresta sul capo e da piedi palmati. Le sue dimensioni sono sovrannaturali. È una delle più straordinarie creature scaturite dall’amalgama di più differenti animali: serpe, maiale, gallo, anitra. Si tratta di una bestia dalle dimensioni grassottelle prossime a quelle di un porcellino; sarebbe serpentiforme, avrebbe una cresta di gallo e le zampe anteriori palmate come quelle di un anatroccolo; sulla schiena la pelle assumerebbe colore rossiccio. Difficile stabilire la sua appartenenza alle diverse categorie dell’immaginario fantastico: il suo stanziamento presso una fonte (la località per lo sgradevole incontro era fissata alle “Tre Fontane”) l’apparenterebbe all’universo mitologico dei serpenti e dei rospi come custodi di sorgenti d’acqua vitale, mentre sulla complessità della raffigurazione concorrerebbe certo la vasta fortuna del leggendario gallo basilisco e di altre creature scaturite dal fantastico. I suoi poteri erano sconfinati. Bruciava l’erba e tutte le piante nell’intorno con il solo alito (più serpe-drago che Basilisco vero e proprio), ma ipnotizzava con lo sguardo (come il Basilisco). Chi era soggetto all’immobilizzazione veniva irrimediabilmente ucciso dalla bestia che approfittava per succhiare il sangue della vittima.
Non è l’unica creatura di Lombardia che succhia sangue, ma è in buona compagnia del Brocòloco della Lomellina. Questo è, tuttavia, evanescente spirito di un morto.
Un reperto “di drago” si conserva nel santuario di Santa Maria Annunziata a Ponte Nossa (Bergamo) almeno dal 1594. La pelle di un “coccodrillo” si trova nel Sacro Monte di Varese; una costola di un mostro penzola dal soffitto della chiesa di Almenno San Salvatore (Bergamo); altre nel santuario della Beata Vergine di Paladina (Bergamo) e nella chiesa di San Bassano a Pizzighettone (Cremona).
Nella campagne attorno a Mantova persistette a lungo l’usanza di decorare i carri agricoli con caratteristiche raffigurazioni di rettili e di dragoni.
L’associazione drago/tempesta, da cui deriva quella drago/acqua e più in generale drago/forze della natura, risale all’antichissima forma di rappresentazione degli elementi naturali, in sembianze di animali, di matrice indo-europea, secondo un principio primigenio che portava, istintivamente, a rivestire delle forme della vita reale gli agenti misteriosi che governavano l’universo soprannaturale.
Il drago era anche associato alla pioggia e come tale, con accezione positiva, il sostentamento che dal cielo discendeva sui campi. Per questo nella tradizione del nord Italia si conservano alcuni modi per indicare l’arcobaleno associandolo al mostruoso rettile. “Drago”, infatti, è l’iride variopinta secondo l’accezione diffusa in un arco geografico compreso tra la Valle d’Aosta e il Novarese e che sopravvivrebbe anche in una ristretta area geografica attorno al Lago Maggiore.
In Canton Ticino si chiama correggia, o cintura, coda, chiave, segno, riga, arco, unghia, albero o ponte “del drago”. Nel territorio di Pavia è detto tarfin che si assocerebbe a delfì, dolfi e delfenà del Bresciano e al dalfinà di Solferino (Mantova): il lampo, il baleno. Il riferimento al delfino, e non ad un serpente, sarebbe comunque un impiego precedente a “balena” (da cui balenare) per indicare una sorta di animale/demone che la mitologia popolare traeva da una simbologia antichissima e non relativa al guizzo improvviso di agili creature sulle onde luccicanti. Il delfino o la foca, infatti, erano animali semiantropomorfi dotati di caratteristiche umane. Per Apollonio Rodio il Delphŷnê era, per esempio, il drago che nell’antica Grecia faceva la guardia alla fontana di Delfi. Nei bestiari e nelle summae enciclopediche medievali il delfino era l’animale che aiutava l’uomo quasi come un fratello.
Infine, nella pur complessa mitologia asiatica – dalle quali oggi traiamo buona parte delle raffigurazioni di “dragoni cinesi” – l’arcobaleno era il serpente emerso dal mondo sotterraneo. L’arcobaleno come “drago” sarebbe dunque una delle più antiche fasi di formazione del significato stesso di arcobaleno, impersonato in un animale di spaventose dimensioni che berrebbe l’acqua che viene al termine della pioggia, apportando, con il sole, un beneficio. Per estensione, quindi, il “drago” è la bestia che beve l’acqua dal mare o dai laghi.

Da: Milano, misteri e itinerari insoliti tra realtà e leggenda di William Facchinetti Kerdudo

