domenica 23 gennaio 2011

The Lake Isle of Innisfree



I WILL arise and go now, and go to Innisfree,
And a small cabin build there, of clay and wattles made:
Nine bean-rows will I have there, a hive for the honeybee,
And live alone in the bee-loud glade.

And I shall have some peace there, for peace comes dropping slow,
Dropping from the veils of the mourning to where the cricket sings;
There midnight's all a glimmer, and noon a purple glow,
And evening full of the linnet's wings.

I will arise and go now, for always night and day
I hear lake water lapping with low sounds by the shore;
While I stand on the roadway, or on the pavements grey,
I hear it in the deep heart's core
.

William Butler Yeats (1893)

Innisfree, l’isola sul lago
Mi leverò e andrò, ora, andrò a Innisfree,
E costruirò una capanna laggiù, fatta d’argilla e canne,
Nove filari di fave avrò laggiù, un’arnia per le api da miele,
E solo starò nella radura ronzante d’api.
E avrò un po’ di pace laggiù, ché la pace discende goccia a goccia,
Discende dai velami del mattino fin dove canta il grillo;
La mezzanotte è tutto un luccichìo, il meriggio purpurea incandescenza,
La sera è piena d’ali di fanello.

Mi leverò e andrò, ora, ché sempre notte e giorno
Odo l’acqua del lago lambire con lievi suoni la sponda;
Stando in mezzo alla strada, sui marciapiedi grigi,
La sento nella fonda intimità del cuore.

giovedì 20 gennaio 2011

L'archetipo della Donna Selvaggia


I lupi sani e le donne sane hanno in comune talune caratteristiche psichiche. Sensibilità acuta, spirito giocoso, e grande devozione. Lupi e donne sono affini per natura, sono curiosi di sapere e possiedono grande forza e resistenza. Sono profondamente intuitivi e si occupano intensamente dei loro piccoli, del compagno, del gruppo. Sono esperti nell’arte di adattarsi a circostanze sempre mutevoli; sono fieramente gagliardi e molto coraggiosi.
Fiabe, miti e storie offrono un sapere e una comprensione che aguzzano la nostra vista in modo tale da permetterci di distinguere e di riprendere il sentiero tracciato dalla natura selvaggia. Gli insegnamenti che vi troviamo ci rassicurano: il sentiero non si è perduto, ancora conduce le donne in profondità, e ancor più in profondità, nella conoscenza di sé. Le tracce che noi tutte seguiamo sono quelle dell’archetipo della Donna Selvaggia, l’Io istintuale innato.
La donna sana assomiglia molto al lupo: robusta, piena di energia, di grande forza vitale, capace di dare la vita, pronta a difendere il territorio, inventiva, leale, errante. Eppure la separazione dalla natura selvaggia fa sì che la personalità della donna diventi povera, sottile, pallida, spettrale. Non siamo nate per essere cuccioli spelacchiati e incapaci di balzare in piedi, incapaci di cacciare, di generare, di creare una vita. Quando la vita delle donne è in stasi, è nel tedio, allora è tempo per la Donna Selvaggia di emergere; è tempo per la funzione creativa della psiche di inondare il delta.
Come influisce sulle donne la Donna Selvaggia? Con la Donna Selvaggia come alleata, guida, modello, maestra, noi vediamo non con due occhi ma con gli occhi dell’intuito, che è occhiuto. Quando facciamo valere l’intuito, siamo come una notte stellata: fissiamo il mondo con migliaia di occhi.
La Donna Selvaggia porta tutto ciò di cui una donna ha bisogno per essere e sapere. Porta il medicamento per tutto. Porta storie e sogni e parole e canzoni e segni e simboli. È nel contempo veicolo e destinazione.
Le storie sono un balsamo. La Estés ne rimase catturata per sempre quando sentì raccontare una storia per la prima volta. Hanno un tale potere: non ci chiedono di fare, essere, agire – basta ascoltare. I rimedi per reintegrare o reclamare una pulsione psichica perduta si trovano nelle storie. Le storie generano l’eccitamento, la tristezza, le domande, gli struggimenti e le conoscenze che spontaneamente riportano in superficie l’archetipo, in questo caso la Donna Selvaggia.
L
e storie sono disseminate di istruzioni che ci guidano nelle complessità della vita. Le storie ci mettono in grado di comprendere il bisogno dell’archetipo e i modi per far risalire l’archetipo sommerso.
Talvolta vari strati culturali sovrapposti disarticolano le storie. Per esempio, nel caso dei fratelli Grimm (per citare due dei collezionisti di fiabe degli ultimi secoli), forte è il sospetto che gli informatori (i cantastorie) del tempo talvolta “depurassero” le loro storie per riguardo ai religiosi fratelli. Sospettiamo anche che i famosi fratelli continuarono la tradizione di sovrapporre simboli cristiani agli antichi simboli pagani, sicché la vecchia guaritrice di un racconto diventava una strega malvagia, uno spirito diventava un angelo, un velo per l’iniziazione diventava un fazzoletto, o una bambina di nome Bella (nome spesso dato alle bambine nate durante la festa del Solstizio) veniva ribattezzata Schmertzenreich, Addolorata. Venivamo omessi gli elementi sessuali. Creature e animali soccorrevoli erano trasformati in demoni e uomini neri.
Ecco come molti racconti ricchi d’insegnamenti sul sesso, l’amore, il denaro, il matrimonio, il parto, la morte e la trasformazione sono andati perduti. Ecco come anche le fiabe e i miti che spiegano gli antichi misteri delle donne sono stati pure ricoperti. Per la maggior parte le antiche raccolte di fiabe e miti oggi esistenti sono stare purgate dello scatologico, del sessuale, del perverso, del precristiano, del femminile, delle dee, dell’iniziazione, delle medicine per vari disturbi psicologici, e delle istruzioni per le estasi spirituali.
Ma non tutto è perduto per sempre. In ogni frammento di una storia si trova la forma dell’intera storia.  La Estés ha frugato in quelle che scherzosamente chiama la tradizione forense e la paleo-mitologia delle favole. Compara molte versioni dello stesso racconto, e raccoglie tutte le versioni vecchie e nuove che riesce a trovare. Poi compara le forme, ricostruendo da antichi andamenti archetipi appresi in anni di training in psicologia archetipa, che conserva e studia tutti i motivi e gli intrecci delle favole, delle leggende e dei miti per cogliere la vita istintuale degli esseri umani. Trova assistenza negli architravi che giacciono nei mondi immaginari e nell’inconscio collettivo di tutti gli esseri umani e che possiamo estrarre dai sogni e da speciali stati di consapevolezza. Spesso una bella lucentezza si ottiene comparando le versioni della storia con le testimonianze archeologiche delle antiche culture femminili, per esempio le ceramiche rituali, le maschere e le statuette.
Le storie sono e saranno sempre molto più antiche dell’arte e della scienza della psicologia. Uno dei modi più antichi di raccontare, che intriga fortemente la Estés, è l’appassionato stato di trance in cui chi narra “sente” il pubblico, che si tratti di una o più persone, ed entra allora in uno stato del mondo tra i mondi, dove una storia è “attratta” verso la narratrice in trance e viene detta attraverso di lei. Questa è la cantastorie che asseconda il farsi dell’anima.
La narratrice in trance richiama El duende, il vento che soffia anima nei volti degli ascoltatori. La narratrice in trance impara a essere, psichicamente, doppiamente articolata, mediante la pratica meditativa della storia, cioè allenandosi a disfare taluni cancelli psichici e aperture dell’io per lasciar parlare la voce più antica delle pietre.  Fatto ciò, la storia può prendere qualunque direzione, può essere capovolta, riempita di porridge e destinata al banchetto di un povero, riempita d’oro, o cacciare l’ascoltatore nel mondo futuro. La narratrice non sa mai che cosa ne verrà fuori, e questa è almeno la metà della magia essudata dalla storia.
Per trovare la Donna Selvaggia le donne devono tornare alla loro vita istintiva, alla loro più profonda sapienza. Cantiamo dunque la sua carne che torna a coprire le nostre ossa.
Lasciamo cadere i falsi manti che ci hanno dato. Indossiamo il manto autentico dell’istinto possente e della conoscenza. Infiltriamoci nei territori psichici che un tempo ci appartenevano. Sciogliamo le bende, prepariamo il balsamo. Torniamo a essere ora, le donne selvagge che ululano, ridono, cantano Colei che ci ama tanto.
Per noi la questione è semplice. Senza di noi la Donna Selvaggia muore. Senza la Donna Selvaggia, siamo noi a morire. Para Vida, tutte dobbiamo vivere

