martedì 31 dicembre 2013

Le questue di Natale



Per lo più attraverso formule o canti specifici, in cambio di doni (cibo, vino, denaro) i questuanti rendono un servizio alla comunità, promuovendo con il loro augurio la salute e la prosperità (e lanciano la maledizione se non vengono messi in condizione di farlo, cioè se non vengono accolti e non ottengono doni). I gruppi consumano poi in un banchetto comune, a volte aperto ai familiari e ad altri membri della comunità (ad esempio le ragazze), gli alimenti raccolti, mentre il denaro è destinato a celebrazioni liturgiche.
Nell’area inglese il canto di questua prende il nome di carol, un termine che però può essere applicato ad una vasta serie di manifestazioni che, pur in strutture formali differenti, sono presenti in tutta Europa e si realizzano come eventi rituali, soprattutto in connessione con il ciclo del solstizio d’inverno.
“Si tratta”, osservano Roberto Leydi e Sandra Mantovani, “di forme di propiziazione legate a credenze pre-cristiane e ad antichi riti di fertilità”, forme, che con il diffondersi del cristianesimo, “hanno assunto un carattere più o meno esteriore cristiano”. Ciò avviene, in particolare, in riferimento ai canti rituali eseguiti durante il ciclo del solstizio d’inverno. “Queste manifestazioni arcaiche mantengono spesso in modo più o meno esplicito i primitivi caratteri augurali di fertilità, abbondanza e buona salute, propri di una cultura agricola. Tracce dell’origine rituale pre-cristiana sono, del resto, avvertibili in tutte le manifestazioni di “caroling” della tradizione relativamente recente europea che pur si esprime in forme e contenuti di fonte cristiano-medievale”.
Il fatto che nelle sue forme medievali questo tipo di canto si sia soprattutto (anche se non esclusivamente) sviluppato con “riferimento natalizio” si spiega all’interno del sincretismo “per il quale un numero elevato di festività “pagane” hanno trovato (rimanendo nella loro collocazione stagionale originale) nuova definizione e significato in parte rinnovato con la diffusione del cristianesimo. Nelle antiche civiltà agricole il canto del carol era dunque collegato ai riti solari del solstizio d’inverno”. È ovvio che se i canti di questua hanno origine nel mondo precristiano “la diffusione del cristianesimo in Europa abbia provocato profonde trasformazioni nella pratica del “caroling” e, per quanto riguarda i testi, abbia dato vita a una vasta produzione di carols specificamente riferiti all’evento natalizio”.
Anselmo Calvetti scrive che “l’obbligo di dare ai questuanti offerte in cibarie e il potere di costoro di mandare la cattiva ventura a quanti non rispettavano l’obbligo derivavano dai riti precristiani di fare offerte di cibo ai morti in occasione del passaggio dell’anno”, quando i morti tornano per prender parte ai riti di fertilità dei vivi”. Eliade afferma che spesso le offerte rituali, fra cui quelle fatte ai questuanti, “hanno certamente carattere funebre”, aggiungendo che “le zone di interferenza fra culti della fertilità e culti funerari sono tante, e così importanti, che non può far meraviglia se, dopo la simbiosi e fusione, si raggiunge una nuova sintesi religiosa”. I morti, nella concezione degli antichi popoli di agricoltori, continuavano a vivere sottoterra ed erano i custodi dei semi e della vegetazione, tutelavano i raccolti e potevano influire sulla loro riuscita. Nei momenti di passaggio dell’anno, come appunto quello delle “dodici notti”, possono uscire dalle loro dimore sotterranee e penetrare nel mondo dei vivi. E ai morti che tornano si devono fare offerte per ottenere in cambio benevolenza e prosperità, fertilità dei campi e fecondità degli animali e degli uomini.
Così i riti di questua che hanno luogo nel tempo solstiziale, sembrano rappresentare, in origine, il ritorno dei defunti che ci si deve propiziare con la buona accoglienza e le offerte di cibo.
Osserva Carlo Ginzburg:

Fino a non molti decenni fa, in un’area vastissima comprendente parte dell’Europa, dell’Asia Minore e dell’Asia centrale, torme di bambini e di ragazzi durante i dodici giorni fra Natale e Epifania (più raramente a metà quaresima) usavano recarsi di casa in casa, spesso mascherati da cavalli o da altri animali, cantando filastrocche, elemosinando dolci e piccole somme di denaro. Gli improperi e maledizioni che accompagnavano un eventuale rifiuto osservavano l’antica connotazione aggressiva della questua, già registrata da Asterio (vescovo di Amasea, in Cappadocia, il quale in una predica contro la festa delle calende di gennaio, pronunciata il giorno dell’Epifania dell’anno 400, condannava le questue). Generalmente, però, l’elemosina veniva concessa: i questuanti la salutavano con canti augurali per gli abitanti della casa. In qualche caso la consuetudine si è mantenuta fino ai nostri giorni.
Nelle torme di bambini e di ragazzi mascherati che scorrazzavano per i villaggi è stata riconosciuta una raffigurazione delle schiere dei morti, che secondo la tradizione apparivano con particolare frequenza durante i dodici giorni. Le scorribande dei bambini dei paesi di lingua inglese di qua e di là dell’Atlantico, durante la notte di Halloween (31 ottobre), costituiscono un esempio vivente di una consuetudine analoga (1). Il rito apparentemente giocoso della questua avrebbe indotto sentimenti ambivalenti – legati all’immagine ambivalente dei morti.
Queste implicazioni psicologiche sono congetturali; l’identificazione dei questuanti con i morti sembra invece innegabile. Essa tuttavia lascia nell’ombra una questione decisiva: se il significato del rito fosse sempre condiviso esplicitamente dai suoi attori e spettatori.


(1) In realtà le questue rituali della vigilia di Ognissanti e/o del Giorno dei Morti riguardano anche il nostro Paese, non solo come odierna diffusione ormai “globale” della festa anglosassone, ma anche come arcaica tradizione autoctona.

A questa domanda si può rispondere che, almeno nell’Ottocento e nel Novecento, cioè nei due secoli per i quali possediamo testimonianze folkloriche dirette, l’identificazione tra questuanti e defunti non sembra più avvertita né dai questuanti né dagli spettatori. Però in alcuni casi è evidente il legame dei questuanti con il mondo dei morti.
La questua veicola significati legati funzionalmente alla vita e alla rinascita. I morti, a loro volta, attraverso i canti o le formule augurali dei questuanti, assicureranno ai vivi fertilità e fecondità. Ma la questua, al di là del suo significato originario, ha una funzione sociale e relazionale, garantisce la coesione della comunità.

Da Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi


lunedì 22 luglio 2013

I Fianna



Il ciclo degli Dei e dei guerrieri irlandesi comprende i fianna, guerrieri di professione che avevano un loro esercito in ciascuna delle 4 provincie nelle quali era anticamente suddivisa l’Irlanda. Il loro compito era di difendere il Re Supremo e i re locali dalle magie di streghe e dei druidi nemici, ma la loro indole non era esclusivamente guerresca; anzi essi sapevano essere sensibili e apprezzavano la piacevolezza della natura, del gioco, della caccia e del corteggiamento amoroso.
Il ciclo leggendario dei Fianna e del loro leggendario capo, Finn, figlio di Cumhal, l'unico eroe a cui era permesso avere un rapporto paritario con i divini Tuatha de Danaan, costituisce l'ultima espressione della cultura gaelica prima dell'arrivo del cristianesimo in Irlanda nei secoli V e VI; infatti sotto i colpi di questa nuova religione muoiono gli Dei pagani e quel mondo magico-onirico che aveva caratterizzato la stessa cultura gaelica.
Il passaggio dal paganesimo al cristianesimo non avviene senza traumi, come è testimoniato dalla seguente leggenda, ma anzi porta con sé smarrimento, dolore, sgomento. Dopo la morte di Finn a cui la gente si ostinò a non voler credere, infatti si dice che ritorni sulla terra di quando in quando, assumendo ogni volta le sembianze degli eroi d'Irlanda, sarà il figlio Oisin a dover fare i conti con la nuova realtà. Quando Oisin parla a S. Patrizio, il cristianizzatore dell'Irlanda, degli amici e della propria vita che si è protratta così a lungo, egli non può fare altro che gridare senza posa contro una religione che non ha nessun significato per lui.
Egli piange, e le sue parole sono state conservate a lungo nell’arco dei secoli: "Piangerò finche avrò lacrime, non per Dio, ma perché Finn e i Fianna non vivono più".
La leggenda riassunta dice che Oisin, figlio di Finn abbandona i Fianna per andare a vivere nella Terra della Giovinezza con sua moglie Niamh. Dopo alcuni anni sente la mancanza della verde Irlanda, di suo padre e dei Fianna e chiede a sua moglie il permesso di tornare nella sua terra; Niamh gli concede il permesso ma gli predice che non tornerà mai più nella Terra della Giovinezza, poiché nel mondo reale sono passati secoli mentre in quella terra fatata solo pochi anni e se Oisin poserà i piedi a terra il peso di tutti i suoi anni gli piomberà addosso e non potrà più tornare a rivedere sua moglie.
Appena tornato in Irlanda incontra alcune persone che gli dicono che i Fianna e Finn sono morti secoli prima ma Oisin, disperato, non vuole creder loro e torna nei luoghi dove i fianna vivevano e trovando tutto in rovina si dispera fino a dimenticare l'avvertimento di sua moglie e mette il piede per terra, alché diventa vecchissimo ma sopravvive.
Successivamente incontra S. Patrizio al quale dice:

"Fu un brutto viaggio per me. Non trovato nessun segno di Finn e dei Fianna mi sprofondai in un dolore che durerà tutta la vita". Il santo rispose: "Smetti di affliggerti, o Oisin, e versa le tue lacrime per il Dio della Grazia. Finn e i Fianna ormai sono finiti e non hanno più bisogno del tuo aiuto. È stato Dio a vincerli e non la mano di un forte nemico. Quanto ai Fianna sono condannati all'Inferno, insieme a Finn, e a vivere nel tormento eterno."
"O Patrizio" disse Oisin "mostrami il luogo in cui si trovano Finn e i suoi guerrieri. Non esiste Inferno o Purgatorio che io non riuscirò a distruggere. E se anche Osgard, mio figlio, eroe che tanto coraggioso si dimostrò nelle dure battaglie, si trova laggiù, non c'è all'Inferno o nel Paradiso di Dio un esercito tanto grande che egli non possa distruggere".
Oisin continua poi dicendo che i suoni della natura, del corno da caccia e della corte di Finn sono molto più dolci e melodiosi di quelli dei monaci di Patrizio.
Oisin spesso prega il santo di implorare Dio perché Finn e i suoi compagni non stiano all'Inferno ma il santo non acconsente mai e Oisin non ne capisce il motivo, dicendo che Finn era stato generoso e buono con tutti. Patrizio insulta Finn e Oisin, arrabbiato, gli risponde che persino il peggiore dei nemici dei Ffanna di un tempo non lo denigrerebbero nel modo in cui fa il santo.
Parla Oisin:"Non è più vita non partire per compiere atti di coraggio, come eravamo soliti fare, non giocare più come facevano quando ne avevamo voglia e non vedere più i nostri guerrieri nuotare nel lago. È tutta la notte che le nubi gravano su di me. Non c'è nessun uomo che viva nelle mie condizioni. Oh com'è infelice la mia esistenza, non sono altro che un vecchio. Sono l'ultimo dei fianna, sono il grande Oisin, figlio di Finn e ora ascolto il suono delle campane. È tutta la notte che le nubi gravano su di me."
Fu così con queste parole cariche di malinconia, disperazione e nostalgia, con l’animo rivolto a quella che era stata la sua gente e il suo mondo, un tempo felice, ed ora irrimediabilmente perduto, si spense l'ultimo dei fianna, e con lui tutta un'epoca.