giovedì 15 novembre 2012

Il tesoro nascosto



Nel regno del bosco i folletti condividono la loro esistenza con altre entità che sfuggono per definizione alla vista dell’uomo: gnomi, elfi, nani, nanetti e le fate, loro fedeli compagne. Con questi i folletti occupano lo spazio dell’oscuro, dei boschi, delle miniere, delle grotte, più vicino alla forza ctonia della natura che alle grandi manifestazioni di potenza cui sono associate solitamente le figure dei giganti.
Traendo frutti dalle viscere della terra, i folletti hanno rivestito, nella mitologia popolare europea, il ruolo di eroe culturale, cioè di mitica figura cui si dovrebbe la rivelazione di importanti segreti necessari allo sviluppo della civiltà. Tra questi il segreto delle pietre nascoste sottoterra e, quindi, delle miniere e della metallurgia e, per estensione, di tesori che le fiabe vogliono religiosamente custoditi proprio da gnomi e folletti.
Qui, come protettori di tesori, la loro medietà costituisce una virtù: mezzi uomini (ma non sotto-uomini), possono arrivare ovunque, lavorare indefessi nel sottosuolo in condizioni spaventose, comunicare con la natura nella sua intimità più profonda. Nelle grandi saghe mitologiche, quindi, i folletti  conservano la funzione di nume tutelare per i minatori, come in Bretagna, e in generale presiedono all’attività delle fucine di ferro di cui, un tempo, avrebbero insegnato agli uomini tutti i segreti.
Non v’è traccia di tale credenza in Lombardia nonostante l’antichità dell’attività estrattiva e della lavorazione del ferro, che tuttavia si è tramandata per trasmissione generazionale solo per stadi discontinui dall’antichità precristiana a oggi. Troppo poco soccorre una ricerca toponomastica che non ha ancora dato i frutti sperati.
Nella tradizione di Macugnaga, ai piedi del Monte Rosa, ad esempio, si rinvengono ancora folletti che vivono e scavano nelle miniere. Sono i cosiddetti goewling; è suggestivo trovare a Pisogne (Brescia) il toponimo Goen riferito alla contrada dove sorgevano l’alto forno e le fucine del ferro e che, come conclude una guida dell’Ottocento, “rammenta il gowan scozzese, che vale fabbro, e ci porta a tempi molto antichi, per lo meno Longobardi”. Il nome è simile anche a quello di Govannon, il dio fabbro gallese, figlio della dea Don e fratello di Gwydion e Amaethon, che a sua volta era l’equivalente del dio fabbro irlandese Goibniu, figlio della dea Danu, il quale forgiava spade che penetravano sempre con precisione e possedeva l’idromele della vita eterna. Da abile fermentatore fu insuperabile e la sua birra conferiva l’immortalità. Era uno dei tre artigiani dei Tuatha De Danann,, insieme al falegname e carpentiere Luchta e al calderaio Creidhne, dio della lavorazione dei metalli. In realtà Góvine, come la località è indicata nel Dizionario di toponomastica lombarda dell’Oliveri, dialettale Góven, si trova presso una cascatella e deriva da cúen, da cui caverna e Covelo, che è un toponimo presente nei pressi di Iseo. Niente di contradditorio: i folletti prenderebbero nome dalla caratteristica propria di stare nelle viscere della terra e, da qui, cavare ferro, come a Macugnaga.
Un rapporto stretto legava la forgia del metallo con le forze ctonie e soprannaturali: il fabbro (non a caso”uomo nero”, isolato nella mitologia collettiva dal gruppo) era il depositario di misteriosi rituali che demoni e spiriti gli suggerivano per svelare i segreti delle pietre, per trarne il ferro. Il fabbro, quindi, continuava un’opera di creazione che reiterava l’atto stesso che presiedeva alla nascita del mondo; egli riproduceva sulla terra ciò che era attributo di entità non umane, degli dèi.
Lo strumento creato dalla fusione del metallo era dunque implicitamente uno strumento magico di esercizio del potere. Come tale il ferro stesso possedeva un carattere ambivalente e poteva impersonare anche lo spirito del demone che ha presieduto alla stessa creazione del ferro, dalla miniera alla fucina. Il ferro, quindi, si presentava come strumento del male e del bene: era il materiale con cui si costruivano le armi, ma anche il martello e buona parte degli attrezzi che aiutavano nella vita quotidiana e nel lavoro dei campi. Mircea Eliade, concludendo un ragionamento molto più complesso, asseriva che il ferro, sia che lo si ritenga caduto dalla volta celeste, sia che venga estratto dalle viscere della terra, è carico di potenza sacra. Il rispetto nei confronti del metallo permane anche presso popolazioni di cultura avanzata. Tale è il prestigio dell’ultima in ordine di tempo tra le “età del metallo”, l’età del ferro vittorioso la cui mitologia, in gran parte sotterranea, sopravvive ancora in costumi, tabù e superstizioni quasi sempre insospettabili. Rappresenta la vittoria della civiltà, cioè l’agricoltura.
Contro le tempeste si suonavano le campane. L’usanza era ancora viva nel Novecento nelle campagne di Brescia. Si trattava di una delle più note pratiche magiche in funzione apotropaica.
Il valore del gesto non stava nel suono, ma nel materiale della calotta e del batacchio: il ferro, appunto. Il ferro e il metallo in generale, infatti, erano sempre stati riconosciuti come mezzo essenziale per allontanare gli spiriti maligni. La donnola, in Valsassina (Lecco), la cui manifestazione era considerata presagio di pioggia, si scacciava con la semplice esposizione di attrezzi da lavoro (forconi, rastrelli, falcetti), rimedio che serviva anche contro qualche folletto di troppo.
“Toccare ferro” scaccia ancora adesso la sfortuna.
Tarda è la versione leggendaria del Maget che in Valtellina occulterebbe l’oro che trova nelle miniere per non farlo scoprire ai minatori. Abilissimo minatore, una volta estratto questo prezioso metallo con l’aiuto dei suoi validi amici lo nasconderebbe in luoghi sicuri e irraggiungibili dall’uomo, che giudica troppo avido per meritarsi questi tesori della natura. Queste creature sarebbero anche in grado di scatenare pericolose valanghe causando ingenti danni; ma non sono malvagie. Infatti, anche in queste occasioni, cercherebbero di evitare che questi disastri facciano vittime tra gli esseri umani

Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti

mercoledì 14 novembre 2012

I folletti della Lombardia



Tra tutte le creature del Piccolo Popolo forse il folletto presentava e presenta caratteristiche iconografiche meno marcate, soprattutto rispetto a nani, gnomi, elfi e fate – per restare sul piano degli esseri fantastici antropomorfi – che pullulano nel mondo irreale del Medioevo. Il folletto, infatti, c’è ma non si vede mai; se si presenta come una persona è basso di statura (bimbo, fanciullo o mezzo uomo), ma rifugge da ogni contatto con gli uomini. Sicuramente vivace, è di carattere bizzarro, incline allo scherzo, spesso si lascia andare alla burla improvvisa e malvagia; raramente trascende verso l’azione consapevolmente cattiva e scellerata. Solo in parte gli sono attribuite azioni benefiche nei confronti dell’uomo.
Folletto deriverebbe dal latino follis, il cui significato è “cuscino”, “palla”, “pallone pieno d’aria” e dunque, per estensione, un individuo con la testa vuota, privo di senno, un folle per l’appunto. Dalla radice fol, significante “soffio d’aria”, trarrebbero origine altri termini latini come flare, “soffiare, “respirare”, flatus, “soffio”, e gli italiani folle, folata (di vento) e, forse, anche fola e favola. A sostegno di questa tesi concorrerebbero le parlate dialettali: il foulot, in alcune zone della Svizzera, significa “piccolo mulinello che si alza all’improvviso quando l’aria è calma”; in Piemonte fulëtún, fultún e ancora fulét indica un soffio vorticoso; il romagnolo fulë’t è il turbinio della polvere; a Bienate (Milano) folletto è il nevischio e anche il turbine. Appartengono, insomma, a tutta l’area gallo-romanza i tipi folle, follet, feulé, foulet, fouleton, follot ecc. a designare il vorticare dell’aria che solleva dal suolo pulviscolo, terra o neve.
Molte, infatti, sono le associazioni tra il vento e il folletto, che avrebbe la possibilità di nascondersi nelle correnti d’aria, di girovagare per i prati facendo mulinelli d’aria e di svolazzare leggero e impalpabile; tanto che sarebbe facile per lui oltrepassare le serrature delle porte, forzando silenziosamente l’intimità della casa, divenendone uno spirito permanente.
Non a caso sono folletti del vento a Bormio (Sondrio) i Sanzasánch, “senza sangue”. Anche in Valsassina (Lecco) e in Val Cavargna (Como) i geni incorporei della casa sono i Senza os e i Senza sànc, gli antenati veri e propri dei folletti. Secondo la tradizione di Voghera (Pavia) lo Jábolo si aggirerebbe tra le nuvole, cavalcandole, scatenando tempeste e piogge scroscianti.
Nel piacentino, Fulát è un termine con cui si indicano indifferentemente sia i vortici del vento sia gli spiritelli che presiedono agli incubi; in Guascogna (Francia) Fouletun è un venticello dispettoso che può addirittura ingravidare all’insaputa. In Lombardia, questa prerogativa permarrebbe, ma un poco sbiadita, nella predilezione che lo Sgranf, avvistato in provincia di Bergamo, avrebbe di molestare le fanciulle: voyeur impertinente, amerebbe spiare le belle donne mentre si cambiano d’abito o fanno il bagno; grazie alle sue ridotte dimensioni sarebbe in grado di raggomitolarsi su se stesso e nascondersi sotto le gonne per guardare le gambe delle malcapitate (in questo caso come un vero e proprio refolo d’aria); altre volte, per spiare ancor meglio le ragazze, si trasformerebbe in un piccolo gomitolo di lana per farsi raccogliere e nascondere nel seno. Solo allora sarebbe facile sentirlo sghignazzare di piacere.
A Brescia e nel Bresciano, era distinto il Quagg o Squàsuagg o QuaggIQuagg  che disturberebbe il sonno e provocherebbe incubi.
Nel Comasco, in Val Bregaglia (Sondrio) e Valsassina (Lecco), l’Encof indurrebbe a fare brutti sogni; nelle campagne di Bergamo il Gambastorta è uno spiritello che toglie le coperte, fa il solletico sotto i piedi e fa tintinnare i vetri per interrompere il riposo notturno.
Propriamente lombarda è la definizione di Calcatrápole, parente del Calcaròt conosciuto nelle campagne del Veronese, del Trentino e del Bresciano: è un’entità degli incubi notturni perché, alla lettera, calca, preme, schiaccia il petto (come il Quagg/Squàs) e toglie il respiro, come l’onomatopeico Encof. L’Encof, infatti, non si limiterebbe a provocare il delirio onirico, ma si divertirebbe particolarmente ad ostruire il condotto del fumo del camino per asfissiare i contadini con l’ossido di carbonio prodotto dalla combustione del legno.
Presentandosi in sembianze femminili, soprattutto quando è identificata con l’azione di disturbo nel momento del sonno, Encof è l’unica “folletta” della regione: forse la lontana traccia di più maliziosi incubi? In ogni caso, il folletto condivide quest’aspetto con altre creature della mitologia europea: in Germania, Scraettlige o Trude, in Svezia Mare o Marra, in Inghilterra Nightmare, in Olanda Nachtmaer.
I folletti sono domestici. Anzi, proprio in questo settore, si manifesta e in parte si mantiene un attributo fondamentale del folletto: la sua capacità d’intervenire concretamente nel reale.
Non sappiamo dove stava quando non si doveva far vedere; ma non ci si stupirebbe di trovarlo nella stalla, nella cappa del camino o nel solaio: l’Encof, presente nei racconti comaschi, era stanziato nel camino che, come abbiamo visto, spesso ostruiva per dispetto, nell’essiccatoio si stabilivano invece i Büti, i Senza os e i Senza sànc che animavano lo spazio domestico delle case contadine della Valsassina e della Val Cavargna.
Sono questi, infatti, i luoghi dell’abitazione dotati di un’indeterminatezza ricca di significato: casa, ma non casa (solaio, stalla); spazio chiuso, ma in comunicazione con l’esterno, come la cappa del camino, canale d’ingresso rivolto “verso l’alto” prediletto dalle anime dei morti ritornanti, dalla Befana e da Babbo Natale.
A Cadria di Valvestino (Brescia), sui monti alle spalle del Lago di Garda, il feretro del defunto era trattenuto in solaio per tutto il periodo invernale, ufficialmente perché il cimitero più vicino era quello di Magasa, oltre le malghe del Rest e il cammino lungo e difficile; ma certo il solaio costituiva anche il territorio imprecisato per il lungo decorso del morto verso lo spazio indeterminato dell’aldilà. Bàrbiśi l’è sö’l sulér/ch’el comincia a pésta i pè è l’incipit di una popolare canzone piemontese nota anche nella sua versione bresciana. Qui, nella cappa, nel camino o nella stalla, il folletto può occupare uno spazio commisurato alla sua potenza: ancora una volta è nel mezzo del mezzo, tra la casa e l’esterno, tra l’aria e la casa.
Secondo la credenza medievale, non era infrequente il caso in cui una volontà o un’entità superiore comandasse a folletti di stare presso determinate persone o gruppi familiari, in genere per un periodo di tre anni, come accadde nella storiella che si tramandava a Pavia nel Duecento. Di questa dimensione sovrastante non è noto il nome e non pare ricorra qualche particolare racconto che li esaltava come protagonisti.
I Bragöla della Val Carvagna (Como) collaboravano con gli abitanti della valle, soprattutto con le persone che ispiravano loro simpatia, nelle faccende di casa o nei lavori dei campi, in particolare nella mietitura dei prati. Nella stessa valle il mito dei folletti si confondeva con quello dei Pelus di Kongau, essere peloso che popolava il versante occidentale della valle, denominato appunto Kongàu. Anch’essi aiutavano a falciare l’erba nei campi; alcuni, minoritari, a trovare l’oro. I Fulecc di Angolo Terme (Brescia) erano esseri vitali che, secondo i contadini, coprono i prati con polveri magiche in modo da facilitare la crescita di funghi.
Soprattutto in merito ai vari Pelus che circolano nelle leggende delle valli nostrane (oltre Como, anche Germignaga in provincia di Varese), il richiamo è al variegato universo mitologico proprio dell’Uomo Selvatico.
Poco oltre i confini della Lombardia, i folletti avrebbero mantenuta intatta la funzione attiva nei confronti del gruppo entro il quale la leggenda è stata elaborata e tramandata. I Crüsc di Cavagnago (Val Leventina, Canton Ticino) erano caratterizzati dalla piccola statura e dalla manifestazione prevalentemente notturna (uscivano col crepuscolo o di sera, mentre durante il giorno stavano rannicchiati nelle grotte o sotto le rocce strapiombanti) a denotare il carattere schivo. Soprattutto, sarebbero stati fortissimi (e quindi utili per alleviare la fatica del lavoro contadino), malgrado l’aspetto esile e avrebbero conservato il segreto delle erbe e del linguaggio per parlare agli animali.
Più spesso, però, il folletto appare nelle fonti più recenti come spiritello caratteriale. Un censimento napoleonico accertava che nel 1812 era “generale”a Como e dintorni l’opinione su queste creature.
Gli Ana sosana (Bergamo) e Ana sonana (Brescia) lancerebbero rametti e foglie secche nelle pentole di polenta; nella Bergamasca, entità presenti nella casa farebbero scricchiolare i mobili, metterebbero a soqquadro armadi e cassetti, rovescerebbero i secchi d’acqua, nasconderebbero gli oggetti di cui le persone hanno immediato bisogno. Di questo genere sono il già ricordato Gambastorta, e l’Anima Balzaruna che circolerebbe in Brianza.
Il Fulet di Cataeggio e Albosaggia (Sondrio) disturberebbe le capre; avrebbero anche la facoltà di saper imitare la voce umana dilettandosi ad interrompere o confondere i discorsi e a parlare in piena notte, lasciando credere che ci siano persone estranee in casa.
Frequenti sono i dispetti verso i viandanti. I Paledròns si renderebbero invisibili al solo scopo di infastidire i passanti; gli Squass, di cui si novella a Clusone (Bergamo; ma la terminologia si sovrappone a quella bresciana), si prenderebbero gioco degli ubriachi di ritorno dal mercato; i citati Bragöla del Comasco si lancerebbero addosso alle persone che rientrano tardi per i sentieri.
Allorquando il folletto rendesse un dono all’uomo, questo sarebbe destinato a svanire immediatamente o a tramutarsi, quando meno lo si attende, in un oggetto sgradevole. Lo Squàs, ad esempio, si sarebbe tramutato in un asinello che, apparentemente d’aiuto per un’improvvisata viandante sulle pendici bresciane del gruppo di Monte Alino, diventerebbe però sempre più alto fino a disarcionare la povera donna. Saprebbe anche dar vita ad un gomitolo di lana. Chi se ne serviva, trovandolo per caso fuori della chiesa, doveva presto costatare che il vestito completato con esso era soggetto a disfarsi improvvisamente, magari in chiesa e nei momenti più imbarazzanti. Se l’offerta era di cibo poteva divenire addirittura “roba di latrina”, soprattutto quando aveva assunto un invitante aspetto di polenta o di pezzo di carne o di caramelle.
Alcune versioni sono relativamente recenti. I Farfarelli berrebbero la birra nei moderni frigoriferi e spalmerebbero di burro le scale.
I Vissinei di Como avevano una consistenza ridotta a poco più di un alito; visinél, infatti, è in dialetto veronese il turbine, un nome attribuito anche ad un vento impetuoso e improvviso, ma di breve durata, che si alza sulle rive del Lago di Garda; visinèl nella parlata dei contadini del territorio di Bergamo era una parola con significato di “vivace” composta sulla base onomatopeica bis, sibilare (da cui ape, vespa, brulicare, mostrarsi irrequieto, cercare); in milanese bisi-à è pungere, in lombardo visinel è vispo e, ancora, in bergamasco, bislàch è monello.
Nei Grigioni il folletto non è più da solo, ma sciama in grandi stormi da una valle all’altra.
Queste flottiglie volanti, le Cialarere, secondo la leggenda svizzera, spaventerebbero il bestiame inducendo le mandrie a correre all’impazzata da un versante all’altro della valle. Non contenti, questi folletti sceglierebbero anche alcuni bovini per trasportarli magicamente, in una sola notte, fino in Lomellina.
Anche in Val Maggia (Canton Ticino) dispettose creature di puro spirito si divertirebbero a rapire gli armenti. In entrambi i casi la corsa si concludeva con il ritorno dei capi prelevati nei luoghi d’origine.
In Lombardia si racconta di stormi di folletti ad Albosaggia (Sondrio), dove d’una probabile antica storia tramandata localmente rimane una versione recente imbastita con tutti i crismi della mitologia germanica e, quindi, molto affine al pathos descrittivo della Caccia Selvaggia.
A Cataeggio e San Martino, in Val Masino (Sondrio), per salvare le capre dal Fulet gli uomini dovevano brucare un ramo d’ulivo perché lo spettro si dissolvesse prima di aver spinto nei burroni gli armenti. A Gardone Val Trompia (Brescia), per impedire ai folletti si entrare in casa a turbare il sonno, era usanza che le donne tenessero vicino al letto una verga di ferro per batterli alla cieca. Ferro, metallo, rametti di piante odorose bruciati sul camino erano esorcismi spicci che coincidevano con quelli sperimentati da secoli per bandire le streghe e, prima di queste, quelle varie presenze malvagie nella casa che avevano come unico obiettivo principale i bambini.
Erano i Fulecc, altrove compagni delle streghe, che coadiuvavano a scatenare i temporali, designati con un’accezione dispregiativa rispetto ai vezzosi spiritelli dispettosi.
Nel Comasco per scacciare il folletto era necessario porre sulla porta o finestra dalla quale entrava un sacco di miglio o di altri piccolissimi grani. Questi entrando li rovesciava e dovendo prima di andarsene lasciare tutte cose come le aveva ritrovate, era costretto a raccogliere fino all’ultimo grano di miglio e così fuggiva per sempre.
A Parre, nella Bergamasca, ancora negli anni Settanta, per evitare che il folletto mescolasse nel mulino il granturco con il frumento, bastava lasciargli giù un setaccio per la farina, così quando si stancava di contare i buchi perché erano troppi, allora smetteva.
Berbéch è molto diffuso a Bergamo. Ha anche dei compagni: Malésen e Sblésen e con questi combina scherzi di ogni tipo. Sono simili agli spiritelli raccolti nella tradizione di Biella che hanno campi di azione differenziati: il ghignél ride, lo spitásc sculaccia i bimbi, il folét fa lo sciocco, la muleta intreccia criniere e il carchét provoca incubi.
Il Malésen bergamasco sarebbe il tradizionale incubo notturno, infatti si apparenterebbe con Mara e Smara, rispettivamente voci per “folletto” nel Vicentino e nel Bellunese, e con il friulano Smara che vuol dire appunto “incubo”. A loro volta deriverebbero da Marantéga che in Veneto sarebbe una vecchia strega che apparirebbe come spettro di notte; la quale, a sua volta, è una figura parallela a quel Mara della tradizione tedesca, dove è il fantasma che compare nei sogni a provocare i turbamenti. In sostanza, il Malésen potrebbe essere il vero Nightmare nostrano.
I Quertur che vivrebbero al Pian Mergo in Valtellina (Sondrio), sono una specie di fauni silvestri che sarebbero quasi completamente ricoperti di pelo.
Più spesso, uno spiritello dispettoso e molestatore po’ essere smascherato, nonostante i suoi possibili travestimenti, da particolari zoomorfi: è dotato di zampe d’anitra, gambe da gallo e zoccolatura da capra o caprone, attributi che derivava dall’iconografia di divinità pagane (pan, fauni, esseri silvani).
Appartengono a questa categoria il già citato Gambastorta della Bergamasca o lo Zampa de Gal che in Val di Genova, sulle pendici trentine dell’Adamello, si presenterebbe inizialmente sotto forma di un bel giovanotto pronto ad irretire nelle sue danze le giovani fanciulle

Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti

La sorgente miracolosa del Santuario di San Patrizio di Colzate


Nell’ambito delle numerose sorgenti miracolose cristianizzate della Lombardia, alcune, per i tratti rituali ancora praticati, paiono meglio definire un richiamo a credenze di origine folclorica.
Nella chiesetta di San Patrizio di Colzate, sopra Vertova in Val Seriana, ai piedi di una statuetta raffigurante il santo tutelare, sgorga una fonte: bagnandosi gli occhi dopo aver asperso d’acqua quelli della statua, sembra che si possa risolvere qualsiasi problema legato alla vista.
Il rimando cristiano è alla leggenda di san Patrizio che, si narra, fosse guarito miracolosamente dalla cecità quando era bambino. L’usanza di bagnare anche gli occhi della statua, invece, proverrebbe dall’intendimento di assicurarsi, tramite una pratica propria della “magia contagiosa” la stessa sorte benevola e miracolosa toccata al santo.
La processione del Venerdì Santo, con vere e proprie scorte armate con fantasiose divise, accompagnava un tempo la processione al santuario.
Aggrappato su uno sperone roccioso alle pendici del monte Cavlera, immerso nel silenzio di prati e boschi, il Santuario di San Patrizio sembra essere stato modellato dalla natura stessa, tanto appare stretto il suo rapporto con l’ambiente circostante. Le sue mura si fondono con la roccia: quasi una fortezza a picco sul fiume, la cui asprezza è tuttavia ingentilita da una serie di archi che invogliano a salire fin lassù per ammirare le vedute dalla balconata panoramica.
Restaurato negli anni ’80, il Santuario presenta all’ingresso un vasto sagrato su cui prospetta la grandiosa mole della facciata nord, con i tre archi asimmetrici in pietra viva del pianoterra.
Secondo la tradizione il Santuario fu edificato nel 1166 per ex-voto su una tribulina preesistente da un gruppo di mercanti irlandesi rifugiatisi a Colzate, proprio sulla cima del monte Cavlera, per sfuggire agli imperiali di Barbarossa. Già in epoca medievale i mercanti anglosassoni erano consoni acquistare lana pregiata, coperte e tessuti a Vertova e Gandino, per commerciarli successivamente, con ingenti ricavi in Britannia e a volte spacciandola abilmente, vista l’eccellenza della qualità, per lana scozzese.
Legata alla tradizione di San Patrizio vi è anche la celebre leggenda medievale del pozzo:
quando San Patrizio si trovava in Irlanda a predicare, dopo molti digiuni e orazioni, ebbe da Dio il comando di tracciare un cerchio per terra con il suo bastone sull’isola di Lough Derg o Lago Rosso nella Contea di Donegal dove era solito ritirarsi a pregare. Il suolo si aprì e comparve un grandissimo e profondissimo pozzo; poi, per divina rivelazione, San Patrizio seppe che qualunque persona vi fosse entrata e vi fosse stata un dì e una notte, veramente pentita e armata della divina fede, sarebbe stata purgata da tutti i suoi peccati, perché laggiù avrebbe visto i tormenti del Purgatorio a cui i peccatori erano destinati. Il primo a tentare l'impresa sarebbe stato il cavaliere irlandese Owen che si avventurò nella fessura indicata a suo tempo a Patrizio Vescovo. Dall’Irlanda provengono tre delle maggiori e più popolari leggende di visioni: quella di Brandano, quella di Tundalo e quella del Purgatorio di S. Patrizio. La storia del cavaliere irlandese Owen è raccontata da Matteo Paris nella rubrica dell’anno 1153 dei suoi Chronica maiora [Matthaei Parisiensis monachi Sancti Albani chronica maiora, edited by Henry Richards Luard, London, 1874, t. II, pp. 192-203: è qui raccontata molto esplicitamente la discesa agli inferi del cavaliere Owen che Matteo di Parigi chiama Hoenus] e poi nel Tractatus de Purgatorio sancti Patricii [St Patrick's Purgatory, Two versions of Owayne Miles and the Vision of William of Stranton together with the long Text of the Tractatus De Purgatorio Sancti Patricii, edited by Robert Easting, The Early English Text Society, Oxford University Press, 1991, pp. 121-154 (testo) e pp. 236-254 (commento)] di Henricus Saltereiensis scritto tra il 1170 e il 1185. Interessante il recente contributo di Dorothy Ann Bray, Allegory in the Navigatio sancti Brendani, “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, 26 (1995), pp. 1-10, nel quale si sottolinea la valenza allegorica di questo genere di racconti in relazione alla vita monastica delle comunità irlandesi dei secc. VIII-IX. Ebbe diverse redazioni in diverse lingue, medio inglese, anglo-normanno, provenzale e antico francese e spagnolo. Tutte raccontano la fondazione del Purgatorio e la visita che in esso fece il cavaliere Owen, come egli entrasse, dopo riti preliminari e penitenze, nella caverna, come fosse stato avvisato da uomini vestiti di bianco circa i tormenti che avrebbe incontrato, quali pene egli avrebbe sofferto prima di giungere al Paradiso terrestre dal quale sarebbe rimasto fuori. Coloro ai quali veniva concesso di entrare nella misteriosa caverna, dovevano riferire esattamente, al loro ritorno, quanto avevano veduto e udito. La narrazione finiva agli atti dell’archivio dell’abbazia [Amaury Duval, Histoire littéraire de la France, T. XIX, p. 800], ma non uno di questi rendiconti è giunto fino a noi.
La cavità divenne successivamente meta di pellegrinaggi sino a quando papa Callisto III diede ordine di chiudere la grotta per evitare idolatrie.
Il pozzo di San Patrizio potrebbe essere un retaggio dei tumuli sacri agli antichi Celti, luoghi di iniziazione nei quali si tenevano solenni cerimonie nei periodi delle feste sacre. È possibile supporre che gli iniziati si sottoponessero ad una sorta di morte rituale ed entrassero nei tumuli che erano considerati l'utero della Madre Terra.

Anche accanto al Santuario di Colzate si apre una specie di pozzo, o meglio una buca “la Tamböra de San Patrésse” che penetra nella cavità del monte Cavlera, verso il basso. Secondo la leggenda la cavità scende in profondità sino a raggiungere il livello del fiume Serio, c’è chi afferma che accostando l'orecchio alla cavità possa udire il rumore lontano del fiume che scorre impetuoso.
Si comproverebbe la presenza, su un percorso ben preciso di quelle valli, di culti e legami con il mondo irlandese, come San Tomè, Santa Brigida, oltre al Santuario di San Patrizio, trovando affinità sul substrato etnoculturale Celtorobico.
Ad es. il Monte Erbia è un antico luogo di culto, nel comune di Casnigo è comparsa per due volte, in epoche diverse, la Madonna. Potrebbe essere un luogo che venne dedicato alla Dea Brighit. La località in esame è denominata Erbia o Monte Erbia e se cerchiamo il significato etimologico del toponimo in ambito gaelico, troviamo, nelle lingue gaeliche irlandesi e gallesi e nel bretone, che l’area semantica si restringe a significati che tradotti nella nostra lingua sono: credere, fare assegnamento, intercedere, raccomandarsi, far ricorso, confidare. Nella lingua bretone i termini: erbed, erbedadur, erbedden, erbeder, erbedet, erbedin significano raccomandazione, intercessione, ricorso; erbeder (ien) è l’intercessore. Nelle altre lingue gaeliche (irlandese, gallese) earb corrisponde al verbo inglese trust, ossia credere, far assegnamento, confidare. In antico irlandese erbaim è confidare. In gallese troviamo erfyn con il significato di pregare, implorare e erfyniad con il significato di preghiera, petizione. L’etimologia del toponimo, dunque, potrebbe indicare un luogo di preghiera, nel quale chiedere l’intercessione del divino; un luogo dove ci si raccomanda, ci si affida, si implora, si prega, si esprimono petizioni. Non è, dunque, un caso che la tradizione popolare abbia collocato qui ben due apparizioni della Madonna cristiana, essendo Erbia, come rivela il significato del toponimo, un luogo da tempo immemorabile sentito come spazio dove si accede al sacro.
Érfa e Erbia hanno la stessa radice e c’è un preciso legame tra la località Erbia di Casnigo e il torrente Érfa, che probabilmente dava il nome all’antica Vertova, che scorre in una valle suggestiva, dove la natura induce al sacro. A Vertova esiste una zona centrale del paese, sotto il promontorio che oggi ospita la chiesa parrocchiale e nei pressi di una fonte perenne, che si chiama Drüda e che ci riporta a una possibile presenza di Druidi (essendo assai improbabile la derivazione da una famiglia romana di Drusi)


Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti ed irrisolti di 
Federico Crimi e Giulio M. Facchetti
http://ftp.casnigo.it/doc/il-paese/storia/casnigo-avamposto-di-Parra.pdf
http://www.terraorobica.net/Articoli/Leggende/San%20Patrizio%20Colzate.htm

domenica 11 novembre 2012

Il primo folletto d’Italia: a Pavia nel Duecento



Anche in carne ed ossa, è difficile poter vedere direttamente un folletto; anzi, piuttosto permalosetto, se lo si scorge o, peggio, ci si burla di lui, allora scompare. Esili esserucci che possiedono le tecniche della magia avrebbero, infatti, una gran facilità a ridursi in dimensioni infinitesimali. Possono diventare un filo d’erba, una foglia d’albero, un sasso sulla strada, una palla di fuoco, e quindi passare dalle serrature delle porte. Possono assumere le sembianze di un animale, di un attrezzo da lavoro, di piccole luci. Quando sono antropomorfi, sono mezzi uomini. La dimensione che la tradizione attribuisce loro aiuta in questa ricerca dell’invisibilità: generalmente pochi centimetri e mai oltre, se non di poco, il mezzo metro.
Forse la più antica attestazione italiana comprovante l’esistenza di un’entità casalinga assimilabile al folletto risale al racconto duecentesco ambientato a Pavia. In un capitolo del Chronicon imaginis mundi intitolato De quodam miro quod venit in Papia (“Di quanto vedo che succede nella città di Pavia”) un frate della chiesa di San Domenico narrava che un certo spirito, chiamato Martinus, fece una volta la sua comparsa in città nella casa di un tale Anselmo de’ Boccoselli e lì rimase per ben tre anni. Dimostrava particolare attitudine al servizio, era gentile e particolarmente premuroso. Si prodigava come servitore, cuoceva le pietanze, apparecchiava la tavola, rifaceva il letto, badava ai cavalli, teneva persino la contabilità. Costituiva, quindi, una presenza gradita tanto che Anselmo ebbe fama di fortunato tra i suoi concittadini. Il padrone, tuttavia, non ottenne mai la possibilità di vederlo perché lo spirito agiva di nascosto; era possibile solo sentire la sua voce. Ad un tratto, alla scadenza dei tre anni, il folletto gli si rivolse con queste parole: “Signore, cercatevi da voi un servitore perché io non sto più presso di voi”; e così scomparve per sempre dalla casa.
Il racconto costituisce una sorta di adattamento di leggende già da tempo circolanti: se, infatti, non pare che sia mai esistita una famiglia Boccoselli sulle rive del Ticino, è vero che martinus era già considerato nel bagaglio popolare di Pavia come sinonimo di tali realtà domestiche. Non era quindi il nome proprio del folletto, ma un vezzeggiativo, una delle più antiche attestazioni in Italia con cui erano individuate certe creature sostanzialmente viste come diaboliche.
In ogni caso, nonostante la comparazione satanica, lo spiritello conservava intatto il significato di presenza attiva e positiva in relazione all’attività dell’uomo, per nulla maliziosa o dispettosa; anche se, nell’invisibilità e nel brusco scomparire di scena, svelava la sua natura intimamente ambigua.
Vedi anche http://damadiavalon.blogspot.it/2011/03/luomo-cervo-del-carnevale-di.html
dove Martino è sostanzialmente benefico ed è l’equivalente di Pulcinella, una maschera che ricorda, tra l’altro, un folletto o la magia per via del cappello a punta.
Martino, Martinello, altri diminutivi e vezzeggiativi sono tutti modi per indicare il diavolo senza evocarlo direttamente col nome proprio. Una forma di scaramanzia che ancora oggi condividiamo.
L’uso del diminutivo magisterulus, ad indicare la forma familiare del diavolo, è testimoniato nella prima metà del Quattrocento tra le credenze tedesche relative alle streghe con il significato di piccolo maestro. La versione italiana riporta Mestrello o Martinetto o ancora Marinello. “Martino suo moroso” era il demone personale di una strega del Canton Ticino processata nel Cinquecento.
Vari i passaggi attraverso cui lo spirito familiare, sostanzialmente benevolo, divenne spirito maligno, al pari di molti altri demoni, non proprio buoni, di cui pullulano le leggende medievali. Martino, in Italia e in Francia, era nome in genere attribuito ai caproni, poi, per estensione, caprone nel senso comune del termine e, quindi, appellativo per qualsiasi animale dotato di corna; da cui sarebbe transitato al diavolo che volentieri si trasformerebbe in forma di caprone. Altra strada che avrebbe portato all’associazione demonio/Martino sarebbe stata quella che, partendo da San Martino, come protettore dei mariti ingannati (frequentissimo era l’appellativo di “Martino” per designare… un cornuto), portò a collegare il marito ingannato con il consorte di una strega.
Una tra le “colpe” delle fattucchiere, infatti, sarebbe quella di “abbandono del tetto coniugale”. Di notte, in silenzio , si immaginavano le megere sguscianti silenziose dal talamo nuziale per recarsi al sabba dove si sarebbero abbandonate agli accoppiamenti illeciti con il demonio. In periodo di “caccia alle streghe”, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, un rigido costume religioso tacciava dunque le poverette accusate di stregoneria, tra tanti fatti di indicibile scelleratezza (mangiare i bambini; copulare col demonio; abbandonarsi ai piaceri della carne; provocare la morte, risvegliare i turbini del cielo; danneggiare campi e raccolti ecc.), anche di uno dei più gravi reati perpetrati contro la morale e la società: disaggregare, letteralmente, il nucleo familiare.
(Da Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti)

Martino, diavolo, caprone, corna, cornuti… mentre scrivo di folletti, di caproni o di entità denominati Martino, mi viene in mente che oggi è l’11 novembre, la Festa di San Martino!
La tradizione orale, che ormai va scomparendo, richiama spesso “proverbi e detti” (che hanno una consuetudine quasi universale), ricorda fatti, personaggi e leggende, che sono l’espressione di una cultura popolare, che si tramanda con difficoltà ma senza essere cancellata o rimossa dalla memoria. In questo giorno di novembre, in cui si festeggia San Martino, è rimasta l’usanza di assaggiare per la prima volta il vino novello, che può ubriacare, fare cioè scherzi del diavolo, perché fresco, frizzante e quindi ingannatore. Il mosto, già fermentato, ha perso ormai il fondo dolciastro dell’uva, assumendo sentore di vino, ma perché lo diventi veramente, anche nella sostanza, bisogna attendere i mesi di marzo o di aprile. Il proverbio si rifà direttamente al costume del popolino romano, che festeggia l’11 novembre con pranzi e libagioni, come accadeva per il martedì grasso, in quanto successivamente cominciava il periodo liturgico dell’Avvento che prevedeva penitenze, cioè stili di vita contenuti e morigerati. C’è un’altra versione della tradizione di Martino e dei cornuti che non ha a che fare con i caproni e deriva dalla leggenda, presente nella mitologia latino-romana più arcaica, degli amori adulterini di Marte (di cui Martino è il diminutivo), Dio della guerra, e Venere, Dea dell’amore, che sorpresi da Vulcano, Dio del fuoco e marito della Dea della bellezza, furono da lui stesso rinchiusi in una rete di ferro per mostrarli agli Dei e averli quindi testimoni del torto subito. Ma gli Dei dell’Olimpo lo sbeffeggiarono e lo derisero, così la delusione di Vulcano fu ancora più atroce; forse proprio in quella vicenda va collocata l’origine di “un detto” che dura da secoli: “cornuto e mazziato”