Da Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés

sabato 15 gennaio 2011

Le Gwragedd Annwn


La donna che vive nel lago

…una notte
un battito di cuore alla porta.
Fuori, una donna nella nebbia
Ramoscelli ha per capelli,
e un abito di erbe sgocciolanti
verdi acque del lago.
Dice: “Sono te,
e vengo da tanto lontano.
Vieni con me, ho qualcosa da mostrarti…”
Si volge, e le si apre il mantello.
D’improvviso, luce d’oro… ovunque, luce d’oro…”
Da: Donne che corrono coi lupi, di Clarissa Pinkola Estés



Gwragedd Annwn (pronuncia Gwrageth Anoon), è un termine gallese che può essere tradotto in italiano come “La Fanciulla del Lago”.
Queste creature – al contrario delle tante figure malvagie presenti nella tradizione gallese – sono belle, buone e desiderabili. John Rhys, nel suo Celtic Folk-Lore, dedica più di un intero capitolo a questi spiriti. Questi elfi femminili, che vivono in meravigliosi palazzi d’oro sotto la superficie dei laghi, hanno la fama di essere leggiadre creature che amano danzare sui prati nelle notti di luna piena. Sorgono come per incanto dalle acque appena qualche minuto prima della mezzanotte come eterei ed evanescenti spiriti fatti di nebbia e, quasi per incanto, sotto i pallidi raggi dell’astro notturno si trasformano in sinuose ballerine, dando inizio a una danza scatenata che si placa solo al primo canto del gallo. Naturalmente, hanno una spiccata predilezione per i giovani e i tanti contadini, ma si lasciano avvicinare volentieri anche dai bambini. A volte è accaduto che alcuni mortali si siano uniti in matrimonio con una Gwragedd Annwn, ma queste unioni sono destinate a finire infelicemente per il fatto che si tratta di due nature troppo diverse, anche se a volte il richiamo dell’amore è troppo forte per opporsi alla voce del cuore. Così, poiché l’amore vince su tutto, in qualche occasione ci sono state unioni durature con la nascita di numerosa prole. I bimbi di queste creature sono dotati di poteri magici e sono destinati ad una vita fortunata e ricca di soddisfazioni, così come lo stesso compagno della Fata.

Identificazione
Le Gwragedd Annwn sono alte all’incirca un metro e mezzo o poco più, hanno capelli biondi come il grano d’estate, sono snelle e longilinee e quello che colpisce di più, in loro, è lo sguardo limpido e cristallino che non può lasciare indifferente chi le guarda; gli occhi sembrano due gemme lavate nella rugiada in un mattino di primavera. Forse ci sono anche esemplari maschili, ma la cosa non è assodata.

Habitat
Tutta questa specie elfica è distribuita in piccole comunità nel Galles, ma è imparentata con diverse famiglie stanziate anche in Germania, come le See Fraulein che si vestono completamente di bianco, in Norvegia, in Finlandia, in Svezia e in Francia.
Da: Le creature del bosco di Dario Spada

Le Gwragedd Annwn (letteralmente mogli del mondo inferiore o degli inferi, intesi sempre come l’Altromondo inferiore e che non hanno nulla a che fare con la concezione cristiana degli inferi) sono le dame elfiche che dimorano sotto l’acqua. A differenza delle sirene, non hanno nulla del pesce nel loro aspetto e non abitano sotto il mare. I luoghi in cui abitano sono i laghi ed i fiumi, specialmente i laghi isolati e selvaggi di montagna. Possono mettere in contatto il nostro mondo con quello dell’Annwn, presieduto da Gwyn ap Nudd, il re delle fate. Le creature misteriose che popolano i regni sotto l’acqua sono denominate nel Galles anche Plant Annwn (la Famiglia dell’Altromondo o i Figli dell’Abisso). Gli abitanti delle montagne gallesi sono convinti che occasionalmente visitino il nostro mondo.
Molto tempo fa, prima che la tribù dei Cymri (gli antichi gallesi) si riconciliasse con il suo nemico sassone, ogni mattina del Primo Giorno dell’Anno, veniva trovata una porta aperta in una roccia vicino ad un lago. I mortali che avevano la curiosità e la determinazione di entrare nella roccia venivano a trovarsi, attraverso un passaggio segreto, in una piccola isola in mezzo al lago. Qui trovavano il giardino più incantevole che avessero mai visto, ricco di ogni varietà di frutti e di fiori, e abitato dalle Gwragedd Annwn, la cui bellezza era pari solo alla cortesia e all’affabilità che mostravano a coloro che godevano dei loro favori. Esse raccoglievano frutta e fiori per ciascuno dei loro ospiti, li intrattenevano con la musica più squisita, rivelavano loro molti segreti sul futuro, e li invitavano a rimanere tutto il tempo che desideravano. “Ma” li avvertivano, “l’isola è segreta, e niente di quello che produce può essere portato via”. Finché il patto fu rispettato, andò tutto bene. Ma un giorno tra i visitatori c’era anche un uomo perfido che, pensando di trarne qualche magico aiuto, si mise in tasca un fiore che gli avevano mostrato, e se ne andò dal giardino portandoselo via.
Ma il furto non gli portò bene. Appena toccò il suolo sconsacrato il fiore svanì ed egli perse i sensi. Le Gwragedd Annwn reagirono immediatamente all’insulto alla loro ospitalità. Congedarono gli ospiti con la loro abituale cortesia e la porta venne chiusa come al solito. Ma il loro risentimento fu forte, perché da allora le fate del lago e il loro giardino incantato non vennero più visti da nessuno e la porta che conduceva all’isola non fu mai più riaperta.
Da: British Goblins: Welsh Folk-lore, Fairy Mythology, Legends and Traditions di Wirt Sikes


Il lago di Crumlyn, vicino al caratteristico villaggio di Briton Ferry, è uno dei tanti nel Galles in cui dimorano le dame elfiche. Si crede anche che una grande città sia sprofondata nell’acqua e che si trovi laggiù, e che le Gwragedd Annwn utilizzino le mura sommerse come sovrastruttura dei loro palazzi fatati. Alcuni asseriscono di aver visto le torri dei bei castelli sotto la superficie delle acque scure e a volte si odono i rintocchi delle campane fatate delle torri dei castelli. Ecco come le dame elfiche andarono per la prima volta ad abitare laggiù: molto tempo fa, San Patrizio giunse dall’Irlanda per andare a trovare San David del Galles, una visitina solo per vedere come stava; e mentre passeggiavano lungo il lago conversando di argomenti religiosi in via amichevole, alcuni gallesi che lo avevano riconosciuto e che erano irati con lui per aver lasciato la Cambria per l’Erin (come erano chiamati allora il Galles e l’Irlanda), cominciarono ad insultarlo in gallese, la sua lingua natìa. Tali insulti non rimasero impuniti e San Patrizio trasformò i calunniatori in pesci, ma tra loro c’erano anche delle donne che furono invece trasformate in fate.
Si racconta anche che il sole, a causa dell’insolenza nei confronti del santo, non diffuse mai più i suoi raggi portatori di vita sulle acque scure del pittoresco lago, tranne una settimana all’anno. Questa leggenda si ritrova uguale anche in relazione ad altri laghi, tra i quali Llyn Barfog (Lago di Barfog chiamato anche Bearded Lake, Lago del Barbuto), vicino ad Aberdovey, la città famosa per le sue campane celebrate in una canzone immortale.
C’è pure su youtube:



Uno dei racconti più antichi sulle Gwragedd Annwn è la storia della Signora di Llyn y Fan Fach, un piccolo lago vicino alle Black Mountains nel Galles. Nel dodicesimo secolo, un giovane stalliere di Blaensawde vicino a Mydfai ebbe un colpo di fulmine per una Fanciulla del Lago, quando la vide pettinarsi la sua lunga chioma dorata. Si sposarono, ma la dama lo avvertì di non colpirla mai nemmeno per scherzo, perché se l’avesse colpita tre volte, essa sarebbe ritornata nel lago. Vissero felici per molti anni durante i quali nacquero tre figli. Ma l’uomo dimenticò l’avvertimento e in tre occasioni le diede un affettuoso colpetto. Dopo l’ultimo colpetto, la dama ritornò nel suo lago di montagna. Ciononostante, veniva spesso a trovare i suoi tre figli, insegnando loro grandi segreti sulla medicina. Questi ragazzi divennero poi i famosi medici del Mydfai. Questa capacità, ereditata dalla Fanciulla del Lago loro madre, venne tramandata ai discendenti della famiglia fino al diciannovesimo secolo, quando si estinse la loro linea di sangue.