Da: Introduzione alla leggenda L’ultimo dei Fianna

Fianna (singolare fian) erano “bande” di guerrieri indipendenti.
Vivevano dunque liberi ed indipendenti. I fianna erano costituiti principalmente da uomini espulsi dai loro clan di appartenenza, senza possedimenti. I riti di iniziazione, prove che i racconti ci rappresentano in tutta la loro difficoltà, il candidato doveva manifestare la propria destrezza nell’uso delle armi ed il proprio coraggio superando alcune prove mirabolanti.
Egli doveva, infatti, affrontare, armato di un ramoscello e protetto dallo scudo, nove guerrieri armati di lancia, i quali gli scagliavano contro contemporaneamente la loro arma che il candidato doveva schivare. Superata la prima prova, con un breve vantaggio doveva fuggire nel bosco inseguito da tre guerrieri che gli davano la caccia.

A queste i racconti aggiungono prove più fantasiose, come il salto in piena corsa di un ramo alto come la sua fronte o il togliersi dal calcagno una spina senza smettere di correre.
Appare comunque certo che le doti atletiche dei feniani non fossero comuni. Ma il guerriero fianna non doveva solo essere un eccezionale e coraggioso uomo d’arme. Egli era anche un uomo di cultura ed un poeta, un poeta-guerriero.
Una volta ammesso nei fianna, giurava di rinnegare il proprio clan, di non vendicare mai alcuno dei suoi familiari né d’essere mai vendicato.
Si impegnava a non rifiutare mai l’ospitalità, a non fuggire mai in battaglia, a non insultare le donne e a non pretendere dote dalla moglie.

Questi guerrieri anticipano l’ideale cavalleresco, ma nel cavaliere medievale, anche nella rappresentazione più cortese offertaci dalla tradizione storico-letteraria, manca la fusione tra valore guerresco e cultura, conoscenza dell’arte e della poesia. Il fianna impugna l’arpa come la spada, e sostituisce con facilità i fendenti con i versi poetici. L’immagine che la tradizione irlandese ci tramanda è quella di un uomo completo, nel corpo e nello spirito, libero, forte e portatore di valori universali.
Questa particolarità contribuì a rendere le storie dei feniani così affascinanti da spingere Macpherson a dar vita a quella che, con tutta probabilità è una delle più famose mistificazioni della letteratura: la pubblicazione, tra il 1760 ed il 1763, dei poemi del bardo Ossian (l’Oisin irlandese, un fianna)."

Da:
http://www.specchiomagico.net/fianna.htm
)

lunedì 11 febbraio 2013

Lisa Thiel - Imbolc (Candlemas)



Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
Bless this house, and all of our kin
Protect this house and all within

Blessed Bridget come into thy bed
With a gem at thy heart and a crown on thy head
Awaken the fire within our souls
Awaken the fire that makes us whole

Blessed Bridget, queen of the fire
Help us to manifest our desires
May we bring forth all that’s good and fine
May we give birth to our dreams in time

Blessed Bridget comest thou in
Bless this house and all of our kin
From the source of Infinite Light
Kindle the flame of our spirits tonight


Mia traduzione libera:

Benedetta Bridget, entra
Benedici questa casa e tutta la nostra famiglia
Benedici questa casa e tutta la nostra famiglia
Proteggi questa casa e tutto ciò che è dentro

Benedetta Bridget entra nel tuo letto
Con una gemma nel cuore e una corona in testa
Risveglia il fuoco dentro le nostre anime
Risveglia il fuoco che ci completa

Benedetta Bridget, regina del fuoco
Aiutaci a manifestare i nostri desideri
Fa’ che possiamo dare vita a tutto ciò che è buono e bello
Fa’ che possiamo dare vita ai nostri sogni in tempo

Benedetta Bridget, entra
Benedici questa casa e tutta la nostra famiglia
Dalla fonte della Luce Infinita
Accendi la fiamma dei nostri spiriti stasera