venerdì 9 novembre 2012

Il Pozzo di Connla


Nella mitologia irlandese il Pozzo di Connla (anche detto Pozzo di Coelrind, Pozzo di Nechtan o Pozzo di Segais) è uno di quei pozzi soprannaturali variamente definiti "Pozzo della Saggezza" o "Pozzo della Conoscenza" e la sorgente di alcuni fiumi d'Irlanda.
È sede del Salmone della saggezza e circondato da nove noccioli sacri (anch’essi simbolo di conoscenza e saggezza). Il druido Finnegas (Finegas, Finn Eces, Finneces), trascorse sette anni cercando di pescare il Salmone. Quando finalmente lo catturò, diede istruzioni a Fionn, il suo apprendista, su come prepararglielo. Fionn si scottò il pollice versando del grasso bollente dal salmone che stava cuocendo e immediatamente si succhiò il dito per alleviare il dolore.
Quando Fionn portò il cibo pronto a Finnegas, esso vide negli occhi del ragazzo un fuoco che non aveva mai visto prima. Quando lo interrogò, Fionn negò di aver mangiato il pesce. Il maestro insistette con le sue domande e allora Fionn ammise di averne provato il sapore. Questa incredibile conoscenza e saggezza ricevuta dal Salmone permise a Fionn di diventare il leader dei Fianna, eroi del mito irlandese.
La storia di Fionn e del salmone della saggezza è simile alla leggenda gallese di Gwion Bach.
Mangiando le nocciole cadute nel pozzo, bevendo l'acqua del pozzo quando le nocciole cadevano o mangiando il Salmone che si nutriva delle nocciole, si acquisiva conoscenza ed ispirazione poetica. Il pozzo fu dunque cercato da molti poeti e filosofi.
Il Pozzo di Connla è un motivo comune nella poesia irlandese: per esempio appare in Le Nocciole della Conoscenza o Il Pozzo di Connla di George William Russell.
Yeats
descrisse il pozzo, che vide mentre era in trance, come pieno delle “acque dell'emozione e passione, in cui tutti gli spiriti purificati sono intrappolati”.
Secondo la leggenda di Cormac mac Art il pozzo si trova nella sala del re fatato Manannan mac Lir, il dio del mare e del tempo atmosferico. Normalmente Manannan è considerato uno dei Tuatha Dé Danann, benché alcune tradizioni lo vogliano più antico di essi. Il suo vero nome era Orbsen od Oirbsen. Il nome Manannan deriva da un nome arcaico dell'Isola di Man, mentre il suo patronimico mac Lir aveva un significato metaforico di "figlio del mare” (detto anche Ler, Ler è il nominativo e Lir il genitivo in antico irlandese per il termine mare). Più che una vera e propria divinità Lir è la personificazione del mare: le genealogie tramandano che il padre di Manannan fu Allód, e non - come si potrebbe pensare - Lir della celebre storia dei Figli di Lir.
Manannan possedeva molti oggetti dotati di proprietà magiche.
Donò a Cormac mac Airt il calice della verità; la sua nave, An Sguabair nan Tuinn ("spazza onde"), navigava senza bisogno di vele; aveva un mantello che rendeva invisibile chiunque lo indossasse, un elmo fiammeggiante, una spada chiamata Freagairiche ("colei che risponde") che non poteva mai mancare il bersaglio. Possedeva inoltre un cavallo di nome Enbarr che poteva cavalcare sulle acque come sulla terraferma.
Dopo la separazione dalla moglie, Fand Regina delle Fate, preoccupato per il suo amore verso l'eroe ulato Cú Chulainn che l'avrebbe condotta alla morte, perché nessuna fata poteva amare un mortale, Manannan cancellò i loro ricordi l'uno dell'altra.
Crebbe due figli adottivi: Egobail e Lugh.
Inoltre profetizzò a Bran, ne Il viaggio di Bran, che dalla sua discendenza sarebbe nato un grande guerriero, Mongan mac Fiachna
.
Il suo equivalente gallese è Manawyddan ap Llyr.
Era considerato anche il sovrano dell'oltretomba, re del Mag Mell, "la pianura della gioia"
o Tír na nÓg, la Terra della Giovinezza, la Terra dei Viventi, la Terra Multicolore, la Terra Promessa. Il Mag Mell è un paradiso di felicità, visto come un'isola nel lontano Ovest o, alternativamente, come un regno sul fondo dell'oceano. Come isola è stato visitato da diversi eroi e monaci irlandesi. Nel Mag Mell malattia e morte non esistono, è un luogo di giovinezza e bellezza eterna, dove musica, forza, vita e tutti i piaceri esistono contemporaneamente. La felicità non cessa mai e nessuno desidera cibo o acqua
È noto soprattutto per il mito di
Oisín e Niamh.
Oisín aveva bisogno di una guida per raggiungere il Mag Mell, che fu Niamh. Insieme raggiunsero questo regno incantato, dove trascorsero un certo tempo, finché la nostalgia non spinse Oisín a tornare alla madrepatria. Fu però sconvolto nell'apprendere che, mentre con Niamh aveva trascorso un solo anno nel Mag Mell, in Irlanda, ne erano trascorsi ben cento. Oisín raggiunse l'Irlanda in groppa al magico cavallo di Niamh, ma lei lo avvertì di non toccare il suolo, altrimenti il peso degli anni gli sarebbe piombato addosso in un solo istante. Ma Oisín non sentì il consiglio e, in un solo momento, si mutò in un vecchio. Riuscì comunque a raccontare a San Patrizio la sua storia, e a venir benedetto prima della morte. Questo racconto ha diversi altri paralleli nel mondo, a cominciare dalla storia giapponese di Urashima Tarō.
Il fascino del Mag Mell sopravvisse all'era pagana anche dopo l'avvento del cristianesimo. In racconti posteriori però non si tratta più tanto di una realtà oltremondana, quanto di una sorta di paradiso terrestre che i viaggiatori avventurosi possono raggiungere navigando verso ovest, spesso trascinati da provvidenziali tempeste. Solitamente questi viaggiatori esplorano diverse altre isole fantastiche prima di raggiungere il Mag Mell e poi far ritorno. Sono da ricordare, tra loro: San Brendano, Brân il Benedetto e Mael Dúin.
Queste storie sono sicuramente state ispirate dalla nota abilità marinara dei monaci irlandesi, che raggiunsero e colonizzarono diverse isole, anche molto lontane. Di San Brendano si ipotizza persino che abbia raggiunto il continente americano diversi secoli prima di Cristoforo Colombo.

