Questo
accostamento apparentemente singolare tra i due termini ci introduce in un
processo di identificazione molto antico. Si tratta di una equivalenza che
coinvolge, come vedremo, la
Befana stessa, che certamente è collegata fin dalle origini
al fuoco celeste, a quello terrestre, e soprattutto al fuoco domestico del
focolare familiare. Talvolta nella tradizione popolare la Befana viene portata dalle
stelle, ma immancabilmente essa giunge volando attraverso la cappa del camino.
Esamineremo adesso questo legame inscindibile tra la Befana e il focolare
domestico, dove tradizionalmente si crede che essa arrivi, e dove si appendeva
la calza nell’attesa dei doni.
Il legame tra la nonna, concepita come custode naturale del fuoco, e il luogo
simbolo della comunità familiare, luogo sacro per eccellenza della casa, è
evidente in alcune tradizioni conservate fino al secolo scorso presso le
popolazioni siberiane. I Kacini, ad esempio, pongono le immagini degli spiriti
domestici nella parte femminile della yurta,
quella destra, ed il loro culto spetta soprattutto alle donne, e
particolarmente alle donne anziane. Questa prevalenza femminile nei riti
domestici è uno dei motivi per cui il genio del focolare appare come donna. La
nonna delle fiabe russe, la Baba Jaga,
rappresenta l’antenata totemica in linea femminile. Essa giace sulla stufa,
ammucchia la fuliggine, maneggia l’attizzatoio, la scopa, il fruciandolo per
pulire la stufa, e si serve degli attrezzi della cucina. Nelle rappresentazioni
caratteristiche del folclore di molti popoli la donna e il fuoco sono
strettamente legati. In tutta la
Siberia il fuoco è concepito come un essere femminile e allo
stesso tempo è venerato col titolo di ‘antenata’. Gli Jacuti si rivolgono nelle
loro preghiere alla “nonna fuoco”. I Goldi rappresentano la Fadzia mama, ‘madre del fuoco’ in forma di
vecchietta curva e rugosa con un vestito rosso. La padrona del fuoco degli Ainu
è al centro del focolare domestico; in un angolo della capanna si conserva una
bacchetta appuntita che rappresenta l’antenato della famiglia, mentre il
focolare appare come sua moglie. Ma talvolta nel focolare si trovano sia il
vecchietto che la vecchietta, entrambi protettori del clan.
Se accettiamo l’esistenza di un culto degli antenati domestici universalmente
diffuso, dobbiamo ammettere che esso è sorto indubbiamente all’interno di una
condizione di vita sedentaria, con abitazioni permanenti e nuclei familiari
relativamente stabili. In questo contesto sono ammissibili sia l’ipotesi di un
culto dell’antenata femminile, che quella di un culto dell’antenato maschile.
Alcuni studiosi sono concordi nel ritenere che la venerazione di reali
progenitrici custodi del fuoco domestico abbia dato origine al culto della
nonna-fuoco, ossia dell’antenata legata al fuoco e al focolare.
Se tentiamo di risalire alle fasi preistoriche di vita sedentaria, osserviamo
che verosimilmente alcuni gruppi di donne si organizzavano in abitazioni
semi-permanenti, accanto ai bambini, praticando l’attività della raccolta dei
frutti e delle erbe, sviluppatasi successivamente nelle prime coltivazioni dei
semi e quindi dell’agricoltura, nei pressi di queste abitazioni stabili; mentre
gli uomini si spostavano in gruppo rimanendo per lunghi periodi lontani da casa
e inseguendo la selvaggina nei boschi e nelle foreste. In questo periodo di
vita semi-sedentaria inizia a svilupparsi il culto del focolare e degli
antenati, che si rafforzerà quando le abitazioni diverranno del tutto stabili e
la comunità si organizzerà in villaggi; allora il centro della casa sarà il
focolare domestico, e il culto degli avi troverà in questo contesto un’ampia
diffusione.