mercoledì 9 gennaio 2013

La Befana



Sin dal Neolitico vi era un culto legato a una divinità che incarnava lo spirito degli antenati. Questa, in inverno, si materializzava alle famiglie riunite intorno al fuoco con sembianze femminili. Tale donnina con naso adunco era benaugurante per il raccolto dell’anno seguente.
San Epifanio di Salamina (315 circa - 403), nel Panarion adversus omnes haereses, racconta che già nel IV secolo, ad Alessandria d’Egitto, nella notte del 6 gennaio si celebrava un rituale che comportava la nascita di Aion, divinità legata ai miti della natura e alla fertilità, da una vergine Kore. Il rituale alessandrino, riferisce l’apologeta cristiano, era celebrato anche nelle città arabe di Petra e di Elousa.
Cosma di Gerusalemme conferma tale tradizione e aggiunge che il rituale era preceduto da un’altra cerimonia dedicata alla nascita del sole in coincidenza del periodo solstiziale, il 25 dicembre.
Sempre nell’antichità precristiana, in tutta l’area del Mediterraneo, la notte tra il 5 e il 6 gennaio nelle tradizioni agrarie pagane si celebrava la morte e la rinascita della natura, attraverso il sacrificio di Madre Natura, rappresentata in modo decrepito e senile. Questa raffigurazione sarebbe da mettere in relazione con l’anno trascorso: Madre Natura, stanca per aver elargito tutte le sue energie, perso l’iniziale e giovanile vigore, diventa una vecchia pronta a sacrificarsi per lasciare il posto alla sua giovane e feconda erede, dispensatrice di buoni raccolti. Per questo in molti Paesi dell’Europa era diffusa l’usanza di bruciare all’inizio dell’anno fantocci di cartapesta o di paglia, ricoperti da vestiti cenciosi e logori.
Nell’antico Lazio questa grande Dea Madre
era chiamata Bubona, termine legato ai bovini. In latino il bovino è bubúlinus, il bufalo è bubalus, bifolco si dice bufúlcum (corrispondente al latino classico bubúlcum, “guardiano di buoi”). Questi ultimi due termini dimostrano come la “b” intermedia sia soggetta a trasformarsi con l’evoluzione in “f” (bubalus – bufalo), mentre l’evoluzione di bubúlcus-bufúlcum dimostra come la “u” si trasformi nel tempo in “i”. Applicando le stesse variazioni a Bubona si ottiene Bifona, termine probabilmente trasformato poi in Befana, passando da Bifana. Allora, se questa peripezia linguistica fosse corretta, l’antica divinità vivrebbe ancora nella figura della “nuova” Befana.
Potrebbe non essere una coincidenza se in Basilicata la Befana è chiamata in dialetto Bufania, in Calabria Bifania, in Campania Bofania, in Abruzzo Bbufanije.
Se nelle tradizioni precristiane il “giorno della Befana” rappresentava l’interregno tra la fine dell’anno solare (solstizio invernale) e l’inizio dell’anno lunare, oggi rappresenta la conclusione delle festività natalizie, combaciando con l’Epifania cristiana.
Infatti, il cristianesimo, non potendo accettare una festività di origine pagana, e non potendo fare nulla per evitare che la tradizione popolare ne mantenesse viva l’usanza, ne alterò completamente la storia collegando la Befana all’Epifania dei Re Magi, rendendola così “tollerabile” per il proprio credo.
Un’altra origine etimologica del nome Befana è strettamente legata al nome della festa cristiana. Nel dizionario etimologico Avviamento all’etimologia italiana, Giacomo Devoto spiega che il nome di Befana è un calco di Epifania “con lenizione settentrionale di p- in b-, ma alla cui invenzione non sarebbe estraneo l’aggettivo “benefico” col quale questo personaggio ha delle assonanze di significato oltre che fonologiche”.
Epifania, dal greco epiphàneia, che vuol dire “apparizione”, e quindi con il significato di “manifestazione della divinità”, fu cambiato dalla Chiesa cristiana d’Oriente in tà Epiphània ierà, cioè “feste della manifestazione” poiché Gesù aveva manifestato il 6 gennaio la sua natura divina oltre che umana in quattro tappe: nascita, adorazione dei Magi, battesimo e miracolo di Cana (in cui il Cristo compie il suo primo miracolo tramutando l’acqua in vino).
La festa dell’Epifania, dunque, ebbe origine nella Chiesa orientale. Le prime notizie storiche su questa celebrazione ci sono state tramandate da san Clemente d’Alessandria, vissuto fra il I e il II secolo, il quale riferisce che la setta gnostica dei Basilidiani celebrava contemporaneamente la nascita e il battesimo di Gesù proprio il 6 gennaio. In questa data, fino a quasi tutto il IV secolo, sia in Oriente sia in Occidente, si celebrava la nascita di Gesù.
Nelle tradizioni popolari italiane la Befana è ora assimilata al sacrificio della dea Madre Natura, ora alla vecchina dei Re Magi. Così, trasformando l’origine sacra della ricorrenza in fenomeno di costume, si dà vita a diverse usanze, in primis il tradizionale dono della “Calza della Befana”.
In molte regioni italiane esiste ancora oggi accendere falò la notte dell’Epifania, per scacciare il male e propiziare la fecondità della terra e degli animali.
Il fuoco e il rumore oltre a scacciare le presenze maligne, al tempo stesso, evocano la luce solare di cui si inizia a percepire il ritorno dopo il solstizio d’inverno.
In Veneto è ancora viva l’usanza di bruciare la vecia (la vecchia) su roghi improvvisati un po’ ovunque. L’uso di accendere fuochi in questa notte, retaggio di antichi riti celtici, è comune anche ad altre regioni della Francia e della Gran Bretagna.
In Friuli dischi infuocati benauguranti e propiziatori si fanno ruzzolare sui fianchi delle colline e delle montagne (famoso è il “Lancio das Cidulas” che si svolge nella notte tra il 5 e il 6 gennaio a Comeglians, sulle montagne della Carnia), oppure si accendono covoni di rovi, chiamati pignarûl, con in cima un pupazzo che rappresenta la Befana (famoso è “Pignarûl Grant” della città di Tarcento).
In molti paesi del Veneto questi falò li chiamano panevin, e si crede che se le fiamme sono alte e vivaci, l’annata sarà buona e ci sarà “pane e vino” per tutti, se invece la legna stenta a bruciare e le fiamme sono deboli non rimane che sperare nell’infinita misericordi divina.
In alcune zone della Toscana e dell’Emilia Romagna, la Befana è ancora portata in giro per le vie del centro a bordo di un carro prima di essere bruciata nella piazza principale.
A Gradoli, in provincia di Viterbo, nelle notti del 3, 4 e 5 gennaio, gruppi di bambini, ma anche grandi, sfilano per le vie del paese, facendo un fracasso assordante: sono le “Tentavecchie” che, secondo una diffusa usanza popolare, cercano di svegliare la vecchia Befana e ricordarle di portare i doni ai bambini.
Nelle Marche, a Urbania, l’antica Casteldurante, da moltissimi anni si festeggia la “Festa Nazionale della Befana”. Ogni anno il Sindaco della città accoglie la Befana consegnandole le chiavi della città in nome degli abitanti dell’antica Casteldurante. La Befana arriva in cordata calandosi sulla città per poi entrare nella sua casa.
Una festa tradizionale molto popolare in Piemonte e in Lombardia, è la Giubiana o Festa della Giobia, specialmente in Brianza, nell'Altomilanese, nel varesotto e nel comasco.
L'ultimo giovedì del mese di gennaio vengono accesi dei grandi falò (o roghi) nelle piazze e bruciata la Giubiana, un grande fantoccio di paglia vestito di stracci. Il rogo assume valori diversi a seconda della località in cui ci si trova, mantenendo sempre uno stretto legame con le tradizioni popolari del luogo. L'ultimo giovedì di gennaio è il giorno, anzi la notte della Giubiana. Incerta è l'origine del nome per la mancanza di fonti scritte. Alcuni sostengono che esso derivi dal culto alla divinità di Giunone (da qui il nome Joviana). Altri ancora lo ricollegano a Giove, giovedì: il nome deriverebbe dal dio latino "Jupiter-Jovis", da cui l'aggettivo Giovia e quindi Giobia per indicare le feste contadine di inizio anno per propiziare le forze della natura che, secondo la credenza popolare, condizionano l'andamento dei raccolti. Il periodo della festa coincide con le Ferie Sementive o Sementine.
La storia di questo personaggio ha diverse varianti, a seconda dell'area geografica.
La Giubiana è una strega, spesso magra, con le gambe molto lunghe e le calze rosse. Vive nei boschi e grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero. Così osserva tutti quelli che entrano nel bosco e li fa spaventare, soprattutto i bambini. E l'ultimo giovedì di gennaio va alla ricerca di qualche bambino da mangiare.
Le calze rosse, potrebbero metterla in relazione con le forze del fuoco e della luce solare, ma le calze rosse e le gambe lunghe ricordano anche le zampe della cicogna e la Holda era spesso identificata proprio con la cicogna. Inoltre anche la Giubiana vola, dato che non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero.
In Sicilia era nota una figura simile alla Befana che compariva nelle notti del 24, 31 dicembre e 6 gennaio e nel periodo di Carnevale-Quaresima, chiamata la Vecchia di Natali, che spesso si trasformava in uccello o in altri animali per lasciare regali ai bambini; molte figure simili alla Befana si collegano a divinità zoomorfe, e quindi si rifanno alla Signora degli Animali e ad un'arcaica Dea della Foresta.
L'arrivo della Vecchia di Natali è anche caratterizzato da frastuoni assordanti realizzati con gli strumenti più vari (corni di bue, cerbottane e buccìni di mare, campanacci, padelle, pentole e casseruole), da grida acute e da fischi da abisso infernale, una reminiscenza della Caccia Selvaggia.
Il fuoco usato per bruciare il fantoccio della Vecchia, è in realtà un fuoco di trasformazione della Vecchia in Fanciulla, essendo la Festa della Giubiana più vicino a febbraio e alla festa di Imbolc/Candelora che a gennaio (nelle leggende celtiche, come vedremo più avanti, la Vecchia diventa giovane bevendo l'acqua al Pozzo della Giovinezza e quindi viene anche lì sottolineata la fine dell'Inverno come una fase di rinnovamento).
La Befana non ha solo la “funzione” propiziatoria legata alla campagna e agli animali, ma nelle tradizioni popolari il giorno dell’Epifania porterebbe fortuna anche nel campo amoroso.
In alcuni paesi toscani la dodicesima notte dopo Natale è anche quella dei “Befani”. In Toscana, questi sarebbero dei fidanzati in prova scelti a sorte la sera del 6 gennaio: la coppia vive un “fidanzamento in prova” e se i due ragazzi s’intendono, si procede alla richiesta ufficiale con la partecipazione dei rispettivi genitori, ovviamente la prova non nuoce affatto alla reputazione della ragazza.
Nel Molise, invece, è usanza credere che le ragazze nubili, la notte dell’Epifania, se sognano un ragazzo quello potrebbe divenire il loro fidanzato. Per questo, prima di andare a dormire, le nubili fanno una preghiera di buon auspicio: “Pasqua Bbefania, Pasqua buffate, manneme ‘nzine [in sogno] quille ca Die m’è destinate”.
La funzione più famosa della Befana, resta quella di portare leccornie ai bambini e agli innamorati. Oltre alla tradizionale “Calza della Befana”, è usanza in molte regioni italiane, specialmente in Toscana, Sardegna, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, fare le “befanate”, ossia una processione con canti che gruppi di giovani intonano davanti le case per ricevere doni.
Sempre legata alla funzione di “portatrice di doni”, in Sicilia famose sono la Vecchia di Alimena, la Vecchia Strina di Cefalù, di Vicari, di Rocca Palumba, la Vecchia di Natale, già menzionata, di Ciminna, la Vecchia di Capodanno di Resuttano, la Carcavecchia di Corleone, tutte benefiche e mitiche befane che portano leccornie e giocattoli ai bambini.