La leggenda del Pozzo di Connla
Tanti e tanti secoli fa, lungo la costa irlandese nel punto in cui le città di Golwaj e Clifden si congiungono, c'era una piccola capanna sperduta e disabitata. Chi mai l'avesse costruita era a tutti ignoto. Gli uomini si rifiutavano di abitare quel luogo dove il cielo era quasi sempre grigio e raramente rischiarato dal sole. Inoltre il vento freddo dell' Atlantico vi soffiava così forte che sembrava voler strappare le poche forme di vegetazione che riuscivano a sopravvivere.
Ma un giorno una giovane donna, con il suo figlioletto appena nato, si rifugiò nella capanna. Si adattò alla solitudine del luogo e imparò a difendersi dal vento e dalle piogge. Viveva cibandosi degli animali che il mare depositava ogni giorno sulle spiagge e bevendo acqua piovana. Insegnò al suo bambino ad amare quell'universo che a tutti era sembrato ostile.
Il piccolo crebbe e diventò un uomo forte e saggio. Conosceva ogni aspetto dell'oceano: capiva anche dai segnali più insignificanti l'arrivo delle tempeste, percepiva la direzione delle correnti, coglieva nel colore e nelle trasparenze delle acque l'approssimarsi delle maree. Intuiva inoltre il significato delle nuvole in cielo.
Ciò che lo affascinava di più era però il mormorio delle onde; in riva al mare si sentiva rapito dal suono che proveniva dall'oceano, a volte dolce, a volte violento, ma sempre ricco di armonia e di mistero. Un giorno decise perciò di andare verso l'ignoto oltre la riva. Con una piccola zattera si abbandonò alle onde del mare e incominciò a remare guardandosi intorno incantato: l'immensità dello spazio azzurro lo ammaliava.
Dopo alcune ore di navigazione s'avvide con preoccupazione che stava per scatenarsi un uragano: la sua zattera non avrebbe potuto competere con le forze dell'oceano. Il giovane infatti lottò inutilmente contro le onde, che lo strapparono ai resti della zattera e lo inghiottirono.
Fu trascinato nel fondo. Si trovò in un mondo calmo e tranquillo, dove strani esseri lo guardavano meravigliati. Infine la corrente, che diventava sempre più impetuosa, lo risucchiò verso un grosso pozzo che si trovava nelle profondità marine.
Il giovane avvertì una strana sensazione; nel fragore delle acque, che cadevano nel pozzo, gli parve di udire un susseguirsi di espressioni. Erano tante parole nuove a lui sconosciute. Quanta dolcezza! E che suono meraviglioso producevano! Capì che le onde del mare gli parlavano e che egli ne comprendeva il messaggio.
Durò un attimo quel viaggio misterioso. Poi si trovò di nuovo sulla sua spiaggia. Rivide le luci di sempre, ascoltò i rumori e gli echi a lui noti, risentì il canto degli uccelli. Guardò le onde del mare e vi scorse le tante forme di vita che ben conosceva: il polpo, l'aringa, la seppia. Di lontano intravide il delfino, la balena azzurra. Ma scoprì una cosa strana: era padrone, ad un tratto, di una gamma infinita di suoni e di parole. Con esse poteva descrivere l'universo che lo circondava. Pronunciò, per la prima volta, espressioni mai udite prima. Erano perfette.
La madre sentì la sua voce, corse verso di lui per riabbracciarlo e rimase per ore ad ascoltare il suo dire.
Anche gli uomini e le donne che abitavano nei punti più lontani dell'isola lo sentirono e accorsero. Non comprendevano quel linguaggio, eppure il ritmo era così melodioso che ne furono affascinati: era nata finalmente la poesia.
Ma essa è una ricchezza di pochi. Chi vuole possederla deve infatti riuscire ad arrivare nelle profondità dell'oceano, nel pozzo sottomarino di Connla

giovedì 8 novembre 2012

Emain Ablach


Isle of Arran Pictures
 This photo of Isle of Arran is courtesy of TripAdvisor

L’elisio celtico non era situato, come il paradiso dello scrittore di inni, “sopra il luminoso cielo azzurro”, bensì qui sulla terra; ma, poiché era un mondo soggettivo, la sua ubicazione era vaga… Talvolta era una mistica isola verdeggiante che galleggiava sui mari occidentali. Gli uomini la avvistavano di tanto in tanto, mezzo nascosta tra una foschia luccicante, ma quando cercavano di avvicinarsi, svaniva sotto le onde…
L’Isola Verde è stata avvistata a quasi tutte le latitudini da Capo Wrath, in Scozia, a Capo Clear, in Irlanda. A volte è stata identificata con una particolare isola dell’Occidente.
“Secondo la tradizione irlandese”, dice il professor Watson, “l’isola di Arran era la patria di Manannan, il dio del mare, ed era anche detta Emain Ablach, Emain delle Mele. Ciò equivale, suppongo, a sovrapporre l’Arran ad Avalon, il glorioso aldilà”.
Per entrare in quell’aldilà prima della morte, era necessario un passaporto. Si trattava di un ramo argenteo del melo mistico, carico di fiori o frutti – anche se talora era sufficiente una sola mela – che la regina della fate di Elfhame consegnava al mortale di cui desiderava la compagnia. Esso non fungeva solo da passaporto, ma anche da nutrimento, e aveva la proprietà di rendere la musica così ipnotica che chiunque la udisse dimenticava tutti i problemi e le tribolazioni

Da Il ramo d’argento, vol. I: Folklore e credenze popolari scozzesi di F. Marian McNeill
in La maledizione del ramo d’argento di Lisa Tuttle

mercoledì 7 novembre 2012

Lo scrigno


Tornando nella sua stanza, pensò per un momento di rimettersi a letto e restare a crogiolarsi tutta la mattina sotto le coperte, ma vide che in mezzo alla stanza, dove poco prima c’era stato solo un tappeto da preghiera, adesso c’era uno scrigno di legno.
Emettendo un gridolino di gioia si precipitò a passare le mani sul vecchio legno intarsiato e lucidato fino a sembrare uno specchio e sentì un buon profumo di cera d’api e di rosmarino.
Si trattava di uno scrigno molto antico che fin da piccola aveva ammirato nel castello dei Donovan. Uno scrigno da mago che si diceva si trovasse a Camelot in un tempo ormai lontano, commissionato dal giovane re Artù per Merlino.
Ridendo di gioia, si accucciò per terra. I suoi genitori, gli zii, le zie, così lontani ma mai fuori del suo cuore, riuscivano sempre a sorprenderla.
Il potere congiunto di sei streghe era riuscito a spedirle quell’oggetto prezioso dall’Irlanda, facendolo volare attraverso lo spazio e il tempo senza avvalersi dei mezzi tradizionali.
Sollevò adagio il coperchio e il profumo di vecchie visioni, di antichi incantesimi e di una magia senza fine salì fino a lei. La fragranza era asciutta e aromatica: sembrava prodotta dai petali di fiori secchi ridotti in polvere e intrisi dell’odore del fumo di un fuoco freddo acceso da un mago durante la notte.
Ana s’inginocchiò e sollevò le braccia, facendo scivolare le maniche di seta fino al gomito.
Lì c’era il potere che andava accettato e rispettato. Le parole che pronunciò erano in una lingua antica, quella dei Saggi. Il vento che chiamò, agitò le tende e le fece volare i capelli intorno al viso. L’aria cantò, si levò il suono melodioso di migliaia di arpe, poi tornò il silenzio.
Abbassando le braccia, Ana frugò dentro lo scrigno. Un amuleto di eliotropio il cui cuore rosso sembrava sanguinare la costrinse a sedersi. Sapeva che era appartenuto alla famiglia di sua madre per molte generazioni. Quella pietra aveva un enorme potere di guarigione.
Comprendendo che l’amuleto era stato passato a lei, come accadeva ogni mezzo secolo, per classificarla guaritrice dell’ordine più alto, gli occhi le si colmarono di lacrime.
Il suo dono, pensò, accarezzando la pietra su cui erano passate altre dita in altri tempi. La sua eredità.
Dopo averlo posato con delicatezza dentro la cassa, prese un altro regalo: un globo di calcedonio la cui superficie trasparente le avrebbe offerto la visione dell’universo se avesse deciso di vederlo. Mentre stringeva il globo tra le mani, sentì che le era stato inviato dai genitori di Sebastian. Il regalo successivo era una pelle di pecora su cui era incisa una storia in una lingua antica. Leggendola, sorrise perché era una storia che parlava di fate, vecchia come il tempo, dolce come il domani. Zia Bryna e zio Matthew, pensò, riponendola nella cassa.
L’amuleto le era stato regalato da sua madre, ma lei sapeva che doveva esserci qualcosa di speciale anche da parte di suo padre. Lo trovò e rise, tirando fuori un piccolo ranocchio di giada.
“Ti assomiglia, papà.” Rise. Poi, dopo averlo rimesso dentro, chiuse il coperchio dello scrigno e si alzò

Da: Il castello dei misteri di Nora Roberts