Attributi psicologici: Gentilezza con una forza interiore che permette di evitare situazioni spiacevoli.
Attributi magici: Grandi segreti sulla guarigione e sulla medicina.
Da: Magickal Mystical Creatures: Invite Their Powers Into Your Life di D.J. Conway
Alcuni studiosi di mitologia ritengono che Fand, la Regina delle Fate irlandese, potrebbe appartenere alla loro razza. (Nei miti irlandesi fu la sposa di Manannan mac Lir, dio del mare e re di un’isola dell’Altromondo corrispondente all’isola di Avalon dei miti gallesi, sempre nei miti gallesi Manawydan ap Llyr è l’equivalente del dio del mare irlandese Manannan mac Lir; inoltre Manawydan  sposò Rhiannon, un’altra regina delle fate, quindi anche Rhiannon potrebbe essere la versione gallese di Fand e di conseguenza appartenente alla stessa razza delle Gwragedd Annwn).
Nell’acqua dei laghi in cui vivono si nascondono palazzi e tesori invisibili da tutti tranne che da alcuni dei loro bambini per metà umani.Si distinguono dagli esseri umani per la loro bellezza mozzafiato e la loro incapacità di contare oltre il numero cinque, il numero in cui raccolgono ogni cosa eccetto i loro compagni.
Dove trovarle: nelle Black Mountains nel Galles.
Come contattarle: bisogna andare nelle Black Mountains, fisicamente o in modo astrale e poi andare alla loro ricerca. Si devono avvicinare con prudenza.
Aiuto magico e rituale: Possono aiutare negli incantesimi di protezione per donne e bambini e si possono persino invocare per fare da custodi temporanee in periodi di grande necessità.
Da: A witch's guide to faery folk, di Edain McCoy

Le città sommerse e i loro palazzi di cristallo si trovano nel Galles nel Crumlyn/Crywmlyn (Crooked Lake), nel Glamorgan; nel I Llyn Barfog, nel Llyn y Fan Fach (pronuncia hleen uh vahn vach) o Lake of the Affanc, Dwarves; in Francia nella fontana di Chancela, nel fiume della Loira, a Donzère, in Provenza e nella Valle di Azun nei Pirenei.
Le Gwragedd Annwn. sono le custodi della famosa spada di Artù,  Excalibur.
Da: http://www.tartanplace.com/faery/merm3.html

lunedì 10 gennaio 2011

La donatrice invisibile


Se riandiamo con la memoria alla nostra infanzia subito riaffiora alla mente il pensiero della misteriosa figura che arriva di notte presso il focolare, e non può essere vista. Una befanata toscana recita:

La Befana abbian trovata
per la strada mezza morta
con le fusa nella sporta
da una parte smanicata.
Ragazzetti a letto andate,
questa è l’ora di dormire
La Befana vuol venire
e non vuole che la vediate
.
1)