Anche se sono entrambi portatori di doni del periodo natalizio, profonde differenze separano Babbo Natale dalla Befana.
Prima di tutto l’origine. Mentre Santa Klaus ha una matrice cristiana nel ricordo di San Nicola, fuso con elementi silvani della mitologia nordica, la Befana affonda le sue radici nella tradizione pagana del mondo greco-romano.
La vera antenata della Befana non è tanto la dea Strenia, che pur nell’antica Roma presiedeva lo scambio dei regali di Capodanno, quanto la dea Diana e il culto della fertilità, allorché si riteneva che nelle dodici magiche notti tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, fantastici voli notturni di misteriose figure femminili, sopra i campi seminati, avessero una funzione propiziatoria per il futuro raccolto.
Questa credenza sopravvisse come tradizione delle popolazioni contadine europee anche dopo la cristianizzazione. Fu probabilmente in seguito alla condanna della Chiesa, che cercava di cancellare il retaggio pagano, che queste figure adepte di Diana furono bollate come entità maligne: nacque così la prima idea delle streghe, che cavalcano scope volanti per seguire il demonio e prendere parte ai “sabba” infernali.
L’immaginario medioevale diede corpo a diverse figure fantastiche di streghe che, si riteneva, affollassero quelle notte particolarmente propizie ai congressi satanici. Furono descritti vari personaggi: Satia, Abundia, Erodiade, Salomè. I sapienti di allora discutevano sulla loro natura, giudicandole prevalentemente di carattere maligno.
Fate, streghe e “vecchie” popolano anche ai giorni nostri la notte tra il 5 e il 6 gennaio: in Svizzera troviamo la strega “Posterli” e in Tirolo la strega “Zuscheweil”.
“La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte…”.
Recita così una antica filastrocca italiana, sottolineando l’aspetto cencioso e quasi ripugnante che la magica vecchina sovente presenta. A differenza di Babbo Natale che, pur nella sua età avanzata, gode di un’immagine impeccabile e innegabilmente gradevole, la Befana non fa mistero della sua apparenza decrepita che incute timore e ribrezzo, soprattutto a i più piccoli. Secondo alcuni, la Befana viene rappresentata in questo modo perché incarna l’immagine dell’anno vecchio, del quale si ricordano i momenti peggiori. La sua “bruttezza” avrebbe una funziona apotropaica: racchiuso nella forma di una vecchia lurida, tutto il negativo dell’anno appena  trascorso verrebbe incapsulato in una figura sacrificale (la “vecia” che viene bruciata), che tuttavia si riscatta portando doni ai bambini buoni, in una sorta di singolare equilibrio fra il bene e il male. Fatte salve tuttavia alcune rappresentazioni più benevole di questo personaggio, dove la figura non assume caratteristiche terrifiche, ma solo i tratti marcati dal tempo di una tranquilla vecchietta, la Befana deve il suo aspetto, più spesso ributtante, alla matrice maligna della sua origine.
Anche se buona, la Befana è pur sempre una strega e nell’immaginario formatosi dal Medio Evo la stregoneria è sempre stata associata all’idea della magia nera. Può sembrare un paradosso o una contraddizione, ma in questo personaggio convivono elementi positivi e negativi al tempo stesso, anche se, nel risultato finale, prevale l’azione generosa e benevola della consegna dei doni. Nell’antichità la magia benefica era permessa; quella malefica punita con la morte (Decreto di Costanzo del 321 d.C.). La Chiesa primitiva condannò la stregoneria e identificò le forze spirituali che gli stregoni invocano con le divinità del mondo pagano. Diversi Concili stabilirono pene spirituali per chi ricorresse a queste pratiche. Successivamente si fece strada l’idea che i sortilegi fossero dovuti alla mano del diavolo. Tutte quelle figure fantastiche femminili, antenate della Befana, non potevano sfuggire dall’essere classificate come demoniache da questa corrente di pensiero, che fece tendenza e sfociò negli eccessi dell’Inquisizione. La Befana, per quanto amata dalla tradizione italiana, non è mai riuscita a scrollarsi di dosso questa immagine vagamente maligna, intrinseca nelle proprie radici. In alcune zone del Veneto, e in particolare nella provincia di Belluno, prevale la componente malefica del personaggio e viene cancellato completamente il ruolo di dispensatrice di regali.
La Befana, al contrario di Babbo Natale che è scapolo, ha diversi mariti, che la tradizione popolare delle varie regioni le ha di volta in volta affibbiato. Nel basso Veneto, dove la Befana viene chiamata semplicemente “Vecia”, si dice che suo marito sia il “Barabau” o il “Vecion”: una sorta di spauracchio per i bambini disubbidienti. Nel Ferrarese, si diceva che il consorte della Befana fosse nientemeno che Sant’Antonio Abate, protettore degli animali festeggiato il 17 gennaio: esattamente 10 giorni dopo l’Epifania. Ma perché proprio Sant’Antonio Abate? È stato riconosciuto da molti che Sant'Antonio Abate sia in realtà la versione cristiana del Dio Lugh, innanzitutto viene sempre rappresentato con accanto un maialino e secondo gli studiosi, all'inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lugh, venerato in Gallia ma che compare anche nelle saghe irlandesi, ritratto come un giovane che tiene tra le braccia questo animale.
Poiché le reliquie del santo erano giunte in Francia, i primi cristiani celti trasferirono nel santo gli attributi del dio pagano e nelle leggende di Sant'Antonio Abate ecco che s'inserisce il cinghiale, diventato poi maiale per estirpare il ricordo precristiano, e nascono due leggende per cristianizzare gli emblemi, la prima racconta che il cinghiale-maiale fosse il diavolo sconfitto da Antonio resistendo alle tentazioni, la seconda dice che un giorno il Santo guarì un maialino e da quel momento questi lo seguì fedele come un cane.
In onore di Sant'Antonio Abate (che si invoca per guarire il famoso fuoco di Sant'Antonio) si accendono dei falò e anche Lugh era un dio solare ed era dispensatore di fuoco agli uomini.
Si dice che anche il campanellino di cui era ornato il maialino nell'iconografia cristiana fosse in realtà un simbolo di vita e morte, e la campana rappresenterebbe l'utero della Dea Madre, di cui Lugh era figlio.
Qualche giorno prima del dì della festa di Sant'Antonio, in molte località italiane, gruppi di uomini del paese andavano in giro di porta in porta a fare la questua, cioè a chieder cibarie che poi sarebbero servite ad allestire il banchetto in onore del Santo, cantando e suonando, in alcuni casi anche mettendo in opera una pantomima teatrale. Quindi si tenevano abbondanti banchetti dove la carne di maiale la faceva da padrona e si diceva che il cibo di questi banchetti allontanasse i mali, avesse poteri di protezione e alleviasse il peso della gestazione alle donne partorienti.
Anche in alcune leggende celtiche una personificazione della nostra Befana che era la Cailleach Bui è conosciuta come la moglie (una delle mogli) di Lugh.
La Cailleach Bui, chiamata anche Cailleach Bheur o Cailleach Beira è la personificazione dell'inverno e la madre di tutti gli dei e le dee della mitologia scozzese e irlandese. È associata ad uno dei miti della creazione dei Celti, si dice che numerose montagne e colline di grandi dimensioni si siano formate quando camminava attraverso la terra e alcune rocce caddero accidentalmente dal suo grembiule oppure che li abbia costruiti intenzionalmente per usarli come trampolini di lancio, e che usa un martello per plasmare colline e valli.
Detiene un ruolo simile a Gea nella mitologia greca e a Jord nella mitologia norrena.
Secondo lo studioso di folklore Mackenzie, era una gigantessa con un occhio solo e i capelli bianchi, la pelle blu scuro e i denti color ruggine. La notte più lunga dell'anno segna la fine del suo regno come Regina dell'Inverno ed è il momento in cui visita il Pozzo della Giovinezza e, dopo aver bevuto la sua acqua magica, diventa più giovane di giorno in giorno.
Tornando alla Befana, in Toscana, invece, la vecchietta fa coppia fissa con il Carnevale, considerato suo legittimo sposo:
“La Befana s’è risolta
di voler pigliare marito.
Carnevale è lì ammanito
che la vuole viva o morta…
Questa poesiola popolare toscana conferma la natura completamente profana della Befana: essendo figlia delle streghe, non può non essere moglie che del Carnevale, re di vizi e follie

Da: La storia di Babbo Natale di Carlo Sacchettoni
http://www.storiain.net/artic/artic1.asp