Noi ci occuperemo esclusivamente della figura femminile legata al focolare
domestico, dal momento che questa rappresenta la forma primordiale dalla quale
si è plasmata la figura della Befana, osservando che la figura del focolare e
delle pratiche relative al culto degli antenati resta prevalentemente affidata
alle donne. Tutti gli oggetti e luoghi sacri domestici sono sotto la tutela
delle donne. Presso gli Evenki siberiani la padrona della čuma, prima di servire il pranzo nutre lo spirito del fuoco. Alla
donna che offre il cibo agli spiriti della casa e del focolare è fatto assoluto
divieto di comunicare con lo spirito della foresta, mentre gli uomini,
soprattutto al momento di partire per la caccia, devono tenersi lontano dal
focolare o dalla stufa.
Al momento di spostarsi da un accampamento all’altro, la padrona di casa si
inchinava davanti al focolare, prendeva un pizzico di cenere e chiedeva alla
nonna-fuoco di trasferirsi nel nuovo accampamento insieme alla famiglia. Poi si
spalmava le mani di cenere, spargendone anche un po’ nel risvolto delle
maniche. Una volta giunti al nuovo accampamento, la padrona di casa scuoteva la
cenere del vecchio focolare sul posto preparato per quello nuovo, e invitava la
nonna-fuoco a stabilirsi nel nuovo alloggio. Solo dopo il compimento di questa
cerimonia si poteva accendere il fuoco, ed aveva inizio la vita nella nuova
casa. La donna più anziana della casa era la principale addetta al fuoco; se
nella famiglia non vi erano più donne, tutti i riti si interrompevano, poiché
la comunità era basata sulla consanguineità e rappresentata dalla figura
femminile, spirito del fuoco e madre del clan, una sorta di progenitrice mitica
di un gruppo familiare.
Quando la sposa si trasferiva nell’abitazione dello sposo, essa portava con sé
lo spirito della propria antenata, prelevando dei tizzoni dal focolare della
casa natale, e con questi accendeva il fuoco nella casa del marito,
rivolgendosi alla sua progenitrice con queste parole: “Piccola madre, ora che
il nuovo fuoco è acceso, stabilisci un nuovo saran (focolare): che il mio fuoco non smetta mai di ardere in
questo nuovo luogo”. Il fuoco comune era un’istituzione del clan, e la nonna ne
era la padrona e la custode. Essa era in rapporto con la reincarnazione delle
anime dei defunti nei nuovi nati e risiedeva nel focolare.
Le rappresentazioni ed il culto della nonna-fuoco sono storicamente attestati
dal ritrovamento delle figurette femminili nei pressi del focolare domestico
risalenti al paleolitico superiore. All’interno di ciascun focolare
proto-indiano sono state rinvenute statuette di una dea madre che risalgono
intorno al 2400-2100 a.C.
circa, esse sono fornite di una strana acconciatura alla sommità del capo,
munita da ciascun lato di un piattino sul quale si faceva bruciare l’incenso.
Il nesso della donna con il fuoco si ritrovava nei miti di popolazioni anche
lontanissime tra loro, segno che si tratta di un motivo radicato
nell’esperienza umana più antica, quando era la donna a custodire il fuoco. In
Australia si narra che i fratelli Tara e Jurt Jurt conducono una lotta contro
Wrona, un essere femminile che detiene il fuoco e lo conserva di nascosto; il
fuoco le viene sottratto e consegnato all’umanità. Per i Montagnais la moglie
di Manitou appare come un fuoco e ruggisce come una fiamma, ma le sue parole
sono incomprensibili.
Talvolta è una donna anziana a scoprire il fuoco, sradicando due rami e
strofinandoli con forza uno contro l’altro, oppure spezzando il suo bastone da
combattimento. Non sarebbe forse lontano dalla realtà supporre che nella
mentalità delle popolazioni preistoriche la visione del fulmine che si abbatte
su un albero e lo incendia abbia suscitato l’idea del fuoco presente
all’interno delle piante. Dal momento che, come si riteneva, le piante erano
capaci di ‘assorbire’ l’energia del fuoco celeste, sarebbe bastato trovare il
modo per far scaturire dalla pianta questa energia, e sfruttarla. Questa è una delle
forme più antiche di quel metodo analitico e comparativo che induce l’uomo alla
scoperta di tecniche innovative.