1) Befanate del contado toscano

Questa proibizione di vedere la Befana è in rapporto con la sua invisibilità. Essa infatti è invisibile, non solo, ma l‘incauto che si arrischiasse di vederla incorrerebbe in gravi pericoli. L’immagine non vista, ma presente, della Befana si può ricollegare alle concezioni sugli spiriti invisibili degli antenati; l’invisibile protettore della famiglia si associa nella coscienza degli uomini con la figura dell’antenato. Nel rito funebre osserviamo una compresenza di due momenti: onorare il defunto e temerne al tempo stesso la vista. Il rito di non vedere il morto si può manifestare sia coprendosi alla sua vista, sia coprendo il defunto o velando il volto del defunto, affinché non sia visto. Gli esseri invisibili appartengono al mondo degli spiriti, sono figure di antenati della stirpe, oppure, come avviene nei miti, si tratta di uomini che si trovano a soggiornare per qualche tempo nel regno dell’oltretomba, dove di solito trovano aiutanti magici ed oggetti fatati che permettono loro di portare a termine agevolmente l’impresa. Così nelle fiabe si sono conservati i motivi del mantello o del cappello che indossati rendono invisibili.
L’atteggiamento delle culture tradizionali è caratterizzato da una fede nella presenza e nell’azione di forze invisibili ed inaccessibili ai sensi, le quali non sono meno reali di quelle visibili. Di qui la mancanza di distinzione nello stesso oggetto di qualità tangibili o nascoste, segno evidente di un più accentuato senso mistico.
Nella Grecia omerica era diffusa l’usanza di coprire con un cappuccio la testa del defunto, poiché si credeva, analogamente ai Celti,  che in essa fosse la sede dell’anima. Avvolgere la testa significava rivestire l’anima di un nuovo fato, ridarle nuova vita, e al tempo stesso, coprendo il volto del defunto lo si rendeva invisibile. Questo spiega perché nelle fiabe indossare un cappuccio o un mantello rende invisibili.
Nel mondo dei cacciatori paleolitici rivestire la pelle dell’animale sacro significava identificarsi con esso e quindi con l’antenato, il cui spirito era presente nell’animale. Di qui potrebbero essersi sviluppate le figure mascherate con pelli di animali, o imbrattate di fuliggine, da porre in relazione sia con gli spiriti degli avi defunti, che con le società di iniziati che tali spiriti impersonavano.
I personaggi mascherati che compaiono in aspetto spaventevole nelle case portando con sé dei sacchi pieni di cenere e di fuliggine, con la quale cospargono gli astanti, soprattutto i bambini, non sono altro che una reminiscenza di questi uomini mascherati impersonanti le anime dei defunti, che ritornano tumultuose a coinvolgere i vivi. A Trento il wetscho e la wetscha, ricoperti  di fuliggine, tentano di annerire le donne che incontrano nel loro cammino. I ragazzi girano per le vie indossando pelli di animali, col viso nascosto da maschere di legno e con cinture di pelle e di campanacci da bestiame intorno alla vita. Ogni ragazzo regge un bastone al quale è legato un sacco pieno di cenere, che viene poi rovesciato sulla testa delle ragazze.
Alle maschere che si presentano nelle case si usa offrire doni. Nei giorni precedenti il mercoledi delle ceneri, nelle Alpi orientali gli Heumüterli (da heu, “fieno” e mütter, mamma) girano da una casa all’altra del paese in vesti femminili, con braccia e gambe avvolte nella paglia e i volti anneriti. Essi impiastricciano di nerofumo chiunque incontrino sul  loro cammino. Queste figure presentano una straordinaria similitudine con i Mamutones della Sardegna, uomini mascherati con abiti femminili, con maschere scure sul volto, fazzoletti legati sulla testa, ricoperti di pelle e con tanti campanacci appesi alle cinture, che essi fanno suonare saltando in modo cadenzato, accompagnati da questi ritmi ancestrali.
Una costante di questi giochi carnevaleschi è l’azione di spalmarsi di fuliggine e cospargerne gli astanti, senza dubbio perché la cenere è portatrice di virtù benefiche e fertilizzanti; ma qui occorre tener presente un altro significato insito nell’imbrattamento. Nelle fiabe l’azione di imbrattarsi il viso e le mani di fuliggine ha lo scopo di rendere il protagonista irriconoscibile. Questo motivo fiabesco è senza dubbio connesso al mascheramento dei candidati ai riti di iniziazione.
Al neofita venivano spalmati gli occhi con argilla, in modo che egli li tenesse chiusi per qualche tempo. L’atto di dipingersi il corpo, o di ricoprirlo con materiali eterogenei, è in relazione con l’idea di invisibilità, con i concetti di mimesi e trasformazione, e quindi con la rappresentazione di un soggiorno temporaneo nel regno d’oltretomba. Il giovane iniziando veniva considerato alla stregua di un defunto: alla sua vista i familiari si cospargevano di fango e cenere, gesti tipici del lutto primitivo. L’azione di coprirsi il viso o tingerlo è quindi da riferire alla condizione di temporanea “invisibilità” dei novizi, giovani candidati ai riti di iniziazione, corrispondente all’invisibilità degli avi defunti, che essi in tal modo impersonavano.
Se torniamo alla filastrocca toscana sulla Befana, osserviamo che ai ragazzi viene imposto il dovere di dormire, poiché non devono vedere la Befana quando questa arriverà. Tuttavia nell’etnografia appare più frequentemente attestato il divieto del sonno.
L’esigenza di vegliare trova giustificazione nel timore degli spiriti mentre l’imposizione del sonno sembra indicare un’assenza di questo timore, una confidenza nella benevola figura di uno spirito famigliare. Se tuttavia ci soffermiamo su questa seconda indicazione, osserviamo che essa verosimilmente risponde alla necessità di evitare di rimanere in presenza dello spirito. Quest’ultimo infatti è “invisibile”, nel senso che non deve e non può essere visto; un essere vivente non può trovarsi impunemente alla presenza di uno spirito.
Quando la Befana arriva i bambini dormono; ma una volta lo svolgimento del rito aveva l’effetto di suscitare nei ragazzi il terrore alla vista degli spiriti. Si evocavano le oscure presenze degli avi attraverso le maschere, accrescendo l’orrore dei giovani novizi, per poi superarlo una volta giunti alla scoperta della “verità” che consisteva appunto nel constatare che le spaventose maschere, rappresentanti gli spiriti degli antenati, altri non erano che figuranti, uomini iniziati della tribù, ricoperti di pelli animali, con il corpo dipinto, il viso imbrattato di fuliggine, oppure di bianco.
Spesso a capo delle maschere c’era la figura di una vecchia donna, sempre interpretata da un uomo, che indossava grembiuli e vesti femminili, rappresentando così la grande antenata della tribù. È da questa figura che si sarebbe sviluppata in seguito la Befana, non tanto come noi la conosciamo nelle tradizioni folcloriche italiane o europee, ma soprattutto come si è conservata in alcune aree geografiche che riflettono questo nucleo primordiale. Il senso originario della figura della Befana va ricercato anche in questa direzione; il suo compito particolare era quello di presiedere alla formazione del bambino, di seguirne le fasi essenziali della vita, fino al momento di entrare a far parte della società adulta.
La figura della Befana presenta una certa ambivalenza. Essa è solitamente la benevola dispensatrice di regali, ma talvolta può assumere aspetti inquietanti. Il carattere ambivalente è una costante delle divinità ctonie, di Persefone, come della germanica Holda, e di Kali dal doppio nome: “la terribile e la benevolente”. Le tradizioni popolari hanno conservato tracce di questa doppia percezione.
Tra le funzioni della Befana nella tradizione folcloristica europea dobbiamo annoverare anche quella di rapitrice. La vigilia di Epifania tre anziane donne travestite da uomini, con un sacco nero sul capo andavano in giro a spaventare i bambini.
Se si volesse ricercare la ragione di tali minacce tentando di interpretarle alla lettera, e riconducendole al clima di severità pedagogica tipico delle epoche trascorse, si incorrerebbe in un errore, in quanto si tratta evidentemente di un gioco drammatico dalle regole ben precise, nel quale gli attori ricoprono ruoli fissi e codificati da secoli. Lo scenario ci riporta alla fase iniziale del rito, quando i giovani neofiti venivano rapiti sotto gli occhi di tutti da uomini mascherati o da animali posticci, e condotti via lontano dal villaggio, nella foresta o in un altro luogo sacro, quale un monte o una grotta. In alcuni casi uomini vestiti da vecchie, indossando dei grembiuli, venivano a rapire gli iniziandi e a trascinarli via in luoghi segreti. Questi uomini impersonavano le “progenitrici” mitiche, nella loro funzione di rapitrici. A capo di tutte le maschere era una figura femminile, che veniva definita la “madre” e che soltanto gli iniziati potevano conoscere.
È interessante osservare che nel modenese il termine borda, con cui è nota la Befana, indica anche “maschera”, “spauracchio, fantasma”. Sappiamo che la Befana era originariamente una maschera. Non pare superfluo ricordare che il nome della dea infera per eccellenza, Proserpina, è connesso etimologicamente al termine arcaico pròsopon, “maschera”. In Germania la notte di Epifania veniva detta Perchtennacht, o Bergnacht, “notte dei Berchten”, ossia la notte dell’apparizione sulla Terra degli spiriti che vagano guidati dalla loro regina Berchta. Lo Schembert è infatti una maschera che spaventa i bambini. Berchta, il cui nome significa “luminosa”, “splendente” (come ho scritto in un altro post), dal sanscrito brhaj, latino fulgeo, è un personaggio del tutto affine alla Befana. L’assimilazione della maschera agli spiriti degli antenati spiegherebbe anche i significati di spettro, spauracchio e così via, collegati alla figura della Befana, come ad altre analoghe.

Da: L’incanto e l’arcano: per una antropologia della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco

domenica 9 gennaio 2011

La Tante Arie


Accanto ai tratti boomorfi, si è conservato nelle leggende e tradizioni intorno alla Befana il legame con l’asino.
La domenica dopo l’Epifania in Bovò di Picardia si usava far girare per la chiesa una giovane su di un somarello e un vecchio a piedi per rappresentare la fuga in Egitto. In un testo di Rouen del secolo XIV si trova descritta una rappresentazione detta Ordo processionis asinorum. In una versione più antica troviamo tra i vari personaggi un “Balaam super asinam, curvus, barbatus, palmam tenens”.
Il ruolo che l’asino ricopre nell’Antico, come nel Nuovo Testamento, indica l’importanza di questo animale presso i primi cristiani, dovuta non soltanto al suo carattere umile, ma anche ad un remoto fondo di sacralità che esso conservava, soprattutto in Asia Minore. È probabilmente anche grazie a questi influssi culturali di provenienza orientale che l’allevamento dell’asino si diffuse anche in Italia, insieme al complesso mitologico che lo accompagnava. La presumibile affinità tra l’animale sacro del mondo rurale ed alcune divinità femminili legate alla terra si concretizza nella festa agraria dedicata all’asino, nella quale affiorano reminiscenze di un culto dedicato ad Ancharia, antica dea dei Precutini.
Nell’antico Egitto, nel mese di Faofi si cuocevano focacce rituali, imprimendovi dei sigilli raffiguranti l’animale, analogamente a quanto accadeva coni pani boomorfi delle tradizioni siciliane. Nell’Egeo si svolgevano processioni alle quali partecipavano figuranti con maschere asinine. Si tratta di un dettaglio che ci induce a scorgere in queste grottesche presenze dei rappresentanti o ministri di una qualche divinità onomorfa. D’altro canto, se immaginiamo di intraprendere il punto di vista dell’antico agricoltore mediterraneo, dobbiamo ammettere che in qualche modo, aldilà del sembiante animale, egli abbia avvertito la presenza di un essere umano. È il pensiero della metamorfosi, che è sempre presente nell’immaginario universale. Proprio queste concezioni e questi miti, diffusi nel mondo mediterraneo, hanno indotto forse l’autore dell’Asino d’oro, Apuleio, ad immaginare che dietro lo sguardo lucido di un povero asinello si nascondesse l’anima dello sventurato Lucio. È per l’appunto sotto questa forma ferina che il giovane porterà a termine la sua formazione spirituale, fino a giungere al momento in cui, iniziatosi ai misteri isiaci, incontrerà la dea stessa che gli restituirà l’aspetto umano. Ma prima che ciò si compia l’asino dovrà affrontare varie prove, e dovrà rendersi degno di servire la dea, offrendosi di trasportarne l’immagine.
Soffermiamoci un momento su questo tema, e vediamo che l’asinello ricoperto da un drappo viene fatto girare per la città, mentre porta sul dorso la statua della dea Cibele accompagnato dai sacerdoti questuanti. Questo particolare, a prima vista insignificante, si rivela invece un prezioso elemento di comparazione con i dati raccolti dai folcloristi.
Nelle Befanate registrate da Knisella Farsetti nel contado toscano appare un giovane mascherato da Befana, il quale conduce un asinello, mentre altri giovani non mascherati lo accompagnano cantando la questua.
Nella Val d’Ajoie in Francia, fino al secolo scorso, nel periodo natalizio si festeggiava la Tante Arie (Harié), la quale si faceva preannunciare da un segnale, il sonaglio dell’asino sul quale lei arrivava. Questo personaggio del folclore francese è molto complesso, e il suo nome è di origine oscura; talvolta appare con tratti zoomorfi, ad esempio zampe d’oca, ma generalmente è molto legata all’asinello, che di solito lei cavalca. Lo studioso Eduard Hoffman-Krayer ha ricollegato il nome di questa fata al tedesco Heer, antico tedesco Hari, Heri, che ricordano la Frau Harre tedesca.
La Tante Arie presenta molti tratti in comune con la Befana: innanzitutto per quanto riguarda la funzione di portatrice di doni, infatti la Tante viene festeggiata nel periodo natalizio, quando in una stanza si imbandisce una tavola piena di vivande e giocattoli. I bambini stanno dietro la porta, e aspettano il segnale del sonaglio dell’asinello; quando all’improvviso si apre loro la porta e si fa trovare la sorpresa della tavola con i doni portati dalla fata, che nel frattempo è scomparsa, ma ha lasciato preziosi segni della sua munificenza. Allora i gioiosi creduloni si precipitano nella camera incantata per ricevere la loro parte di doni dall’invisibile protettrice. La fata Arie fa ingresso nelle case sia attraverso il camino, che attraverso una finestra aperta, e porta dolci, croccanti e frutta secca per i bambini assennati e docili, ma è anche armata di bastoni per quelli disobbedienti e irrequieti, e porta perfino delle orecchie d’asino ai bambini che se le meritano, oppure lascia cadere dal camino della cenere, o delle bacchette di betulla intrise d’aceto. I bambini non dimenticano di lasciare sulla finestra o sul focolare un sandalo dove la Tante Arie dovrà lasciare i suoi doni, e anche un pugno di fieno per l’asinello sul quale essa viaggia. Il giorno di Natale al mattino i bambini si precipitano verso il camino, per scoprire che i sandali deposti alla vigilia sono pieni di regali, e con grande gioia scoprono che il mucchietto di fieno è sparito. È stato l’asinello della Tante Arie che l’ha mangiato.
Talvolta sono dei giovani mascherati a impersonare la fata. Nella contea di Montbéliard, la settimana prima di Natale i giovani si travestivano da Tante Arie e andavano a distribuire ai bambini mele e noci, oppure indossando vecchi abiti e con barbe posticce di stoppa giravano per le case spaventando bambini e bambine. Esteriormente, secondo i racconti locali, la Tante Arie si presenta come una persona dall’aria dolce, a volte ha una corona di diamanti sulla testa, ed abita in una caverna. Viene rappresentata come una massaia laboriosa che fila la sua conocchia, cuoce il pane, lava la biancheria, e percorre i paesi in groppa al suo asinello, la cui campanella annuncia il suo arrivo. Non appena si ode il sonaglio dell’asinello, i bambini sanno che la Tante sta arrivando, ma essi non possono vederla, perché è invisibile, e non appare mai al cospetto dei mortali.
Questa caratteristica dell’invisibilità è un secondo motivo che ci porta ad assimilare la figura della Tante Arie a quella della Befana.
Entrambe le figure proteggono le filatrici, sono patrone dei lavori femminili, e portano con sé sul seno i bimbi più piccoli, a somiglianza delle dee madri del mondo mediterraneo. Inoltre, sia la Befana che la Tante Arie entrano nelle case passando attraverso il camino, o per la finestra, e lasciano ai bambini dolci, croccanti e frutta secca. In cambio i bambini lasciano una manciata di fieno accanto agli zoccoletti per l’asinello della fata, come accade in Italia con la Befana, o con altre figure analoghe. Allo stesso modo, in Catalogna, Santa Lucia, percorre i villaggi a cavallo di un asinello e visita le case lasciando doni ai bambini. Nel Mantovano per l’asinello della santa si usa lasciare della crusca e dell’acqua.
Presso gli antichi Greci, Empusa, spirito infero appartenente alla schiera di Ecate, poteva assumere di volta in volta aspetto di donna, di asino, o di bue. Quando appariva in sembianze umane, essa conservava dettagli della sua natura asinina, come ad esempio una gamba d’asino, era infatti denominata anche onoskelis, “gamba d’asino”. È importante sottolineare che il sembiante onomorfo, accanto a quello boomorfo ed aviforme, è attinente alle figure delle grandi dee del mondo-indo-mediterraneo. I medesimi animali appaiono in stretta correlazione con i personaggi che giungono durante i dodici giorni a portare doni ai bambini, ed in particolare con la Befana.
I Kolhati, popolo di cacciatori dell’India, dopo la cremazione di un adulto, ne raccolgono le ossa e le seppelliscono nel cimitero. Successivamente le ossa vengono dissotterrate e poste in due sacchetti che vengono trasportati da un asinello fino alla casa del defunto.
Qui si fa una grande festa per tre giorni, e al termine i sacchetti contenenti le ossa vengono nuovamente caricati sul somarello e riportati fino al cimitero. Questo esempio indicativo sul ruolo ctonio dell’asino, nonostante sia inconsueto ed isolato, permette di cogliere i vari passaggi correlati al ritorno dell’antenato in casa. 
Sia le mascherate che le leggende intorno alla figura della Befana rispecchiano la funzione dell’asino quale animale atto a trasportare gli antenati defunti che fanno ritorno nelle case e la Befana stessa è assimilata a questo misterioso animale.


Da: L’incanto e l’arcano: per una antropologia della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco

sabato 8 gennaio 2011

Noi, che sempre saremo



 Attraverso il Tempo,
attraverso lo Spazio,
Noi siamo tornate.
Tornate a Vivere,
perché siamo sempre State,
tornate a Respirare,
Libere non ancora.
Ma siamo qui.
Siamo attorno a Voi.
Noi siamo.

Abbiamo superato Ere infauste per Noi,
siamo Sopravvissute
ad un Tempo di Caccia e Morte,
e siamo ancora Qui, fra Voi.

Noi che Serviamo gli antichi Spiriti
Noi che Celebriamo gli antichi Riti
Noi che Crediamo in Lei che è Tutto.
Noi che nelle Notti di Luna
Danziamo alla Luce di un Falò.
Noi che prendiamo l'Amore come un Dono della Dea.
Noi che seguiamo il Sentiero
Osservando il Cammino nella sua Luce.
Noi che siamo costantemente Assetate di Conoscenza,
Noi che Ascoltiamo le Lacrime della Terra
Noi che Parliamo con ogni Creatura vivente
Noi che nel Cerchio siamo solo Noi Stesse,
senza più Maschere,
Noi stesse senza Barriere....

Noi che innalziamo il nostro Canto
nell'Aria notturna,
che Affondiamo le Mani in una Sorgente

per guardare Passato, Futuro e Presente.
Noi che perdiamo lo Sguardo
fra Simboli di Pietra e profondità di Specchi,
Noi che nelle Carte leggiamo il Destino...
Noi che possediamo Ricordi
di Tempi lontani, di lontani Incontri,
di Vite passate e perdute.
Noi che usiamo rimedi d'Erbe e antiche Ricette…
Noi siamo ancora qui.
Ci confondiamo fra Voi silenziose...
Ma siamo qui. Siamo ancora.
E sempre Saremo.”