martedì 8 gennaio 2013

La nonna-fuoco


Questo accostamento apparentemente singolare tra i due termini ci introduce in un processo di identificazione molto antico. Si tratta di una equivalenza che coinvolge, come vedremo, la Befana stessa, che certamente è collegata fin dalle origini al fuoco celeste, a quello terrestre, e soprattutto al fuoco domestico del focolare familiare. Talvolta nella tradizione popolare la Befana viene portata dalle stelle, ma immancabilmente essa giunge volando attraverso la cappa del camino. Esamineremo adesso questo legame inscindibile tra la Befana e il focolare domestico, dove tradizionalmente si crede che essa arrivi, e dove si appendeva la calza nell’attesa dei doni.
Il legame tra la nonna, concepita come custode naturale del fuoco, e il luogo simbolo della comunità familiare, luogo sacro per eccellenza della casa, è evidente in alcune tradizioni conservate fino al secolo scorso presso le popolazioni siberiane. I Kacini, ad esempio, pongono le immagini degli spiriti domestici nella parte femminile della yurta, quella destra, ed il loro culto spetta soprattutto alle donne, e particolarmente alle donne anziane. Questa prevalenza femminile nei riti domestici è uno dei motivi per cui il genio del focolare appare come donna. La nonna delle fiabe russe, la Baba Jaga, rappresenta l’antenata totemica in linea femminile. Essa giace sulla stufa, ammucchia la fuliggine, maneggia l’attizzatoio, la scopa, il fruciandolo per pulire la stufa, e si serve degli attrezzi della cucina. Nelle rappresentazioni caratteristiche del folclore di molti popoli la donna e il fuoco sono strettamente legati. In tutta la Siberia il fuoco è concepito come un essere femminile e allo stesso tempo è venerato col titolo di ‘antenata’. Gli Jacuti si rivolgono nelle loro preghiere alla “nonna fuoco”. I Goldi rappresentano la Fadzia mama, ‘madre del fuoco’ in forma di vecchietta curva e rugosa con un vestito rosso. La padrona del fuoco degli Ainu è al centro del focolare domestico; in un angolo della capanna si conserva una bacchetta appuntita che rappresenta l’antenato della famiglia, mentre il focolare appare come sua moglie. Ma talvolta nel focolare si trovano sia il vecchietto che la vecchietta, entrambi protettori del clan.
Se accettiamo l’esistenza di un culto degli antenati domestici universalmente diffuso, dobbiamo ammettere che esso è sorto indubbiamente all’interno di una condizione di vita sedentaria, con abitazioni permanenti e nuclei familiari relativamente stabili. In questo contesto sono ammissibili sia l’ipotesi di un culto dell’antenata femminile, che quella di un culto dell’antenato maschile. Alcuni studiosi sono concordi nel ritenere che la venerazione di reali progenitrici custodi del fuoco domestico abbia dato origine al culto della nonna-fuoco, ossia dell’antenata legata al fuoco e al focolare.
Se tentiamo di risalire alle fasi preistoriche di vita sedentaria, osserviamo che verosimilmente alcuni gruppi di donne si organizzavano in abitazioni semi-permanenti, accanto ai bambini, praticando l’attività della raccolta dei frutti e delle erbe, sviluppatasi successivamente nelle prime coltivazioni dei semi e quindi dell’agricoltura, nei pressi di queste abitazioni stabili; mentre gli uomini si spostavano in gruppo rimanendo per lunghi periodi lontani da casa e inseguendo la selvaggina nei boschi e nelle foreste. In questo periodo di vita semi-sedentaria inizia a svilupparsi il culto del focolare e degli antenati, che si rafforzerà quando le abitazioni diverranno del tutto stabili e la comunità si organizzerà in villaggi; allora il centro della casa sarà il focolare domestico, e il culto degli avi troverà in questo contesto un’ampia diffusione.
Noi ci occuperemo esclusivamente della figura femminile legata al focolare domestico, dal momento che questa rappresenta la forma primordiale dalla quale si è plasmata la figura della Befana, osservando che la figura del focolare e delle pratiche relative al culto degli antenati resta prevalentemente affidata alle donne. Tutti gli oggetti e luoghi sacri domestici sono sotto la tutela delle donne. Presso gli Evenki siberiani la padrona della čuma, prima di servire il pranzo nutre lo spirito del fuoco. Alla donna che offre il cibo agli spiriti della casa e del focolare è fatto assoluto divieto di comunicare con lo spirito della foresta, mentre gli uomini, soprattutto al momento di partire per la caccia, devono tenersi lontano dal focolare o dalla stufa.
Al momento di spostarsi da un accampamento all’altro, la padrona di casa si inchinava davanti al focolare, prendeva un pizzico di cenere e chiedeva alla nonna-fuoco di trasferirsi nel nuovo accampamento insieme alla famiglia. Poi si spalmava le mani di cenere, spargendone anche un po’ nel risvolto delle maniche. Una volta giunti al nuovo accampamento, la padrona di casa scuoteva la cenere del vecchio focolare sul posto preparato per quello nuovo, e invitava la nonna-fuoco a stabilirsi nel nuovo alloggio. Solo dopo il compimento di questa cerimonia si poteva accendere il fuoco, ed aveva inizio la vita nella nuova casa. La donna più anziana della casa era la principale addetta al fuoco; se nella famiglia non vi erano più donne, tutti i riti si interrompevano, poiché la comunità era basata sulla consanguineità e rappresentata dalla figura femminile, spirito del fuoco e madre del clan, una sorta di progenitrice mitica di un gruppo familiare.
Quando la sposa si trasferiva nell’abitazione dello sposo, essa portava con sé lo spirito della propria antenata, prelevando dei tizzoni dal focolare della casa natale, e con questi accendeva il fuoco nella casa del marito, rivolgendosi alla sua progenitrice con queste parole: “Piccola madre, ora che il nuovo fuoco è acceso, stabilisci un nuovo saran (focolare): che il mio fuoco non smetta mai di ardere in questo nuovo luogo”. Il fuoco comune era un’istituzione del clan, e la nonna ne era la padrona e la custode. Essa era in rapporto con la reincarnazione delle anime dei defunti nei nuovi nati e risiedeva nel focolare.
Le rappresentazioni ed il culto della nonna-fuoco sono storicamente attestati dal ritrovamento delle figurette femminili nei pressi del focolare domestico risalenti al paleolitico superiore. All’interno di ciascun focolare proto-indiano sono state rinvenute statuette di una dea madre che risalgono intorno al 2400-2100 a.C. circa, esse sono fornite di una strana acconciatura alla sommità del capo, munita da ciascun lato di un piattino sul quale si faceva bruciare l’incenso. Il nesso della donna con il fuoco si ritrovava nei miti di popolazioni anche lontanissime tra loro, segno che si tratta di un motivo radicato nell’esperienza umana più antica, quando era la donna a custodire il fuoco. In Australia si narra che i fratelli Tara e Jurt Jurt conducono una lotta contro Wrona, un essere femminile che detiene il fuoco e lo conserva di nascosto; il fuoco le viene sottratto e consegnato all’umanità. Per i Montagnais la moglie di Manitou appare come un fuoco e ruggisce come una fiamma, ma le sue parole sono incomprensibili.
Talvolta è una donna anziana a scoprire il fuoco, sradicando due rami e strofinandoli con forza uno contro l’altro, oppure spezzando il suo bastone da combattimento. Non sarebbe forse lontano dalla realtà supporre che nella mentalità delle popolazioni preistoriche la visione del fulmine che si abbatte su un albero e lo incendia abbia suscitato l’idea del fuoco presente all’interno delle piante. Dal momento che, come si riteneva, le piante erano capaci di ‘assorbire’ l’energia del fuoco celeste, sarebbe bastato trovare il modo per far scaturire dalla pianta questa energia, e sfruttarla. Questa è una delle forme più antiche di quel metodo analitico e comparativo che induce l’uomo alla scoperta di tecniche innovative.
Del resto la figura dell’antenata mitica del clan non è connessa solamente al fuoco terrestre, ma anche, e forse prima ancora, al fuoco celeste. Tra gli Aandamanesi abitanti delle isole indonesiane, la figura della vecchia progenitrice Biliku, è  legata al fuoco e al fulmine. In tutte le tribù delle Isole Andamane sono diffuse leggende secondo le quali Biliku era stata la prima a possedere il fuoco. Alcune versioni narrano che lei donò il fuoco agli antenati tribali, mentre altre versioni riferiscono che il fuoco le era stato rubato da uno di essi. Esiste inoltre un legame tra la vecchia Biliku, che causa le tempeste, e il fulmine. Infatti gli andamanesi considerano il fulmine come un fuoco. Il fulmine e il sole sono gli unici fuochi naturali, diremmo astrali, conosciuti dagli indigeni, per questo essi individuano nella figura di Biliku colei che gestisce sia il fulmine, che il fuoco sulla terra. Quale detentrice del fuoco astrale, lei è in grado di impugnare il fulmine, esattamente come un tizzone. Ed è proprio scagliando un tizzone infuocato verso il cielo che la vecchia Biliku, nel pensiero mitologico degli andamanesi, ha dato origine al sole.
lo stesso tipo di collegamento tra il fulmine e il fuoco si può individuare anche nella lingua latina, dal punto di vista etimologico e anche fonetico, tra i termini fulmen e flamen, che indicano la prossimità del fuoco celeste con la fiamma, scaturita dal fuoco “vivo” terrestre. Nella storia della mitologia vi sono casi in cui la personificazione femminile del fuoco e del focolare domestico è giunta fino agli stadi avanzati dell’evoluzione culturale e religiosa. Nel complesso ed articolato mondo mitico dei greci e dei romani troviamo le figure vivide e al tempo stesso indistinte di Vesta, l’unica dea priva di simulacro, dal sembiante igneo, e di Ecate, la protettrice della famiglia ellenica e del focolare, in cui la dea risiede. Ecate  è anche la divinità lunare e notturna, una dea ctonia, accostata a Diana, anch’essa dea lunare, ma prevalentemente legata alla fertilità e alle nascite.
L’aedes Vestae era il focolare della grande famiglia romana, interpretato da studi relativamente recenti come l’espansione di un culto domestico e tribale. Per Ovidio Vesta è la terra stessa, e come la terra è rotonda, così pure il suo tempio. Essa conservava il fuoco perenne nel luogo dove sorgeva una volta la reggia di Numa. Nel tempio di Vesta il fuoco, che non doveva estinguersi, era custodito dalle Vestali, vergini sacerdotesse della dea; una tradizione che ha ispirato a Frazer un parallelismo con i costumi tribali del Sudafrica, dove era compito delle figlie del capo mantenere sempre acceso nel villaggio un fuoco a cui si potesse attingere in qualunque momento.
Il tempio era anche sede di un’attività domestica. Vesta a Pompei era spesso dipinta da sola o in compagnia di Vulcano sulle mura dei forni e delle cucine, poiché era considerata protettrice dei fornai. La donna nell’antica famiglia romana era la vigile sacerdotessa di Vesta, la custode del focolare, al quale essa accudiva. Un’iscrizione rinvenuta a Nemi mostra che Vesta era identificata con Diana, dea del fuoco e del focolare nei colli Albani. Il sacro fuoco non deve spegnersi mai accidentalmente, questo va fatto solo nell’ambito di particolari cerimoniali. La sacralità del ‘fuoco’ vivo del focolare domestico traspare nella venerazione delle donne siciliane per Sant’Agata, protettrice dei forni, ed inoltre nel culto di Santa Ponyke, invocata dalle donne polacche mentre alla sera ricoprivano il fuoco con la cenere.
A questo punto sarebbe interessante ricercare un altro parallelismo tra questi miti e alcune fiabe, dove la figura della vecchia nonna, custode del fuoco, appare minacciosa e benevola al tempo stesso, e mette alla prova le ragazze, imponendo loro di vigilare affinché il fuoco non si spenga. Si tratta evidentemente di una prova relativa all’esperienza iniziatoria. Tra le varie imprese che i candidati dovevano superare vi era quella di recarsi di notte nella foresta a cercare legna per accendere un fuoco che doveva restare sempre acceso. Era l’antenata della stirpe, la padrona del fuoco, a sottoporre i ragazzi alle prove iniziatorie. La ricerca del fuoco da parte dei ragazzi è un motivo frequente nelle fiabe, ad esempio nella fiaba russa di Vasilissa, la giovane si reca dalla Baba Jaga dicendole: “Sono io nonna! Le figlie della matrigna mi hanno mandata a chiederti del fuoco” – “Bene – è la risposta di Jaga – adesso resta un po’ di tempo qui e lavora per me, allora ti darò del fuoco, se no ti mangerò!”.
Tutte queste figure di vecchie nonne detentrici del fuoco, ch è fonte indispensabile di energia e  di vita, del quale esse sono le custodi gelose, e che distribuiscono solo ai giovani discendenti che lo abbiano meritato, rimandano il nostro pensiero naturalmente ad una figura a noi più vicina e più nota, quella della Befana, facendoci comprendere al tempo stesso quanto siano universalmente diffuse alcune caratteristiche ritenute peculiari della Befana stessa. Sappiamo che nel mito della Befana il fuoco è un elemento rilevante: essa appare a volte in forma di brillante meteora, e viene descritta col viso fuligginoso, gli occhi di bragia, i denti affilati e la lingua tagliente. Abita sui tetti, tra le cappe dei camini ed è feroce e mite al tempo stesso. Inoltre essa porta con sé la cenere e il carbone, prodotti ignei. Questa fata nera, la Befana, appare in una nota incisione di Bartolomeo Pinelli che la raffigura nel mercato di Piazza Navona, o forse di S. Eustachio, la sede più antica della festa, seduta su una vecchia sedia di paglia, col volto impiastricciato di nerofumo, ricoperta di un velo nero, maestosa ed imponente, con le calze appese lungo le spalle e una lunga canna nelle mani, mentre suscita stupore nei ragazzi e spavento nei bambini più piccoli. Questa ambivalenza della Befana, il senso di terrore che essa incute, e al tempo stesso la speranza del beneficio che essa potrebbe concedere caratterizzano, come abbiamo visto, anche figure simili a quella della Befana, come la vecchia Wrona degli australiani, la stessa Biliku andamanese, e la Baba Jaga delle fiabe russe.
Un’altra sorprendente somiglianza con la figura della nonna-fuoco, soprattutto se pensiamo ai miti dei popoli siberiani, si trova nella tradizione romagnola, dove lo spirito dell’antenata presente nel focolare si “antropomorfizza” nella figura della Fata, che appare come “una vecchia-vecchina; pulita, linda, dall’aria casalinga e simpatica di nonnina”. Il suo compito è quello di vigilare sulla famiglia, e in particolare sulle creature che vengono minacciate dalle streghe nelle culle. Essa si presenta quindi come un “nume tutelare”, un’antenata benevola, che veglia sui suoi discendenti e li protegge da spiriti maligni estranei alla famiglia. La vecchia fata che abita nel focolare, custode della fecondità e della prosperità della famiglia, si identifica con la Befana. La Vecchia, chiamata Befana, porta doni ai bambini, ultimi discendenti della casa, da lei protetti.