Del resto la figura dell’antenata mitica del clan non è connessa solamente al
fuoco terrestre, ma anche, e forse prima ancora, al fuoco celeste. Tra gli Aandamanesi
abitanti delle isole indonesiane, la figura della vecchia progenitrice Biliku,
è legata al fuoco e al fulmine. In tutte
le tribù delle Isole Andamane sono diffuse leggende secondo le quali Biliku era
stata la prima a possedere il fuoco. Alcune versioni narrano che lei donò il
fuoco agli antenati tribali, mentre altre versioni riferiscono che il fuoco le
era stato rubato da uno di essi. Esiste inoltre un legame tra la vecchia Biliku,
che causa le tempeste, e il fulmine. Infatti gli andamanesi considerano il
fulmine come un fuoco. Il fulmine e il sole sono gli unici fuochi naturali,
diremmo astrali, conosciuti dagli indigeni, per questo essi individuano nella
figura di Biliku colei che gestisce sia il fulmine, che il fuoco sulla terra.
Quale detentrice del fuoco astrale, lei è in grado di impugnare il fulmine,
esattamente come un tizzone. Ed è proprio scagliando un tizzone infuocato verso
il cielo che la vecchia Biliku, nel pensiero mitologico degli andamanesi, ha
dato origine al sole.
lo stesso tipo di collegamento tra il fulmine e il fuoco si può individuare
anche nella lingua latina, dal punto di vista etimologico e anche fonetico, tra
i termini fulmen e flamen, che indicano la prossimità del
fuoco celeste con la fiamma, scaturita dal fuoco “vivo” terrestre. Nella storia
della mitologia vi sono casi in cui la personificazione femminile del fuoco e
del focolare domestico è giunta fino agli stadi avanzati dell’evoluzione
culturale e religiosa. Nel complesso ed articolato mondo mitico dei greci e dei
romani troviamo le figure vivide e al tempo stesso indistinte di Vesta, l’unica
dea priva di simulacro, dal sembiante igneo, e di Ecate, la protettrice della
famiglia ellenica e del focolare, in cui la dea risiede. Ecate è anche la divinità lunare e notturna, una
dea ctonia, accostata a Diana, anch’essa dea lunare, ma prevalentemente legata
alla fertilità e alle nascite.
L’aedes Vestae era il focolare della
grande famiglia romana, interpretato da studi relativamente recenti come
l’espansione di un culto domestico e tribale. Per Ovidio Vesta è la terra
stessa, e come la terra è rotonda, così pure il suo tempio. Essa conservava il
fuoco perenne nel luogo dove sorgeva una volta la reggia di Numa. Nel tempio di
Vesta il fuoco, che non doveva estinguersi, era custodito dalle Vestali,
vergini sacerdotesse della dea; una tradizione che ha ispirato a Frazer un
parallelismo con i costumi tribali del Sudafrica, dove era compito delle figlie
del capo mantenere sempre acceso nel villaggio un fuoco a cui si potesse
attingere in qualunque momento.
Il tempio era anche sede di un’attività domestica. Vesta a Pompei era spesso
dipinta da sola o in compagnia di Vulcano sulle mura dei forni e delle cucine,
poiché era considerata protettrice dei fornai. La donna nell’antica famiglia
romana era la vigile sacerdotessa di Vesta, la custode del focolare, al quale
essa accudiva. Un’iscrizione rinvenuta a Nemi mostra che Vesta era identificata
con Diana, dea del fuoco e del focolare nei colli Albani. Il sacro fuoco non deve
spegnersi mai accidentalmente, questo va fatto solo nell’ambito di particolari
cerimoniali. La sacralità del ‘fuoco’ vivo del focolare domestico traspare
nella venerazione delle donne siciliane per Sant’Agata, protettrice dei forni,
ed inoltre nel culto di Santa Ponyke, invocata dalle donne polacche mentre alla
sera ricoprivano il fuoco con la cenere.