Modern Witch

venerdì 7 gennaio 2011

Il Glögg, la bevanda di Babbo Natale

L’inverno è decisamente la mia stagione preferita, non sopporto più l’estate, vorrei che non arrivasse mai. È una stagione davvero magica, che riserva sempre qualche sorpresa.

Ad esempio, dopo una passeggiata nel freddo o nella neve ci si può immergere nel… Glögg! Eh sì, si può proprio fare un bagno nel vino caldo speziato svedese.

Quindi buttiamoci nella vasca piena d’acqua bella calda e laviamoci con il bagnoschiuma della Lush, che ci ridarà i Bollenti Spiriti (come dicono giustamente loro), ingredienti: arancia e limone, vino rosso, brandy, cannella e chiodi di garofano (gulp!!!!).
Si sono ispirati proprio al famoso vin brulé del Grande Nord.


E mentre si fa il bagno e ci si ritempra perché non bere nel frattempo anche un bicchiere di… Glögg? Uno solo, sennò ci si ubriaca troppo e si affoga, ihihihihihih!




Ho trovato la ricetta su http://www.spaghettitaliani.com/

Questa è la versione della signora Guglielmina Larsson:

Ingredienti

1 bottiglia di vino rosso½ tazza di vodka

10 grammi di cannella in stecca
10 grammi di chiodi di garofano
300 grammi di zucchero
½ cucchiaino di zucchero vanigliato
mandorle spezzettate
uvette


Facoltativo
2 grammi di semi di cardamomo

Esecuzione
Lasciate le spezie in infusione nel vino a freddo per 24 ore.
Preparate i bicchieri con le mandorle e le uvette sul fondo.
Filtrate, aggiungete gli altri ingredienti e fate bollire per qualche minuto.




La dea delle foreste. Il nucleo totemico della Befana



Nelle tradizioni popolari dell’Europa legate alla figura della Befana, come pure a figure simili o comparabili, si possono individuare chiaramente dei tratti zoomorfi, che si devono far risalire alle configurazioni più antiche dal punto di vista della stratificazione secolare intorno al personaggio.
Spesso nelle pitture vascolari dell’area mediterranea la figura della dea si fonde con le raffigurazioni di uccelli quali l’airone rosso o la cicogna, animali carichi di energia fecondante e portatori di bambini. Le cicogne erano tenute in grande considerazione dai Tessali, tanto che chiunque osasse uccidere una cicogna veniva condannato all’esilio. Le tribù slave e germaniche attribuivano al picchio e alla cicogna il trasporto della fiamma celeste. La cicogna, che di solito appariva all’avvicinarsi della tempesta e della bufera, veniva ritenuta un simbolo di questi fenomeni naturali. Il colore rossiccio delle sue zampe dava il pretesto per metterla in relazione con le forze del fuoco e della luce del sole. In Germania si credeva che la casa su cui la cicogna nidificava fosse immune dal fulmine. Nessuno osava uccidere una cicogna, e nemmeno distruggerne il nido. Il cigno e la cicogna, oltre ad accompagnare i defunti nell’aldilà, sono portatori delle anime dei neonati mandati da Holda per iniziare la sua vita terrena. La cicogna in autunno vola nel suo Engelland, il regno celeste, smette il suo abito pennuto ed assume aspetto umano. In primavera ritorna trasformata di nuovo in uccello, e nidifica sul tetto della casa accanto alle persone amiche. In Russia essa era accolta come un caro ospite e le si offrivano semi di lino e di canapa.
Questi esempi ci suggeriscono tre considerazioni: la prima è che l’aspetto esteriore dell’animale ha influito sull’immaginazione umana, favorendo l’assimilazione di questo volatile con il fuoco e il fulmine.  Un secondo motivo, non meno importante, è rappresentato dal legame della cicogna con la dea delle foreste, Holda, protettrice dei defunti e dei neonati, portatrice di doni e benefattrice, una figura analoga alla Befana e ben nota nel folklore della Germania settentrionale. Questo fatto presuppone un rapporto di identificazione tra la cicogna e la dea germanica, da ricondurre all’idea arcaica di un’assimilazione con gli avi defunti, rafforzata dal particolare comportamento delle cicogne, che sono solite far ritorno ogni anno al loro nido sul tetto della medesima casa.
Il mito germanico allude alla compresenza nello stesso essere di una doppia natura: ora umana, ora animale; inoltre esso fornisce una spiegazione per comprendere il carattere sacro della cicogna. L’azione del volo e l’aspetto aviforme fanno parte delle rappresentazioni teriomorfe degli spiriti, i quali giungono alle loro dimore passando tra i tetti e i camini. La globalità delle fantasie sulla cicogna è quindi da ascrivere a questo processo di comparazione. In una fiaba zigana la cicogna ricompensa con un dono fatato il pescatore e sua figlia che la ospitano e le danno del cibo. In questo caso la cicogna si comporta come un’antenata mitica donatrice. Ritroviamo i tratti ornitomorfi nelle figure del periodo natalizio le cui caratteristiche e funzioni corrispondono a quelle della Befana. La Perchta austriaca, ad esempio, appare talvolta munita di becco e zampe di gallina, la Brezaia rumena, maschera natalizia femminile, è impersonata da un uomo che indossa un lungo mantello ed è cosparso di cenci multicolori. La testa è coperta da una maschera zoomorfa: di capro, lupo, gallo, cicogna o pavone. Il becco o la mascella dell’animale viene fatto muovere dall’uomo al ritmo di un violino. A questa maschera rumena corrisponde in Ucraina la Bereza, condotta attraverso i villaggi dai koledari (giovani che visitano le case alla vigilia di Natale), e a Bürgenland la Lutschere.
Nelle tradizioni di aree particolarmente conservative la Befana stessa si presenta sotto il sembiante di volatile, come ad esempio in Sicilia, dove la sera del 24 dicembre in alcune città e villaggi esce la Vecchia di Natali, un fantoccio accompagnato da monelli che suonano corni di bue, picchiano padelle e casseruole, fischiano e fanno un chiasso infernale, mentre gridano La Vecchia di Natali. Questa figura condotta dai ragazzi, chiamata anche Strina o Befana, si trasforma a volte in animale per lasciare regali ai bambini. A Cefalù la Strina si cambia in formica, mentre a Corleone essa scende dalle montagne che circondano il paese, e sotto forma di uccello o di altri animali entra nelle case a riempire le calze dei bambini. Questo essere misterioso è invisibile, e non vuole che i bambini la vedano, per questo si avvolge in un lenzuolo ed incede al suono di una campana di vacche.
È interessante, al fine di rilevare lo strato zoomorfo più arcaico caratterizzante la figura che chiameremo per riassumere “La Vecchia di Natale”, comparare le usanze e i miti siciliani con l’immagine di una maschera della Germania meridionale, nella quale il personaggio omologo appare rivestita di una pelle di mucca. La Wilde Bertha, detta anche Eisenbertha, ha un viso terribile, capelli arruffati ed un lungo naso. Regge in mano una scopa ed ha le spalle coperte da una pelle di mucca. In questo caso Bertha reca in mano la scopa come suo emblema, e non se ne serve ancora per volare. Dunque la figura rappresenta la fase più antica del personaggio, quella di signora degli animali. Sulle spalle essa indossa una pelle di mucca, evidentemente una spoglia primitiva, che troverà sviluppo nel sacco ricolmo di doni, ma anche attributo animale, e quindi una prova importante dell’originaria natura ferina di Bertha.
Analogamente la Juno Caprotina, l’antica dea di Lanuvio, ha le spalle ricoperte da una pelle di capra, animale col quale la dea è spesso identificata; mentre la Juno Sospita da Fidenae ha la testa sormontata da un copricapo boomorfo, pur mantenendo sembianze femminili, straordinariamente simili alle dee del lontano oriente, le sorridenti dee di Bali, o le più note dell’India vedica. Particolarmente interessanti a questo proposito le figure di antefisse riportate alla luce nell’area di Antemnae e Fidenae.
Tutte queste divinità rispecchiano la primordiale natura zoomorfa della dea, e la sua capacità di assumere aspetto animale, o di conservarne alcuni tratti, anche quando essa si presenta sotto la forma umana. In quanto signora della foresta, Bertha poteva ben rivestire la forma dell’animale sacro nel quale si immedesimavano le dee mediterranee, come pure le divinità germaniche e slave. In Russia e in Germania sono note leggende sulle streghe dotate di coda di mucca. Attributi boomorfi posseggono anche le Trotte-vieilles, fate che appaiono in Svizzera nel periodo di Capodanno con aspetto di donna, ma munite di corna di mucca, sulle quali esse sollevano i bambini cattivi, per poi posarli nel rigagnolo davanti alla porta. Sotto le più svariate denominazioni ritroviamo quindi un’omogeneità sostanziale che caratterizza la figura della “Vecchia di Natale” nella sua multiforme apparenza. Non a caso i tratti boomorfi sono una caratteristica molto diffusa nelle rappresentazioni mitologiche di tutta l’area indo-mediterranea, ricorrendo in abbondanza nei miti, nelle leggende ed anche nelle opere letterarie di un’ampia area geografica, che abbraccia tutta l’Europa, dalla Spagna agli Urali, e soprattutto l’Asia Minore, dove il mito trova la sua più ampia diffusione a Creta, con la civiltà minoica, fino agli altipiani dell’India e della Persia.
La presenza di figure boomorfe nel ciclo delle feste invernali è attestata, oltre che dalle numerose testimonianze rilevate presso vari popoli, dalla caratteristica usanza siciliana di cuocere il giorno dell’Epifania dei buoi di pasta per i bambini. L’uso è noto anche nelle campagne polacche, lusaziane e russe, dove durante le feste natalizie si distribuiscono ai koledari, che visitano le case, dei pani a forma di mucche e montoni. È proprio questa antica usanza ad aver determinato il nome di korovaj dato in Russia al pane natalizio e nuziale, dal russo: Korova; antico slavo Krava, “mucca”. In alcuni luoghi questi pani prendono il nome di korovki, “vaccarelle”, oppure kozuli “, caprette. L’analogia con le usanze dell’Italia meridionale è ancora più evidente se osserviamo che nel Salento si chiama vaccaredda una pagnotta di pane per gli amici, ed in Calabria vaccarella una schiacciata di pane per i bambini. Si tratta evidentemente di rappresentazioni teriomorfe degli avi. Tuttavia, dato che questi dolci vengono preparati il giorno della festa dedicata alla Befana, non sarebbe forse azzardato supporre un’identificazione tra la figura della Befana e i pani di forma boomorfa. Questa assimilazione si può configurare come reminiscenza di un arcaico sembiante zoomoorfo della Befana stessa, del suo nesso con la figura della mitica mucca, una volta terrestre, e in seguito divenuta astrale e cosmica, assimilata alla luna, alle streghe e alle grandi divinità femminili del mondo mediterraneo.
Da: L’incanto e l’arcano: per una antropologia della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco

giovedì 6 gennaio 2011

Gli accompagnatori tenebrosi di San Nicola


San Nicola era spesso accompagnato da un aiutante tenebroso.

Ma perché ci fu bisogno di inventare un accompagnatore nero per san Nicola? Il santo non poteva semplicemente ereditare le funzioni dei personaggi antichi che sostituiva? Certo che no! Anticamente - e coerentemente con l’etica bipolare tradizionale - le divinità riunivano funzioni ambivalenti, benefiche e terrificanti. Il cristianesimo dualista separò le funzioni: era impossibile immaginare aspetti negativi di Gesù e dei suoi discepoli, i santi. Così si videro ben presto i personaggi benefattori (Gesù, i santi o le sante e perfino i Re Magi) accompagnati da personaggi orribili, che recuperavano le antiche funzioni spaventose. Era inoltre auspicabile, secondo una mentalità “pedagogica”, che alcuni personaggi incarnassero una minaccia per spaventare i bambini birbanti (“se non mangi la minestra, l’orco verrà a prenderti”). Ancora una volta, se un tempo un’entità pagana poteva facilmente incarnare funzioni positive e negative, era inconcepibile fare di un santo, e a maggior ragione di Gesù,un riparatore di torti. Molti di questi accompagnatori sono stati di fatto creati e resi popolari dai pedagoghi a partire da personaggi interamente storici.
Castigamatti (Père Fouettard), ad esempio, il cui nome evoca la frusta, attributo fondamentale dell’accompagnatore, non sarebbe altro che la personificazione derisoria di Carlo V.
Nel 1553, durante l’assedio di Metz, in Francia, una caricatura dell’imperatore spagnolo, vestito di stracci e armato di frusta, fu portata in giro per tutta la città ed esposta ai lazzi, per iniziativa della corporazione dei conciatori.
Metz e la Lorena furono liberate, poco prima del 6 dicembre, e per ricordare e stigmatizzare la resistenza allo Spagnolo, si pensò di inserire la caricatura di Carlo V nel corteo di san Nicola, di cui sarebbe stato il servitore. La tradizione poi si perpetuò.
Secondo Van Gennep furono effettivamente i pedagoghi scolastici e non un’iniziativa popolare a inventare Castigamatti, e per la precisione, i gesuiti o i frati delle scuole cristiane. Aggiunge inoltre che si ritrova un equivalente del Castigamatti, con il viso e le mani anneriti dalla fuliggine, in Svizzera (Berna e Friburgo, regione cattolica), dove, ancora una volta, sarebbe stato introdotto da pedagoghi religiosi.
Allo stesso modo, nei paesi germanici era noto l’accompagnatore Hans Trapp, un personaggio dal viso annerito. Il suo nome deriverebbe da Jean (Hans) di Dratt (oTratt), morto nel 1503, maresciallo alla corte del conte palatino Filippo, che si era reso tristemente celebre per le esazioni inflitte alla popolazione civile. A proposito di questo Hans Trapp, un’usanza danese ancora osservata nel XIX secolo e riportata dal mitologo Axel Olrik, voleva che durante il periodo di Yule si disponessero i coltelli di casa con la lama ben affilata verso l’alto “per proteggere adeguatamente contro la Caccia Selvaggia” condotta da “Kònig Hans e il suo seguito” intenzionati a rubare lo Julschwein (maiale di Natale). Questo “König Hans” è probabilmente una manifestazione del condottiero tradizionale della Caccia, cioè Odino-Wotan. E se si tratta anche di Hans Trapp, ciò prova che al di là della storicizzazione del nome di Dratt, il personaggio è molto più antico.
Alcuni orchi sono dei semimostri, come il Krampuss svizzero, mezzo mostro, mezzo stregone. Gli accompagnatori sono scuri (di pelle nera o coperti di fuliggine o di pellicce), terrificanti, spesso pelosi, a volte cornuti (come in Russia e nei paesi slavi, dove l’accompagnatore del santo è nero, cornuto, con grandi orecchie rosse e appuntite) e rumorosi (durante la Caccia Selvaggia brandiscono generalmente delle catene o addirittura, secondo alcuni, sbattono le mascelle).
Spaventano i bambini con la frusta o le verghe, ma a volte la punizione si spinge oltre: minacciano i monelli di condurli lontano, anzi di divorarli, come nelle vecchie fiabe sugli orchi. Così Zwarte Piet (Pietro il Nero), l’accompagnatore del Sinter Klaus olandese, è un moro in abiti spagnoli che minaccia di portare in Spagna dentro al suo sacco i bambini disobbedienti. Questo personaggio ci riporta, come abbiamo visto, all’antico rancore olandese contro l’occupante spagnolo.
D’altronde, si nota che uno dei soprannomi dell’accompagnatore nei paesi germanici è Leutfresser, “cannibale”, forse un’allusione alla leggenda di san Nicola e dei tre bambini consegnati al macellaio. Ma non dimentichiamo che tutti questi personaggi fanno parte della famiglia degli orchi. Il termine francese “croque-mitaine” viene sicuramente da “croquer" (mangiare, sgranocchiare), ma la seconda parola pone maggiori problemi. L’ipotesi “mitaine”, cioè “guanto”, non avrebbe molto significato. I folkloristi hanno proposto di far derivare mitaine dall’olandese met jien, tedesco mädchen, “ragazza”. Il “croque-mitaine” sarebbe dunque un divoratore di fanciulle, ipotesi sinistra, certo, ma più verosimile. In inglese, l’equivalente di “croque-mitaine” è bugaboo, formato da bug, “goblin” e l’interiezione infantile boo, cosa che sembra subito meno spaventosa... anche se i goblin sono creature nelle quali è meglio non imbattersi da soli di notte (vedi soprattutto i romanzi di Tolkien).
D’altronde, non bisogna vedere inizialmente le verghe come uno strumento di castigo. Nelle rappresentazioni più antiche, questi fasci di verghe assomigliano a scope. Nelle tradizioni antiche, la scopa era un attributo delle divinità della fecondità (come le verghe, naturalmente) e perfino il simbolo del paganesimo nel Medioevo.
Per designare le coppie che si erano sposate secondo le antiche usanze e non in chiesa, si parlava di “matrimonio sulla scopa”. La scopa era un simbolo di fecondità, di fortuna e del tuono (il fulmine era spesso messo in relazione con la fertilità). Si conoscono molte rappresentazioni degli spiriti della natura (come Robin Hood o Robin Gai-Luron/Good Fellow) con una scopa. L’allusione agli spiriti della natura (Green Man, Jack in the Green, Robin...) non è qui gratuita poiché in molti luoghi, e in particolare nei paesi anglosassoni, sono stati spesso presentati come accompagnatori del santo, anzi come distributori di regali (fecondità).
Comunque sia, malgrado la distinzione tra il santo e il suo accompagnatore, l’iconografia mostra che in diverse regioni remote san Nicola, il distributore di regali, si confondeva totalmente - almeno nel suo aspetto esteriore - con il suo
accompagnatore. Prendeva allora l’aspetto di Pietro il Nero e poteva farsi chiamare semplicemente Nicola o Klaus. È qui evidente tutta l’ambiguità della relazione santo/accompagnatore.
Per continuare sulla via di questa ambiguità, soffermiamoci sul caso di uno di questi accompagnatori: Knecht Ruprecht, il tenebroso, il servitore nero dei paesi germanici. Ricordiamolo: è a lui che il bavarese Thomas Nast penserà quando cercherà di illustrare... il Santa Claus di Clement Moore. Difficile trovare un paradosso maggiore! L’accompagnatore diventa (ridiventa?) Babbo Natale al posto del vescovo di Mira. Orbene, secondo Dontenville, Knecht Ruprecht verrebbe dalle “profondità della mitologia germanica precristiana” e si identificherebbe con Wotan. Più precisamente, Ruprecht o Rumpanz sarebbe il dio originario soppiantato da san Nicola. Ancora più curiosamente, l’etimologia di questo personaggio tenebroso sarebbe, secondo Jakob Grimm (uno dei fratelli Grimm, gli autori delle celebri favole), “Brillante per la gloria”, il che lo identificherebbe, sempre secondo il mitologo, con Odino.
La tradizione associata a questo Ruprecht o Rupert è esplicita. Si dice che il garzone di fattoria Rupert è celebre per la sua “luminosità” (l’antico alto-tedesco hruodperaht, in questo senso, evocherà Berchta, “la luminosa”).
Rupert guida anche un corteo di tre personaggi femminili sull’isola di Usedom. La prima porta una bacchetta e un sacco di ceneri. La seconda cavalca un cavallo bianco. La terza monta un Klapperbock, letteralmente un “capro che sbatte” o un “cervo che sbatte” (perché bock può designare qualunque maschio selvaggio con le corna), lo stesso che sarà chiamato Jul bock in Danimarca. Questo Klapperbock è in effetti quello che gli inglesi chiameranno un hobby-horse o uno snap-horse (snap,”sbattere”) e i francesi un “cheval-bâton”, un’asta sulla quale è tesa una pelle di cervo recante all’estremità una testa di legno. Una corda è attaccata alla mascella inferiore e attraversa la mascella superiore cosicché tirandola, il cavaliere può far “sbattere” le mascelle. Sono note numerose tradizioni simili in Gran Bretagna, in particolare Snap the Dragon, che cadono piuttosto intorno al 23 aprile, festa di San Giorgio.
In ogni caso, con il piccolo corteo di Rupert abbiamo una rumorosa Caccia Selvaggia in formato ridotto con Rupert/Odino come condottiero, le ceneri al posto delle anime, il cavallo bianco al posto di Sleipnir - non dimentichiamo che il nome del cavallo di san Nicola è Slupinis – il
Klapperbock per il rumore e la bestia cornuta, simbolo di fecondità e di potenza.
La coppia san Nicola/accompagnatore tenebroso restituisce l’opposizione dualista cristiana bianco/nero, luce/tenebre, bene/male, Dio (san Nicola)/diavolo. In altri termini, si assiste qui alla demonizzazione da parte del cristianesimo dei tratti meno recuperabili delle antiche divinità pagane, anche se osservatori recenti, a cominciare da Van Gennep, facendo riferimento ancora una volta all’ipotesi pedagogica, ritengono che questi personaggi siano dipinti a tinte fosche soltanto per spaventare i bambini attraverso la paura tradizionale e irrazionale per gli spazzacamini e i
 carbonai.
Generazioni di bambini sono stati spaventati con la minaccia di essere portati via da questi lavoratori dal viso scuro e con un grande sacco.
E tutto ritorna: la rinascita moderna di Babbo Natale ha fatto scomparire quasi ovunque gli accompagnatori, più esattamente e senza dubbio alcuno, san Nicola. Gli accompagnatori, figli del paganesimo antico e delle religioni della Natura, hanno semplicemente ripreso la loro funzione originaria diventando Babbo Natale
.

Gli accompagnatori tenebrosi
Quasi tutti compaiono soltanto nei paesi germanici e nelle Alpi del Nord. Molti di questi nomi sono diventati sinonimi del diavolo:
Uomo Nero (e le sue traduzioni: Schwarz Mann, Black Man, Swarthy...); Aiutante Nero o Tenebroso; Ashenklas o Ashen Klas (Klaus di fuliggine); Aschenmann (uomo di fuliggine); Knecht Ruprecht (Ruprecht il servitore); Rupert; Rimpanz; Klaubau o Klaubauf (peloso, nero e cornuto, in Tirolo); Hans Trapp; Klaves (o Klawes); Klas Buer; Klaai; Klaasoom; Leutfresser  (letteralmente “cannibale”. Allusione alla leggenda di san Nicola e dei tre bambini consegnati al macellaio?); Bullerklas - Budelfrau (versione femminile); Buzebercht (l’antica dea Berchta); Mamma Berchta o Perchta; Frau/Dame Gaude; Frau/Dame Harke; Frau/Dame Holda; Ru Klas (Klaus il Bruto); Klapperback o Klapperbock; Bartle o Bartel; Cerne; Cernunnos; Heks; Herne; Vecchia Home (femminilizzazione di Herne?); Hobb; Kaije; Duyvel (il “diavolo” in olandese); Beelzebub (!); Eckhart (servitore incatenato di Wotan); Castigamatti; Grampuss (o Krampuss in Svizzera); Joseph (un’allusione all’eminenza grigia dì Richelieu, il padre Joseph?); Nickel Pelz Nickel (Nick con le pellicce, in Baviera); Pietje Pek; Pickesel (Alsazia,es el, “asino”); Niklo; Old/Vecchio Nick; Pelzmaerte o Pelzmarte; Perchta; Pietro il Nero (e le sue traduzioni: Zwarte Piet in Olanda, Schwarze Peter in Germania, Black Pete ecc., e perfino... Saint Peter [san Pietro]); Il Moro (Vallonia); Robin; Robin Hood; Robin Good-fellow/Gai Luron; Schmutzli (lo Sporco, dialetto svizzero); Silvestro (demonizzazione dello spirito dei boschi, come i Robin citati sopra); Sunderoom Warlock (stregone).

Da: La vera storia di Babbo Natale di Arnaud D’Apremont