Da: L’incanto e l’arcano. Per una antropologia della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco



lunedì 7 gennaio 2013

I Re Magi


Portatori di doni per eccellenza sono i Re Magi. Secondo la tradizione cristiana, alcuni “Magi” (non si sa bene cosa si intenda con questa parola) guidati da una stella (forse una cometa), giunsero da oriente in Palestina, fino alla grotta di Bethlem, per riconoscere e recare omaggio e doni al Messia, da poco nato.
Non sappiamo quali siano le fonti su cui è costruito questo racconto del Vangelo. Al riguardo, nessuno storico e nessun teologo sanno rispondere con esattezza. È anche difficile definire con precisione quale fosse l’esatto significato del termine “Magi”; con tutta probabilità questo vocabolo è di origine cristiana. Scrive Alfredo Cattabiani:
“…Mago deriva da Mag che significa letteralmente dono ed esprime un particolare valore religioso di cui parlano le Gatha dell’Avesta, il complesso dei libri sacri dello Zoroastrismo. Lo stato di Mag separa ciò che è spirituale da ciò che è corporeo, porta in diretto contatto con le energie divine; sicché il mago è colui che partecipa del Mag, acquisisce un potere magico per mezzo del quale può ottenere un’illuminazione, una conoscenza fuori dell’ordinario, una visione e percezione che non son mediate né trasmesse dagli organi fisici né dai sensi”.
Secondo Erodoto invece, con il titolo di “Magi” venivano identificati gli appartenenti ad una tribù o ad una casta sacerdotale del popolo della Media o Madia, antica regione della Persia, da cui “Madi o Magi” per variazione di pronuncia o di trascrizione.
Questi individui, per diritto di casta o perché iniziati ai misteri sacri e alle prime conoscenze scientifiche, avrebbero avuto una grande influenza sulle autorità della Persia e di altre terre d’oriente.
La maggior parte degli studiosi della materia ritiene abbastanza probabile la tesi che li vuole sacerdoti di Zarathustra, oppure indovini, astrologi o maghi, secondo la più facile interpretazione di Greci e Latini.
Ma anche la parola “Mago” si confonde con “Magi” e questa trasposizione di termini si è trasmessa fino ai giorni nostri. Con l’espressione “mago” viene infatti indicato sia il concetto di “grande sapiente”, sia quello più popolare di “autore di incantesimi o prodigi”, entrato ormai nell’uso comune.
L’espressione “Re Magi” potrebbe anche significare “I Magi del Re” o “reali” e la parola “Re” avere semplicemente valore di aggettivo.
Secondo l’interpretazione biblica più diffusa, i Magi del testo evangelico sarebbero uomini di scienza e di preghiera, forse anche astrologi, quindi saggi o sacerdoti di rango, dignitari di corti imperiali, incaricati di fornire consigli ai regnanti, di trarre auspici dagli astri e di interpretare gli eventi. Sono anche chiamati “Re”, poiché collocati ai vertici delle gerarchie umane, al fianco dei sovrani, che all’epoca erano spesso personificazioni delle divinità.
Leggendo attentamente la Bibbia, troviamo personaggi con analoghe caratteristiche alla corte del Re di Babilonia Baldassar (Daniele 5, 7-8).
“…Allora il Re (Baldassar) si mise a gridare, ordinando che si convocassero gli astrologi, i Caldei e gli indovini…
…. Il Re disse ai saggi di Babilonia: Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione, sarà vestito di porpora, porterà una collana d’oro al collo e sarà il terzo signore del regno”.
(Daniele 5,7)
Questi versi dell’Antico Testamento confermano l’interpretazione che stiamo dando alla parola “Magi”. I “sapienti” di corte ottenevano i massimi onori dal sovrano che li elevava a rango reale, rivestendoli d’oro e di porpora, emblemi tipici della regalità.
Come i sovrani rendevano loro omaggio, considerandoli loro pari, così i Magi, quali sommi sacerdoti, rendevano omaggio ai Re, legittimandone la sovranità e la sacralità.
In oriente, era diffusa la credenza che alla nascita di un grande personaggio coincidesse l’apparizione di un nuovo astro. Secondo la tradizione, fu una stella misteriosa a colpire l’attenzione dei Magi e a indicare loro la strada per raggiungere il nuovo Re, nato da poco.
La storia dei Magi, che tanta suggestione suscita, è riportata solo dal Vangelo di Matteo.
Quanti erano i Magi? Il Vangelo di Matteo non lo dice e non dice neppure se erano o meno re. Uno scritto apocrifo del V secolo attribuisce loro una regalità e una antica tradizione popolare che risale al III secolo ne stabilisce il numero in tre (numero perfetto) in relazione ai tre doni. Secondo la Chiesa armena, i Magi erano addirittura 12 (come gli apostoli), mentre altri sostenevano che fossero solo due. Nell’Alto Medioevo fiorirono numerose leggende legate alla storia dei Magi, finché Giovanni da Hildesheim, un frate carmelitano, morto nel 1375, dopo aver girato in lungo e in largo l’Europa, volle sintetizzarle tutte in un suo scritto dal titolo appunto Storia dei Re Magi. In questa breve opera confluiscono miti remoti che si perdono sulle vie carovaniere dell’oriente, il culto iranico e turco-mongolo del fuoco, l’invasione dei Tartari.
Giovanni da Hildesheim fissò il numero dei Magi in tre: Melchiorre re della Nubia e dell’Arabia, Baldassarre re di Caldea, Gaspare re dell’Etiopia.
Ai Magi, il Bambino si manifesta nella sua umanità, nella sua regalità e nella sua divinità: è l’Epifania, parola greca che significa appunto manifestazione, dalla quale i Magi prendono atto con la prostrazione e l’adorazione del Dio-Re dei Giudei-Bambino. Infine, questi “sovrani” sapienti, esperti nei simboli della conoscenza sacra, offrono al Messia tre doni: incenso, oro e mirra. Il significato mistico ed esoterico delle tre sostanze si è consolidato nella tradizione: incenso-divinità, oro-regalità e mirra-umanità. Nel mondo antico, infatti, l’incenso veniva offerto agli dei, l’oro era il tributo che si doveva al re e l’attributo della sovranità, mentre la mirra era una sostanza utilizzata sia come potente analgesico, sia come balsamo nella sepoltura dei morti. La mirra è dunque simbolo della sofferenza e della fragilità della condizione umana. I tre doni assumono quindi un valore misterico e vengono offerti al Bambino come rito di iniziazione alla vita messianica e come riconoscimento delle tre dimensioni, divina, regale ed umana, del Cristo. Ancor secondo Giovanni da Hildesheim, che riprende un passo di Fulgenzio (Serm. IV de epih. 9, PL, LXV, 736), l’allegoria dei tre doni sarebbe leggermente diversa: l’incenso si riferirebbe al sacrificio, l’oro al tributo e la mirra alla mortalità.
I Magi, quali Re o reali, delle grandi nazioni conosciute nell’antichità, potrebbero anche rappresentare le tre razze umane più diffuse allora nel bacino mediterraneo: la bianca, la nera e l’orientale.
La molteplicità delle interpretazioni e le numerose versioni e leggende sorte intorno a queste figure hanno sviluppato nel Medio Evo un importante ruolo dei Re Magi nel mito, nella tradizione popolare e nel folklore delle feste natalizie. Un vero e proprio culto dei Magi si è sviluppato in Italia, soprattutto nelle regioni settentrionali, per ricordo di leggende bizantine che ebbero diffusione in varie zone della penisola nei secoli del primo millennio. Secondo questa tradizione, Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, aveva rinvenuto miracolosamente i resti mortali dei tre Magi e li aveva fatti tumulare nella grande basilica di Santa Sofia a Costantinopoli (l’odierna Istanbul). Successivamente, donò queste reliquie al vescovo di Milano, Eustorgio, che le fece sistemare in un sarcofago della chiesa detta appunto “dei Santi Re Magi”. Da allora, si diffuse presso i Lombardi una fervida devozione nei confronti dei Tre Re, annoverati insieme agli altri santi e raffigurati spesso con costumi ricchissimi nelle rappresentazioni popolari. Quando Federico Barbarossa invase Milano, volle che le reliquie dei Magi fossero trasportate a Colonia, per privare i Lombardi di quest’oggetto di culto divenuto molto caro alla popolazione milanese. Successivamente la città riuscì a riottenere dai Germanici alcuni frammenti delle reliquie, che tornarono ad essere venerate nel giorno dell’Epifania. Fu proprio in questo periodo che accanto alla venerazione religiosa si sviluppò in Lombardia e in altre regioni del centro-nord la tradizione di far credere ai piccoli che i Re Magi, così come avevano fatto per Gesù Bambino, portassero altri doni anche a tutti gli altri fanciulli che si fossero mostrati buoni e ubbidienti nel corso dell’anno.
Quest’usanza è comune anche a tutti i paesi di cultura ispanica: i regali ai bambini arrivano il 6 gennaio, misteriosamente portati da “los tres Reyes Magos”. La tradizione è particolarmente viva in Spagna e in America Latina. I bambini lasciano le loro scarpette sul davanzale delle finestre e le riempiono con orzo, carote e paglia, per i cavalli o i cammelli dei tre Re. Più amato dai fanciulli, sarebbe Balthasar, che arriva in groppa ad un asino. Sarebbe lui a lasciare materialmente i regali.
Abbiamo così la prima spersonalizzazione della paternità del dono e la prima forma di “paganizzazione” di personaggi, peraltro già ai confini della leggenda. Personaggi che, dal Vangelo di Matteo, subiscono una trasposizione nella sfera secolare, per entrare a far parte del rituale quotidiano della festa. I Re Magi, pur non perdendo il loro ruolo nella tradizione religiosa, entrano a far parte della fiaba, per quanto riguarda questa attribuzione di “portatori di doni”, data loro dalla immaginazione popolare. Di conseguenza, in talune regioni, il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, diviene anche nella consuetudine la festa dei “Tre Re”, con chiaro riferimento ai Magi o, più esplicitamente: “Festa dei doni”, perpetuando quella tradizione già in uso nel mondo romano con i “Saturnalia” e le “Sigillaria”.
Rimane il fatto inspiegabile che i milanesi per secoli chiamarono i tre Re Magi con i nomi di Eleuterio, Rustico e Dionigio.
Eleuterio deriva dal nome greco Ελευθέριος (Eleutherios) che significa letteralmente libero. Il nome era usato come epiteto per Dioniso, per la sua capacità di liberare gli uomini attraverso l'esperienza dell'estasi.
Rustico vuol dire campagnolo ma anche abitante delle campagne, uomo libero e non rinchiuso dentro le mura... della propria mente?
Dionigio rappresenta una variante del nome Dionisio, derivato dal nome greco Dionysos attraverso l'antica forma francese Denis. Il significato è dunque sempre libero come per Eleuterio.
Chissà se questi nomi hanno un senso metafisico o, invece, sono un anelito ed un invito ad un futuro di libertà da parte di un popolo sempre sottoposto ad angherie da parte del tiranno di turno.
Riccardo Taraglio, ne Il vischio e la quercia, Edizioni L’età dell’Acquario, citando Jean Baptiste Bullet, ricorda che nella redazione irlandese del Nuovo Testamento i Magi vengono chiamati druidi. “Durante l’epoca della cristianizzazione d’Irlanda – scrive ancora Taraglio - gli antichi manoscritti cristiani riportano la parola “Druido” utilizzata nel senso di “saggio”, “sapiente” e spesso tale termine viene sostituito da quello di Mago, non nel senso dispregiativo, ma come singolare di Magi, paragonando la saggezza, il valore e l’importanza dei tre uomini che resero omaggio al Maestro Gesù appena nato portando i famosi doni, alle qualità possedute dai Druidi”. Negli anni immediatamente successivi alla cristianizzazione d’Irlanda, i monaci, che erano ancora nella loro grande maggioranza Druidi, hanno cercato di adattare le antiche tradizioni ai testi sacri cristiani. Un esempio eclatante lo troviamo nella trasformazione di Brighit in Santa Brigida, la quale, data l’importanza della Dèa nell’antica religione dei Celti, viene addirittura indicata come la levatrice o la madre adottiva di Gesù. Una leggenda irlandese narra che Santa Brigida giunse alla stalla di Betlemme dove aiutò il bimbo a nascere e gli fece cadere sulla fronte tre gocce di pura acqua di sorgente. Questa narrazione è la versione cristianizzata di un antichissimo mito celtico nel quale il Figlio della Luce (Mabon) veniva salutato alla nascita con la Benedizione della Triplice Purezza (i tre doni dei tre Magi?) fatta tramite tre gocce di saggezza versate sulla sua fronte

Da: La storia di Babbo Natale di Carlo Sacchettoni

http://www.silvanodanesi.info/?page_id=402

domenica 6 gennaio 2013

Un dolce per Huldra



Nel folklore scandinavo, le huldre o uldre (norvegese, derivante dalla radice che indica "coperto" o "segreto") sono delle seducenti creature della foresta. Altri nomi includono lo svedese skogsrå o skogsfru (che significa "dama della foresta") e Tallemaja (Maria del pino). Un uldro è chiamato huldu, oppure in Norvegia huldrekall. Il nome suggerisce una analogia con la figura di völva Huld e dal tedesco Holda.
La parola huldra è una forma definita nel norvegese (l'"hulder") - la forma indefinita è ei hulder ("un hulder"). La forma indefinita plurale è huldrer (alcuni "hulder"), mentre la forma definita plurale è huldrene ("gli hulder"). Nel plurale sono anche comuni le forme collettive huldrefolk (indefinita) e huldrefolket (definita).
L'huldra possiede una bellezza spiazzante e, a volte, viene rappresentata nuda e con lunghi capelli; ella vista di spalle somiglia al tronco di un vecchio albero e possiede una coda animale. In Norvegia si tramanda che abbia la coda di una mucca e in Svezia la coda di mucca viene spesso sostituita da quella di volpe
In Norvegia l'huldra viene spesso descritta come la tipica lattaia con indosso gli abiti di una ragazza di fattoria, anche se molto più appariscente rispetto alla maggior parte delle ragazze.
L'huldra è una delle parecchie (custode, guardiana), come l'acquatica sjörå (o havsfru), successivamente identificata con la
sirena, e la bergsrå.
Maggiori informazioni possono essere trovate nella collezione norvegese di racconti folk di Peder Christian Asbjørnsen e Jørgen Moe.
Queste creature hanno spesso interazioni molto strette con gli esseri umani. Si dice che le Huldra siano solite attrarre gli uomini dei villaggi nel loro rifugio in mezzo alla foresta per accoppiarsi ripetutamente con loro. Se lo sventurato non fosse in grado di soddisfare sessualmente la sua partner fatata, quest'ultima finirebbe con l'ucciderlo, ma se riuscisse nell'ardua impresa allora la Huldra gli donerebbe parte del suo potere. Però, anche in questo caso, non sempre le cose si concludono felicemente per il malcapitato. Alcune volte, la Huldra soddisfatta può costringere il proprio focoso partner a sposarla! I casi di matrimoni con queste entità non sono rari nella tradizione popolare, e non sempre sono forzati. Alcune volte l'apparente bellezza di questi spiriti della Foresta è tale che qualche giovanotto si innamori davvero di una di loro e la porti all'altare. Una volta sposata con rito cristiano, la Huldra perderà la sua coda animale e diverrà bruttissima. Ma ormai il matrimonio è fatto, e guai a tradirla! La sua forza è immensa e la sua collera terribile! Hanno l'abitudine di rapire dalle culle i neonati umani per sostituirli con i loro piccoli deformi. Questa specie di changelings scandinavi è conosciuta come Huldrebarn, e spesso sono il frutto dei selvaggi accoppiamenti della madre con giovani umani. Alle volte, qualcuno che era sopravvissuto a quella pericolosa esperienza, poteva ritrovare il suo legittimo figlio scambiato proprio con il suo stesso "fratellastro" mezzosangue, concepito nella foresta con la Huldra.
Un'altra caratteristica che queste creature condividono con il Piccolo Popolo è una leggenda cristiana sulla loro origine. Anche in questo caso sembra che lo Huldrefolk (termine che indica l'intera popolazione di questi esseri) discenda dai figli di Eva non mostrati al cospetto di Dio perché sporchi e costretti a nascondersi per sempre.
Tolta la distorsione cristiana, le Huldre derivano sicuramente da un qualche tipo di entità primordiale, probabilmente legata alla fertilità. Le sue caratteristiche bovine danno sostegno a questa ipotesi, in quanto la figura della vacca era simbolo di fertilità e prosperità in moltissime culture antiche.
I molti punti di contatto con entità presenti in diverse tradizioni, portano anche a pensare ad una comune origine.
In Norvegia ancor oggi il giorno di Natale è usanza portare in regalo un dolce a Huldra.

Una leggenda narra che una volta, molto tempo fa, proprio il giorno di Natale un pescatore voleva portare un dolce allo spirito dell’acqua, che dimorava nel lago nei pressi di casa sua, ma trovò il lago completamente ghiacciato. Non volendo lasciare il dolce sul ghiaccio, andò a prendere un piccone e cercò di fare un buco nel ghiaccio, pensando così di fare un piacere a Huldra. Ma nonostante gli sforzi riuscì solo a fare un buchetto molto piccolo, troppo piccolo per farci passar attraverso il dolce.
Un po’ indeciso sul da farsi, appoggiò il dolce sulla superficie ghiacciata del lago, quando improvvisamente una piccola manina, candida come la neve, emerse dal buchino ed afferrò il dolce, che si rimpicciolì e poi sparì sotto il ghiaccio.
Da quel giorno la gente si abituò a portare alla Huldra dei dolcetti piccolissimi, in modo che potessero passare anche attraverso un buchetto molto piccolo, per far un piacere alla bella Huldra.
In Norvegia, quando si vuol fare un complimento ad una donna, si usa dire che ha le mani ‘sottili come quelle dello spirito dell’acqua’

Da:
http://www.albero-della-fiaba.it/fiabe-dal-mondo/fiabe-d-inverno-e-di-natale-p26.html


Il gattino con il gomitolo magico


Frau Holle, "Signora della neve", che scuote il suo bianco piumino lassù nel cielo e fa scendere la neve sulla terra, è anche la Signora degli animali, che ricompensa chi si prende cura di loro.

Una fredda sera d’inverno - mancava poco al Natale - una povera vedova, uscì di casa per andare a fare legna e procurarsi così dei rami secchi per accendere la stufa. La donna era molto povera e tutto il peso del lavoro in casa gravava sulle sue spalle.
Faceva molto freddo quella sera, la terra, ricoperta da una lastra di gelo, scricchiolava sotto i suoi piedi e le bianche lenzuola di Frau Holle, adagiate come un velo su prati e boschi, scintillavano di migliaia di piccoli cristalli lucenti. Ma la donna non aveva tempo di ammirare quel magnifico spettacolo della natura!
La fascina di legna, che portava sulla schiena, in cima alla quale aveva legato un grosso mazzo di saggina, buono per fabbricare scope, si era fatta pesante. La donna camminava a fatica sotto quel grosso peso, trascinando i piedi. A forza di raccogliere legna, aveva ormai le punta delle dita rattrappite dal freddo. Cercò perciò di riscaldarsi soffiandoci sopra un po’ del suo fiato e fregandosi le mani sotto il grembiule. In quel momento sentì un debole miagolio e lungo il bordo della strada scorse un piccolo gattino, un bianco batuffolo, che giaceva sul ceppo di un albero. Il gattino sollevò la sua zampina color grigio argento, poi fece la gobba, si stiracchiò e incominciò a fare tante di quelle moine, che la donna, mossa a compassione, lo accarezzò e gli disse: - Vieni con me, povero gattino, tu stai gelando, e mi sembri malato! Anche se siamo poveri, a casa ci sarà ancora qualcosa per te! Così raccolse il piccolo animaletto miagolante, se lo avvolse nel grembiule e lo portò con cura fino a casa, nonostante il peso che le gravava sulle spalle.
A casa le corsero incontro i suoi due figlioletti. Il più piccolino, sollevandosi sulla punta dei piedi, ficcò il nasino nel grembiule della mamma, per curiosare. – Mammina – disse pieno di fame - dove hai messo il pane per i conigli? –
La povera donna con un nodo in gola accarezzò il piccolino sui capelli e disse tristemente: – Non ho pane per i conigli e nemmeno un po’ di carrube per te, ho solo tanta miseria, e vi porto ancora qualcun altro che è ancor più misero di noi ! –
Ma quando dal grembiule blu sgusciò fuori il piccolo micetto, candido come un fiocco di neve, i bambini si misero a saltare dalla gioia. Portarono il gattino malato nella stube, gli prepararono una cuccetta al caldo vicino alla stufa e divisero con lui il loro ultimo boccone. L’animaletto pian piano si riprese e guarì. Ogni mattina giocava con i bambini ed essi gli si affezionarono un mondo.
Quando si leccava e si puliva le zampette, allora sapevano che sarebbe venuto a salutarli; quando la zuppa scottava troppo per il suo musetto affamato, allora soffiavano sul cucchiaio e dicevano: – Oggi c’è qualcosa nelle lenticchie che al micio proprio non piace! – Insomma lo coccolavano e lo vezzeggiavano proprio!
E se uno di loro cadeva e si faceva male al ginocchio e correva piangendo dalla madre, bastava che lei gli cantasse:

Micino,micetto,
guarisci il mio bimbetto,
ché domani il sole arriverá,
e lui le capriole fará !


… che il bimbo già si sentiva meglio.
Il gattino amava molto rotolarsi nella cenere della stufa e da bianco che era diventava grigio come la nebbia. Poi scappava via, veloce come il vento facendosi rincorrere dai suoi due piccoli amici.
Così passarono le lunghe giornate invernali giocando a rincorrersi allegramente.
Quando arrivò la primavera, ed il fuoco nella stufa si spense del tutto, un mattino al loro risveglio i bambini non trovarono più il micetto, dal pelo candido come la neve ad aspettarli.
Il loro compagno di giochi era sparito, e per quanto lo cercassero dappertutto, non riuscirono a trovarlo.
Il mattino dopo la loro madre dovette andare di nuovo a fare legna nel bosco. E quando passò nel luogo in cui aveva trovato il gattino, quale fu la sua sorpresa, quando vide, proprio nello stesso punto, una figura alta di donna tutta vestita di bianco, che la salutava con un lembo del velo, che sembrava tessuto di aria.
Poi la signora bianca gettò nel grembiule della povera donna una palla bianca e disse: – Questo è per il gatto bianco! –
Accortasi che si trattava di un gomitolo di lana, la donna alzò la testa per ringraziare, ma la bianca apparizione era già scomparsa.
Arrivata a casa, la donna mise il regalo della donna bianca sul tavolo della cucina. E quale fu la sua sorpresa, quando il mattino dopo accanto al gomitolo trovò un bel paio di calze bianche, morbide, già belle pronte e confezionate! E nel gomitolo vi erano infilati dei ferri da calza: erano dei ferri magici, e pure il gomitolo era un gomitolo magico, perché non si esauriva mai.
Ed ogni notte mani invisibili confezionavano delle nuove calze, prima per i bambini, poi per la madre.
Alla fine in quella casa c’era una tale abbondanza di calze e calzini, che poterono anche venderne al mercato e con il ricavato riuscirono a comprare pane, carne e vestiti caldi.
Così finalmente le preoccupazioni della povera madre svanirono per sempre ed ella comprese che la donna bianca altri non era che Frau Holle, che aveva voluto ricompensarla per il bene fatto al gattino.

Liberamente tratta da K. Paetow.

Da:
http://www.albero-della-fiaba.it/fiabe-dal-mondo/fiabe-d-inverno-e-di-natale-p26.html



Una Felice Epifania



In una piccola casetta sulla cima di un monte viveva una famiglia talmente povera che non aveva nemmeno un pezzo di carbone con cui riscaldarsi. I due piccoli bimbi dovevano fare ogni giorno molte ore di cammino per scambiare il latte della loro capretta con un pezzo di pane. Il vecchio padre, dal canto suo, trascorreva tutto il giorno nella buia foresta ai piedi del monte per trovare bacche, funghi selvatici e qualche pezzo di legna da bruciare nel camino. Nonostante tutto ciò la vita nella casetta trascorreva felice. Ogni giorno i fratellini aiutavano la madre nelle faccende di casa e non mancavano di andare a trovare Al, il vecchio saggio che abitava al limitare della foresta. Il saggio aveva girato il mondo e conosceva mille storie che i due fratellini ascoltavano sempre incantati. Un giorno Al raccontò la storia della Fata Epifania, detta anche Befana. ”Dovete sapere” disse schiarendosi la voce, “che nella notte del 5 gennaio, la Fata entra dai camini per lasciare doni ai bimbi buoni”. “Ma come fa ad entrare?” chiese il fratello maggiore. “Basta che Epifania schiocchi le dita e diventa piccolissima” raccontò il vecchio Al. “Come fa a sapere chi è stato buono?” domandò la sorellina. “La Fata tutto vede e tutto sa!”
Un giorno il padre si ammalò. L'inverno quell'anno era talmente rigido che la poca legna accanto al camino era già finita. Una fitta neve cadeva e la casetta era avvolta dal gelo. Erano i primi giorni di gennaio, quando i due fratellini ripensarono al racconto di Al. “Ti ricordi di Epifania, che porta i doni ai bimbi buoni e sacchi di carbone a quelli cattivi?” disse una mattina il fratello maggiore. I due bimbi si guardarono e capirono subito cosa fare. Non aiutarono più la madre in casa, incominciarono a lamentarsi perché non c'era cibo e non trascorreva un momento in cui non litigassero. I poveri genitori non sapevano più; cosa fare.
Era la vigilia dell'Epifania e, prima di andare a letto, i fratellini appesero 2 vecchie calze sul camino. “Domani avremo carbone per scaldarci. Siamo stati davvero cattivi”. L'indomani si alzarono di buon ora, ma come ci rimasero quando videro che le calze erano colme di dolci. “Com'è possibile?” si domandarono stupiti. “Al ha detto che la Fata Epifania tutto vede e tutto sa. Dovevamo trovare carbone”. E infatti era proprio così. Il camino era talmente pieno di carbone che ne ebbero a sufficienza per un anno intero. Epifania aveva infatti capito le intenzioni dei due fratellini.

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sabato 5 gennaio 2013

Frau Holle


Una vedova aveva due figlie. Una era bella e laboriosa, l'altra brutta e pigra. Ma la donna aveva molto più affetto per quella brutta e pigra perché era figlia sua, mentre l'altra era costretta a sbrigare tutte le faccende di casa come una serva, una cenerentola. Tutti i giorni la povera ragazza, seduta accanto al pozzo che c'era sulla via maestra, doveva filare, filare e filare fino a che le dita cominciavano a sanguinarle.
Un giorno successe che il fuso si era tutto imbrattato di sangue e la ragazza si spenzolò nel pozzo per sciacquarlo, ma il fuso le sfuggì di mano e cadde giù. La ragazza si mise a piangere, corse dalla matrigna e le raccontò la disgrazia che le era successa. Ma la donna la rimproverò aspramente e, senza muoversi a pietà, le disse: "Hai fatto cadere il fuso nel pozzo? Bene, e allora ritiralo fuori!". Così, la ragazza tornò al pozzo senza sapere cosa fare; angosciata com'era, non seppe trovare di meglio, per recuperare il fuso, che saltare lei stessa dentro al pozzo. Perse i sensi, e quando si ridestò e tornò in sé, si ritrovò in un bel prato dove il sole splendeva su mille e mille fiori colorati. Prese a camminare e arrivò a un forno pieno di pane; il pane gridava: "Oh, tirami fuori, tirami fuori, se no brucio. È un bel pezzo che son cotto!". La ragazza si avvicinò e con la pala tirò fuori, uno per uno, tutti i pani. Poi riprese il cammino e arrivò vicino a un albero carico di mele; l'albero gridò: "Oh, scuotimi, scuotimi, noialtre mele siamo bell'e mature!" La ragazza scosse l'albero così che le mele caddero a pioggia, e continuò a scuoterlo finche' sulla pianta non rimase un solo frutto. Dopo aver raccolto tutte le mele in un bel mucchio, proseguì per la strada. Alla fine arrivò in vista di una casetta alla quale stava affacciata una vecchia. La ragazza si spaventò perché la donna aveva dei dentoni da non si dire, ma, mentre faceva l'atto di scappar via, la vecchia le rivolse la parola: "Perché hai paura, bambina mia! Resta da me, se farai tutte le faccende di casa a puntino, ti troverai bene! Devi solo stare attenta a rifarmi il letto per bene e a sprimacciarlo a dovere, perché le piume volino via e cada così la neve sulla terra. "Io sono Frau Holle".
Data la gentilezza con cui la vecchia le aveva parlato, la ragazza riprese coraggio, accettò la proposta e si mise al servizio della donna. Svolse tutti i lavori con piena soddisfazione della vecchia e il letto lo sprimacciava sempre con tale energia che le piume volavano all'intorno come fiocchi di neve. In cambio, stava bene in quella casa, mai una parola cattiva, e tutti i giorni in tavola non mancava né il lesso né l'arrosto. Era già un bel pezzo che la ragazza stava da Frau Holle, quando, a un certo punto, cominciò a sentirsi triste. All'inizio non sapeva neppure lei cosa le mancava, ma alla fine si rese conto di avere nostalgia di casa. Benché qui, da Frau Holle, stesse mille volte meglio che a casa sua, sentiva però nostalgia di tornarci. Ne parlò con la vecchia: "Mi è venuta nostalgia di casa, e anche se laggiù non sto bene come qui, non posso restare ancora; devo tornare dai miei". Frau Holle rispose: "Mi fa piacere che tu desideri tornare a casa, e poiché mi hai servito così fedelmente, ti voglio portare lassù io stessa". La prese per mano e la condusse davanti a un grande portone. Questo si aprì, e, appena la ragazza fu sotto la volta, cadde giù una scrosciante pioggia d'oro, e tutto quell'oro, che era davvero tanto, le restò attaccato addosso. "È giusto che tu lo abbia, perché sei stata laboriosa", disse Frau Holle, riconsegnandole anche il fuso che le era caduto nel pozzo. In quel mentre il portone si richiuse e la ragazza si trovò lassù nel mondo, non distante dalla casa della madre. E quando arrivò nel cortile, il galletto che era appollaiato sul pozzo cominciò a cantare:
"Chicchirichì!
La nostra fanciulla tutta d'oro, eccola qui!"

Entrò in casa e, dato che era tutta coperta d'oro, ebbe una buona accoglienza dalla madre e dalla sorella. La ragazza raccontò tutto quello che le era capitato, e quando la madre sentì come le era arrivata tutta quella ricchezza, s'intese di procurare la stessa fortuna alla figlia brutta e pigra. Quest'ultima dovette mettersi accanto al pozzo a filare, e, per sporcare di sangue il fuso, si punse la mano infilandola fra i rovi. Poi gettò il fuso nell'acqua e ci saltò dentro anche lei. Come l'altra arrivò su un bel prato e imboccò il medesimo sentiero. Quando fu in prossimità del forno, ecco il pane che grida: "Oh, tirami fuori, tirami fuori, se no brucio! È un bel pezzo che son cotto". Ma la pigra rispose: "Sì, avessi voglia di sporcarmi!" e tirò avanti. Subito dopo arrivò vicino al melo, che gridò: "Oh, scuotimi, scuotimi, noialtre mele siamo bell'e mature!". Ma lei rispose: "Ma che sei matto, me ne avesse a cascare una in capo!". E tirò dritto. Quando fu davanti alla casa di Frau Holle, non ebbe paura perché sapeva già dei dentoni, e subito si mise al suo servizio. Il primo giorno, facendo forza su se stessa, fu laboriosa ed eseguì tutto quello che Frau Holle le diceva di fare. Il secondo giorno, però, cominciò a bighellonare, e il terzo ancora di più e finì che la mattina non voleva neppure alzarsi. Non rifaceva neanche a dovere il letto di Frau Holle e non lo sprimacciava in modo che le piume volassero via. Tutto ciò non piacque alla vecchia che la licenziò. La pigra ne fu contenta perché pensava che adesso sarebbe stato il momento della pioggia d'oro. Frau Holle condusse anche lei al portone, ma, quando fu sotto la volta, al posto dell'oro, le si riversò addosso un paiolo di pece. "È in ricompensa dei tuoi servigi", disse Frau Holle, e chiuse il portone. La pigra arrivò a casa, ma era coperta di pece, e il galletto sul pozzo, appena la vide, si mise a gridare:
Chicchirichì,
la nostra fanciulla tutta sudicia, eccola qui!"

E la pece le restò attaccata addosso e non volle andarsene finché visse

Da:
http://www.paroledautore.net/fiabe/classiche/grimm/holle.htm