A questo punto sarebbe interessante ricercare un altro parallelismo tra questi
miti e alcune fiabe, dove la figura della vecchia nonna, custode del fuoco, appare
minacciosa e benevola al tempo stesso, e mette alla prova le ragazze, imponendo
loro di vigilare affinché il fuoco non si spenga. Si tratta evidentemente di
una prova relativa all’esperienza iniziatoria. Tra le varie imprese che i
candidati dovevano superare vi era quella di recarsi di notte nella foresta a
cercare legna per accendere un fuoco che doveva restare sempre acceso. Era
l’antenata della stirpe, la padrona del fuoco, a sottoporre i ragazzi alle
prove iniziatorie. La ricerca del fuoco da parte dei ragazzi è un motivo
frequente nelle fiabe, ad esempio nella fiaba russa di Vasilissa, la giovane si reca dalla Baba Jaga dicendole: “Sono io
nonna! Le figlie della matrigna mi hanno mandata a chiederti del fuoco” – “Bene
– è la risposta di Jaga – adesso resta un po’ di tempo qui e lavora per me,
allora ti darò del fuoco, se no ti mangerò!”.
Tutte queste figure di vecchie nonne detentrici del fuoco, ch è fonte
indispensabile di energia e di vita, del
quale esse sono le custodi gelose, e che distribuiscono solo ai giovani
discendenti che lo abbiano meritato, rimandano il nostro pensiero naturalmente
ad una figura a noi più vicina e più nota, quella della Befana, facendoci
comprendere al tempo stesso quanto siano universalmente diffuse alcune caratteristiche
ritenute peculiari della Befana stessa. Sappiamo che nel mito della Befana il
fuoco è un elemento rilevante: essa appare a volte in forma di brillante
meteora, e viene descritta col viso fuligginoso, gli occhi di bragia, i denti affilati
e la lingua tagliente. Abita sui tetti, tra le cappe dei camini ed è feroce e
mite al tempo stesso. Inoltre essa porta con sé la cenere e il carbone,
prodotti ignei. Questa fata nera, la
Befana, appare in una nota incisione di Bartolomeo Pinelli
che la raffigura nel mercato di Piazza Navona, o forse di S. Eustachio, la sede
più antica della festa, seduta su una vecchia sedia di paglia, col volto
impiastricciato di nerofumo, ricoperta di un velo nero, maestosa ed imponente,
con le calze appese lungo le spalle e una lunga canna nelle mani, mentre
suscita stupore nei ragazzi e spavento nei bambini più piccoli. Questa
ambivalenza della Befana, il senso di terrore che essa incute, e al tempo
stesso la speranza del beneficio che essa potrebbe concedere caratterizzano,
come abbiamo visto, anche figure simili a quella della Befana, come la vecchia Wrona degli australiani, la stessa Biliku andamanese, e la
Baba Jaga delle fiabe
russe.
Un’altra sorprendente somiglianza con la figura della nonna-fuoco, soprattutto se
pensiamo ai miti dei popoli siberiani, si trova nella tradizione romagnola,
dove lo spirito dell’antenata presente nel focolare si “antropomorfizza” nella
figura della Fata, che appare come “una vecchia-vecchina; pulita, linda,
dall’aria casalinga e simpatica di nonnina”. Il suo compito è quello di
vigilare sulla famiglia, e in particolare sulle creature che vengono minacciate
dalle streghe nelle culle. Essa si presenta quindi come un “nume tutelare”,
un’antenata benevola, che veglia sui suoi discendenti e li protegge da spiriti
maligni estranei alla famiglia. La vecchia fata che abita nel focolare, custode
della fecondità e della prosperità della famiglia, si identifica con la Befana. La Vecchia,
chiamata Befana, porta doni ai bambini, ultimi discendenti della casa, da lei
protetti.
Da: L’incanto e l’arcano. Per una antropologia
della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco