mercoledì 25 maggio 2011

San Guénolé


San Guénolé, (in latino Winwallus o Winwaloeus, in cornico Winwaloe che significa “colui che è chiaro, biondo” o “colui che è bello”, inteso come bellezza interiore che risplende, un po’ come il nome del mitico bardo Gwion Bach, Fronte Luminosa), era figlio di Fracan, principe della Dumnonia e di Santa Gwen Teirbron (Bianca dal Triplo Seno, per tale caratteristica patrona  della fertilità femminile, probabilmente una druidessa poi cristianizzata, il cui nome richiama la Triplice Dea e Branwen, la dea gallese dal bianco seno, la cui storia si trova nei Mabinogion ed è menzionata nelle antiche triadi gallesi come “una delle tre grandi matriarche dell’isola di Britannia”).
La famiglia di Guénolé andò a vivere in Bretagna per fuggire dall’invasione dei Sassoni.
Guenolé nacque nel 460, probabilmente a Plouguin, vicino Saint-Pabu e visse a Ploufragan vicino Saint-Brieuc con i suoi fratelli, Wethnoc e Jacut. Più tardi furono raggiunti da una sorella, Santa Creiwre. Venne istruito da San Budoc, sulll’isola Lavret, nell’arcipelago di Bréhat, vicino a Paimpol.
Fu il fondatore e il primo abate dell’Abbazia di Landévennec nel 485, dove si seguivano le regole del monachesimo irlandese.
San Guénolé si stabilì lì assieme a undici compagni e divenne in breve tempo amico del re Gradlon, figlio di Conan Meriadoc, la cui storia è anch'essa narrata nei Mabinogion nel Sogno di Macsen Wledig, dove è scritto che Conan è fratello della leggendaria Santa Elena, sposa dell’imperatore Magno Massimo (Macsen Wledig, appunto, in gallese). Conan Meriadoc fu il primo re della Cornovaglia francese, regione storica della Bretagna, detta anche Cornouaille, in bretone Kernev o Bro Kernev, corrispondente in gran parte al territorio meridionale dell’attuale dipartimento del Finistère, a un tratto del dipartimento delle Côtes-d’Armor e a un tratto del Morbihan settentrionale.
 La vita di san Guénolé ci è trasmessa dall'abate Wrdistan e dal monaco Clemente, fonte di Wrdistan. Morì il 3 marzo del 532.
Pare che San Guénolé abbia acquisito una reputazione priapica, per via di un’assonanza del suo nome con il verbo engendrer, generare, e per questo divenne un patrono della fertilità (come sua madre, Santa Gwen Teirbron) e uno dei santi fallici, un culto che ha origine dalle pietre fecondative (le pietre viste come nudo parto della Madre Terra) e che poi viene trasferito ai santi. Tra gli esempi di culti fallici, nei santuari di Saint Giles in Normandia e di Saint René nell'Anjou (oggi Maine-et-Loire), le donne dovevano coricarsi per l'intera nottata con le immagini itifalliche di questi due santi nella speranza di restare incinte, oppure una sposa brahmana è tenuta, durante la cerimonia, 
con l'idea di assorbire la fermezza della pietra, a camminare con il piede destro mentre le vengono recitate queste parole: “Cammina su questa pietra; come una pietra sii salda”. Tale rito indù recupera notevoli affinità con quelli eseguiti nei pressi di Rennes, in Bretagna, dove la donna cristiana desiderosa di figli saltava sulla cosiddetta Pietra delle Spose o si coricava, a Saint-Renan, per tre notti sopra una grande roccia denominata “la cavalla di pietra”. Santi fallici, patroni della virilità, erano anche Cosma e Damiano, invocati ad Isernia dagli uomini con problemi sessuali.
San Guénolé e il re Gradlon sono legati alla famosa leggenda bretone della città d’Ys:

La leggenda d'Ys
In quei tempi, Gradlon il Grande, re della Cornouaille, nel sud-ovest della Bretagna, fece costruire per sua figlia Dahut la meravigliosa città di Ys. Trovandosi sotto il livello del mare, Ys era protetta da una moltitudine di dighe. Una chiave chiudeva le porte della diga e solo Gradlon avrebbe potuto decidere di aprirle o chiuderle, permettendo agli abitanti di pescare.
La giovane Dahut, molto devota al culto degli antichi déi celti, accusò Correntin, vescovo di Quimper, di aver reso la città triste e noiosa. Lei sognava una città dove regnasse ricchezza, libertà e gioia di vivere.
Così, Dahut donò alla città un dragone che osservava tutte le navi mercantili. In questo modo, Ys divenne la città più ricca e potente di tutte le città brétoni. Dahut vi regnò con assoluta maestria in nome dell'antica religione dei Celti. Ogni sera, ella faceva venire un nuovo amante al palazzo che a sua volta portava una maschera di seta, ma la maschera era incantata e, all'alba, l'amante si trasformava in unghie di ferro. Così Dahut uccideva i suoi amanti, i cui corpi venivano gettati in una scogliera dell'oceano.
Un bel mattino, un principe vestito tutto di rosso arrivò in città. Dahut si innamorò immediatamente dello straniero. Ma era il diavolo che Dio inviò per distruggere la città di pescatori. Per amore di lui, gli donò la chiave che rubò al padre mentre dormiva. Il principe aprì le dighe e l'oceano distrusse con furia la città passando per le strade e soffocando ogni grido di paura degli abitanti.
Solo il re Gradlon riuscì a scappare da quell'inferno grazie all'aiuto di san Guenolé. Sul suo cavallo marino, si mise a cavalcare nel vuoto, con un peso che non era altro che sua figlia. Con il permesso di san Guenolé, abbandonò il corpo di sua figlia e riuscì a raggiungere la riva.
Ancora oggi, quando il mare è calmo, dei pescatori ascoltano le campane che dicono che Ys un giorno tornerà, più bella che mai.

Dahut era indubbiamente una druidessa che aderiva all’antica religione, poi trasformata in strega malvagia dagli scrittori cristiani. In un’altra versione Guénolé la tramuta in sirena mentre ella sta andando a fondo tra le onde, dimostrando così che le sue arti magiche sono efficaci quanto quelle di qualsiasi druido. La trasformazione di Dahut in sirena da parte di un santo ricorda una leggenda gallese in cui San Patrizio trasformò in pesci delle persone che lo deridevano, quando si trovava presso il lago di Crumlyn, vicino al villaggio di Briton Ferry, nel Galles, ma tra loro c’erano anche delle donne che furono invece trasformate in fate o spiriti delle acque, le Gwragedd Annwn. La trasformazione di donne in Gwragged Annwn da parte di San Patrizio si ritrova uguale anche in relazione ad altri laghi, tra i quali Llyn Barfog (Lago di Barfog, chiamato anche Bearded Lake, Lago del Barbuto), vicino ad Aberdovey, sempre nel Galles.
Anche la madre di Dahut, Malgven, era una strega e druidessa che seguiva l’antica religione. Si diceva che appartenesse alla razza fatata e divina dei Tuatha Dé Danann. Altri dicevano che fosse una strega e una regina del nord del popolo dei Pitti, in Scozia.
Era la moglie di un uomo vecchio che, secondo la leggenda, Gradlon uccise, trafiggendolo con la sua spada, poi la sposò e divenne re a sua volta. Lei gli donò Morvac’h, ("cavallo del mare"), il quale poteva galoppare sulla superficie del mare. Si raccontava che fosse nero e che
quando galoppava dalle sue narici uscisse il fuoco. Morvac’h compare anche nella leggenda del re Marc'h di Cornovaglia. 
Questi elementi mi richiamano la dea e fata gallese Rhiannon, promessa a un uomo del suo regno fatato, Gwawl, ma che poi sposa un re mortale, Pwyll; non solo, anch'essa possedeva un cavallo magico e quando rimase vedova, sposò in seconde nozze Manannan ap Llyr dell’isola di Man, versione gallese del dio irlandese Manawyddan, un dio del mare che abitava in un regno sottomarino e che perciò ricorda anch’egli re Gradlon. Il collegamento tra dee che hanno come animale totemico il cavallo e dei del mare è un motivo ricorrente nei miti.
Secondo Maria di Francia, poetessa della seconda metà del XII secolo, un giorno la vanagloria di Gradlon recò un grande dispiacere a colei che amava, ed ella fuggì; Gradlon si lanciò al suo inseguimento e, quando la raggiunse sulla riva di un fiume, ella gli disse che se avesse tentato di attraversare il fiume per riprenderla, sarebbe annegato.
proferendo tali parole la bella fata si tuffò e, veloce come una saetta, guadagnò l'altra riva mentre Gradlon - incurante del pericolo - si gettò egli stesso a nuoto: i flutti, provocati, divennero minacciosi e gli sforzi del re per lottare contro di essi erano vani; Gradlon stava già per morire quando la fata, commossa dall'intrepidezza di colui che amava nonostante fosse stata abbandonata, tornò verso di lui e lo salvò.
Ma - ahimè - il re è incostante e, qualche anno dopo, dimentica la fata che lo ha salvato.
Gradlon diede il primo vescovo alla Cornovaglia, San Corentin, il quale abitava nella foresta sul Ménez-Hom, nel luogo dove oggi si trova Ploumodiern. Nei pressi del suo eremo scaturiva una sorgente d'acqua cristallina, ove viveva un pesce miracoloso di cui ogni giorno Corentin - per nutrirsi tagliava un pezzo che poi, immediatamente, ricresceva. Un giorno Gradlon, che si era smarrito, durante una battuta di caccia, arrivò letteralmente sfinito per la fame e la stanchezza davanti alla dimora di Corentin il quale - afferma la leggenda - lo fece riposare e lo rifocillò con il suo pesce; e fu senza dubbio per riconoscenza di tale ospitalità che Gradlon nominò Corentin vescovo di Cornovaglia.
Dicono che Dahut, il cui nome significa “la buona magia” (chiamata anche Dahud, Ahes, Ahès, Ahe e Marie-morgan), sia nata in mezzo al mare e che sua madre sia morta dandola alla luce, dopo aver vagato con il suo sposo per un intero anno, infatti Marie-morgan significa “nata dal mare”, come il nome di Morgana, la fata sacerdotessa di Avalon con la quale Dahut presenta molte analogie.
Una credenza diffusa tra quelle popolazioni dice che la città d’Ys riemergerà un giorno per riportare ciò che è stato alla luce.
Si disse anche che il re Gradlon, perduta ogni cosa, riparò a Kemper (l’attuale Quimper) e vi fondò un tempio dove ritirarsi. Le origini dell’attuale cattedrale di Quimper, ricca tra l’altro di simbolismi esoterici pre-cristiani, vengono fatte risalire al re Gradlon della città d’Ys.
La leggenda si ricollega anche a quelle di altre mitiche città o di intere civiltà distrutte da un’inondazione, come quella di Atlantide.
Sia l’isola d’Ys sia quella di Avalon si dice che esistano ancora, l’una celata dal mare e l’altra dalle nebbie, entrambe dietro veli illusori resi sempre più fitti da secoli di oscurantismo religioso in cui prevalgono il Dio unico delle principali religioni monoteiste o la Dea Ragione degli Illuministi. Nelle leggende celtiche si parla di diversi luoghi dell’Altromondo in cui non esistono né dolore, né povertà, né malattia, né vecchiaia, né morte, pensiamo anche al Sidhe, il regno del popolo fatato che si trova all’interno delle colline irlandesi.
Il principe vestito di rosso si potrebbe anche considerarlo un druido o un essere fatato che ha operato una magia per nascondere 
a chi vuole imporre la nuova religione cristiana, la città dove gli antichi Dei vengono ancora onorati.
San Guénolé, però, alla luce di quel poco che ho appreso di lui, non credo fosse un monaco intransigente o despota, probabilmente ha semplicemente permesso che Dahut si ritirasse in una terra di pace e di gioia, libera di vivere la fede in cui crede.
È interessante notare che le tradizioni concernenti Dahut nell’area di Pointe du Raz, non distante dalla quale si suppone fosse situata Ys, sono quelle che dipingono Dahut come una “strega buona”. Inoltre, la Baie des Trépassés (Baia dei Morti) poco distante da Pointe du Raz, si trova di fronte all’isola di Sein, l’isola delle nove Gallinacee, le sacerdotesse cui fa riferimento Pomponio Mela.
Il nome di questa spiaggia deriva dalla deformazione di “boe an aon” (baia del ruscello) in “boe an anaon” (baia delle anime in pena) poiché un tempo la baia serviva da estuario al ruscello che sbocca oggi nella vicina palude.
Si pensa che la baia servisse come punto d'imbarco per le spoglie dei druidi che venivano portate all'isola di Sein per essere inumate.
La valle della baia è oggi occupata da una palude.
Secondo Jean Markale:
“Oltre a rappresentare il mondo pagano in opposizione a quello cristiano, Dahut è anche simbolo della ribellione contro l’autorità maschile… Il significato pieno del suo agire si chiarisce considerando la sua vita dissoluta come opposta agli insegnamenti della Chiesa Cristiana, qui rappresentata da San Guénolé, a sua volta autentico simbolo dell’autorità maschile”.
Vi è però una storia che parla dell’amicizia tra il santo e un druido nella Vita di San Guénolé che lo presenta come una persona mite e conciliante, scritta nel nono secolo da Wrdistan, un monaco di Landévennec. La tradizione registrata da Wrdistan dimostra che nella Bretagna del sesto secolo i druidi, come antichi aderenti a una religione ormai morta, erano già scomparsi. Significativamente, però, essi sono dipinti in modo molto benevolo.
La storia vede tra i protagonisti, ancora una volta, re Gradlon, il quale sta per morire e manda a chiamare Guénolé. Quando il monaco si reca dal re, trova presso di lui anche un druido. Gradlon dice al monaco di non essere duro con lui, perché il druido conosce la profondità della sofferenza: “Le malattie che io ho sopportato non sono nulla in confronto alle agonie attraverso le quali egli è passato… egli ha perso i suoi dei! Quale dolore può eguagliare un tale dolore? Una volta egli era un druido; ora piange una religione morta”.
Gradlon muore, e sia il monaco cristiano sia “l’ultimo veneratore dei Teutatès” intonano salmi e inni funebri. Il mattino, il corpo di Gradlon viene lavato presso una sorgente vicina e avvolto in lino profumato con verbena, pronto per essere portato a Landévennec. Il druido allora si rivolge a Guénolé come a un fratello, “perché non siamo forse stati generati da avi comuni?” Il druido chiede a Guénolé di fare innalzare in quel luogo una chiesa dedicata “all’Addolorata Madre del tuo Dio”, così che le persone malate possano trovarvi la salute e “quelle oppresse la pace”:
“C’era un tempo, quando io ero giovane, in cui qui si ergeva un blocco di granito rosso. Il suo tocco dava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la speranza ai cuori in angoscia. Possa il santuario che tu innalzi ereditare le medesime virtù; questo è il mio desiderio, il desiderio di un uomo conquistato ma rassegnato ai tempi che cambiano, di un uomo che non prova né amarezza né odio. Ho parlato”.
Ci viene detto che Guénolé provava una grande simpatia per il druido, nonostante fosse sorta una piccola discussione teologica quando il santo cristiano si era offerto di insegnargli la “Parola di Vita” ed il druido aveva rifiutato: indicando il cielo azzurro, egli aveva osservato che quando sarebbe venuto il momento per l’uno o per l’altro di passare all’aldilà, uno dei due avrebbe potuto scoprire “che forse non vi è nulla al di fuori di un grande errore”. Guénolé si era scandalizzato. “Credere è sapere”, aveva risposto alla maniera dei cristiani.
La sua compassione nei confronti del druido lo portò a offrirgli un rifugio nell’abbazia di Landévennec. Il druido declinò, dicendo che preferiva i suoi “sentieri boscosi”. “Non è forse vero che tutte le strade conducono ad un unico grande punto centrale?” fu la sua battuta di congedo. È una filosofia che il nostro mondo moderno, nella sua intolleranza, trova difficile da accettare.
L’incontro con quello che simbolicamente è l’ultimo druido di Bretagna, descritto da un monaco cristiano del nono secolo, è affascinante perché dimostra che i druidi venivano ancora considerati degni di rispetto dai cristiani, che nei tempi a venire avrebbero invece dimostrato mancanza di comprensione e di tolleranza

Da: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis

http://www.celticworld.it/sh_wiki.php?act=sh_art&iart=644
http://www.houseofnames.com/wiki/celtic-saints
http://en.wikipedia.org/wiki/Winwaloe

giovedì 19 maggio 2011

Canzone di Amairgen


Quando i Túatha Dé Danann vennero sconfitti dai mortali, fu decisiva la magia del grande druido e bardo Amairgen che andò dalla barca alla spiaggia e cantò una canzone, rivolgendosi alla terra d’Irlanda. I sortilegi dei Túatha dé Danann si spezzarono di fronte all’ispirazione del poeta. Questa canzone salvifica rimarrà nota come la Canzone di Amairgen. Vi si trovano 13 immagini che si possono collegare all’anno lunare del Calendario di Coligny.

Canzone di Amairgen – dal Leabhar Gabhàla
(fonte: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis)

Io sono il Vento che soffia sul mare;
Sono l’Onda dell’Oceano;
Sono il Mormorio dei Flutti;
Sono il Toro delle Sette Battaglie;
Sono il Rapace sulla Rocca;
Sono un Raggio del Sole;
Sono il più Bello dei Fiori;
Sono un Cinghiale Coraggioso;
Sono un Salmone nel Fiume;
Sono un Lago nella Pianura;
Sono l’Abilità dell’Artigiano;
Sono una Parola di Scienza;
Sono la Lancia che dà Battaglia;
Sono il dio che crea nella mente dell’uomo il Fuoco del Pensiero;
Chi dà luce all’assemblea sulla montagna, se non io?
Chi può dire quale sia l’età della luna, se non io?
Chi può indicare il luogo dove il sole va a riposare, se non io?
Chi richiama gli armenti dalla Casa di Tetra?
A chi sorridono gli armenti di Tetra?
Chi è il dio che forgia gli incantesimi -
- l’incantesimo della battaglia ed il vento del mutamento?


I - La Scogliera
(30 ottobre – 25 novembre)
Am fuaim mara

Benvenuta, Luna della Scogliera! L’anno varca il confine tra
Luce e Oscurità, le forze della crescita dormiranno sui mari
dell’Altromondo. Anche noi ci volgiamo all’interno, per riempire
le nostre anime del buio nutriente oltre il nostro sé

Ora che le comunità di lingua celtica sono state spinte a ovest fin sulla stretta “fascia celtica” lungo la costa atlantica, quel rumore echeggia costantemente nella coscienza di quelle genti ed è entrato a far parte dei canti e delle storie dei popoli celtici, così come le onde battono incessantemente (specie nel silenzio invernale) contro le alte scogliere dell’Irlanda occidentale e delle Ebridi esterne, in Cornovaglia e nel Galles sud-occidentale.
Ma anche quando i paesi celtici si stendevano nel cuore dell’entroterra fra regioni di foreste e di montagne, la costa marina esercitava una forte attrazione sulla loro immaginazione. Era il confine tra il nostro mondo e l’Altromondo, poiché salpando verso occidente e attraverso l’oceano si lasciavano dietro di sé le sicurezze della vita terrena, e sarebbero ben presto giunti a contemplare la reale immensità di quel piano di esistenza liquido ed essenzialmente non umano- anche se la nostra realtà quotidiana è ben poca cosa se paragonata al potenziale illimitato dell’Altromondo da cui proviene.
Gli antichi Celti guardavano a Ovest verso il Morimarousa, l’oceano primordiale che all’inizio dei tempi aveva partorito le solide terre su cui vivono gli umani, e credevano che i morti, nel loro viaggio di ritorno verso l’Altromondo, passassero prima attraverso la dissoluzione in quel mare. Nel famoso aneddoto riportato dal cronista del sesto secolo Procopio, ci viene detto che alcuni abitanti della costa atlantica fungevano da traghettatori per i defunti. Svegliati a mezzanotte da un richiamo misterioso, essi saltavano verso ovest con un carico di passeggeri invisibili. Dopo un giorno e una notte di viaggio, raggiungevano un’isola in cui sbarcava la folla invisibile (alleggerendo sensibilmente l’imbarcazione), mentre una voce disincarnata li chiamava per nome e discendenza. La tradizione irlandese è coerente con questo modello: si credeva che i morti ricercassero dapprima un piccolo gruppo di isole chiamate Teach Duinn (Casa di Donn) al largo della costa sud-occidentale d’Irlanda, dove Donn, uno dei figli di Mil (antenati dei Gaeli moderni) aveva incontrato la morte trasformandosi così nel Dio dei Morti, il capo che da quel momento in avanti avrebbe incontrato tutti i defunti d’Irlanda. Dopo aver soggiornato per un certo periodo nel suo regno, i defunti proseguivano verso altre parti dell’Altromondo.
Questa luna ci porta verso il cuore dell’oscurità dove i confini, divenuti invisibili, si dissolvono infine dalla nostra coscienza e ci mettiamo a disposizione del potenziale di fertilità dell’Altromondo. Così preparati, ci prepariamo all’esperienza di giamos.


II -  La Marea
(26 novembre – 23 dicembre)
Am tond trethan

Benvenuta, Luna della Marea! L’oscurità ha raggiunto il suo apice
e spazza via i resti dell’anno passato. Noi spazziamo via tutti i ricordi
di errori passati e ci prepariamo al nuovo inizio.

Non si tratta più dell’acqua che batte contro la scogliera, ma di un’onda che scorre libera, parte del vasto e misterioso movimento del regno marino. Nella tradizione irlandese l’espressione thar naoi dtonn (“oltre le nove onde”) definisce il punto in cui le leggi stabilite sulla terra devono lasciare il posto all’imprevedibile fluidità dell’oceano dell’Altromondo. L’onda dell’oceano, ritirandosi dalla riva, ci porta nelle profondità più remote, nella misteriosa Casa di Tethra che è la reale dimora dei poteri dei Fomori. Si tratta di un luogo pericoloso (qualsiasi luogo subacqueo è per definizione ostile agli umani che necessitano di respirare, a meno che non prendano precauzioni speciali), ma è anche la fonte di ogni fertilità, il primo collegamento della grande catena della vita; se si viaggia fin lì si troverà il potere vivificante che sta dietro alla maschera della morte. Al termine del suo canto Amairgen chiede: Cia beir buar o thig Tethrach? (“Chi porterà il bestiame dalla casa di Tethra?”) Un’antica tradizione sostiene che questo bestiame siano in realtà le stelle che sorgono dal mare, ma nel contesto dell’invocazione di Amairgen sono ovviamente qualcosa di più delle stelle fisicamente presenti nel cielo. Un bardo come Amairgen che ha viaggiato nel buio della casa di Tethra ed è riuscito a tornare sarà in grado di richiamare dall’inconscio immagini che danno la vita, così come le stelle emergono dall’abisso ogni notte sul percorso a mo’ di ruota che tracciano nei cieli. Il buar Tethrach è la ricompensa finale per coloro che rischiano se stessi nel mondo al di là della coscienza; e le leggende di tutto il mondo celtico che parlano di bestiame magico che esce dalle profondità acquatiche riflettono proprio questo motivo.
Nel corso della stagione oscura, con le forze della crescita immobilizzate, si può dire che l’anno soggiorni nella Casa di Tethra. Ma per prepararsi alla rinascita, i ricordi negativi del passato non devono essere proiettati sull’oscurità. Non si deve consentire ai veleni di restare nel terreno in cui germoglieranno i semi. L’onda che ci porta via dalla terra fin nelle buie profondità deve anche lavare via da noi la contaminazione del ciclo passato, così che possiamo giungere al ventre della rinascita purificati da ogni negatività.


III - Il Cervo
(23 dicembre – 20 gennaio)
Am dam secht nd’írend

Benvenuta, Luna del Cervo! Il cervo degli déi balza fuori dalla fredda foresta,
una scintilla di luce solare brilla tra le sue corna.
Portiamo le nostre menti a seguire la luce che cresce e ci guida
attraverso tempi oscuri
.

Alcuni fra i primi studiosi hanno tradotto questa frase con “Sono un toro dei sette combattimenti”, poiché dam può significare sia “bue” che “toro” o “cervo”. Il termine dam pare designasse in origine la natura bellicosa di questi animali, e veniva applicato metaforicamente ai guerrieri umani. Nella parlata irlandese moderna, damh ha finito per significare quasi sempre e solo “bue”; è andato perciò perso il suo antico collegamento con la lotta alla vittoria.
Il Cervo è il primo dei quattro animali sacri citati da Amairgen. Pare esistere uno stretto rapporto tra il Cervo e il Cinghiale: entrambi sono creature dell’Altromondo che varcano i confini tra i mondi con facilità, fungendo spesso da messaggeri o guide tra una parte e l’altra del confine. Proprio come il cinghiale bianco condusse Pryderi nella trappola dell’Altromondo architettata da Llwyd ap Cil Coed nel Terzo Ramo dei Mabinogi, così la caccia al Cervo Maschio inaugura gli eventi magici in Geraint ac Enid e nella sua controparte continentale, Érec). Insieme a questa somiglianza di ruolo abbiamo visto che esiste anche una complementarietà: quando uno dei due animali è associato con la metà “giorno” dell’esistenza, all’altro viene data la metà “notte”.  E così, quando il Cinghiale si insedia nell’Altromondo dopo Beltane egli diviene un animale solare col dono della saggezza poetica, mentre il Cervo è legato alla terra verde e interiormente in crescita, proprio come Cernunnos che viene sospinto nelle foreste del nostro mondo e inizia la crescita delle sue corna. E dopo Samhain, quando il Cinghiale (ora una Scrofa) vaga sulla terra desolata nella forma del temibile Hwch Ddu Gwta, il Cervo si trova nei regni celesti come presenza luminosa, a portare la speranza.
Quest’ultima veste del Cervo è familiare nel folklore: numerose leggende locali (in particolare quelle associate a Sant’Eustachio e Sant’Uberto) parlano di un cervo meraviglioso dalle corna luminose la cui apparizione porta il miglioramento negli affari umani. Nel contesto che ci interessa, egli è il messaggero più appropriato per il grande cambiamento che avverrà dopo il Solstizio d’Inverno. Nonostante la terra rimanga buia e senza frutti e le notti siano ancora molto più lunghe dei giorni, la luce ha iniziato a crescere in modo impercettibile. Ci troviamo ancora nell’abisso della modalità giamos, ma una scintilla brilla di fronte a noi ricordandoci di non perdere il contatto con la forza vitale, poiché vivremo ancora nella luce. Sarà nostra guida il “cervo con corna di sette punte” che ha attraversato molti cicli di crescita e decadimento ed è sempre riuscito ad aprirsi la strada verso un nuovo trionfo della vita.
Man mano che la luna cresce, contempliamo allora la luce – senza associarla a un qualche significato o scopo, ma puramente come fenomeno luminoso che brilla oltre l’oscurità in cui si trovano ora immobili i nostri spiriti.


IV - Il Diluvio
(21 gennaio – 17 febbraio)
Am loch i m-maig

Benvenuta, Luna del Diluvio! Pioggia e neve coprono la terra d’acqua,
il duro terreno avrà il suo disgelo che lo trasformerà in fango fertile
dove potranno germogliare i semi.
Qualsiasi parte di noi che sia congelata e rifiuti di crescere
deve lasciare il posto al dissolvimento benedetto del Diluvio


Come molti altri poeti, i Celti avevano un mito del diluvio; e come in altri miti di questo genere, l’evento era raffigurato in modo ambiguo, sia come un disastro che come una fonte di buone cose. Tutta l’acqua (cioè l’essenza della fertilità) appartiene alle divinità fomoriche, che la mantengono nel mondo sottostante. Se l’acqua non fosse sfuggita al regno dei Fomori per un incidente o appositamente, nel mondo superiore non esisterebbero laghi e fiumi per l’irrigazione. È quasi sempre una figura femminile a catalizzare l’evento. Probabilmente la versione più famosa di questo mito nella tradizione celtica è il racconto irlandese del Pozzo di Segais.
Questo pozzo apparteneva a Nechtan (“Grande Nipote), il cui nome proviene dalla stessa radice del latino Neptunus (Nettuno era un dio delle fonti prima di essere assimilato al greco Poseidone, trasformandosi così in un dio del mare) e si riferisce in genere all’antico concetto indoeuropeo del dominatore dell’acqua come “Nipote delle Acque”. Sul pozzo di Nechtan facevano ombra i nove noccioli della saggezza, i cui frutti cadevano nell’acqua e le davano la qualità dell’illuminazione divina, molto ricercata dai bardi (le nocciole sono inoltre mangiate dal salmone nello stagno, impregnando la sua carne della stessa qualità). Soltanto Nechtan e i suoi tre coppieri Fleasc, Lamh e Luamh avevano il permesso di avvicinarsi al pozzo. Ma la dea Boann (Bó-fhionn, la “Mucca Bianca”) desiderò bere dal pozzo per aumentare il proprio potere. Si avvicinò a esso in segreto, ma il pozzo esplose di fronte alla sua presenza non autorizzata e inondò la terra, scorrendo infine verso il mare nella forma del fiume Boyne, in cui lo spirito di Boann avrebbe dimorato di lì in avanti. La stessa storia si raccontava circa le origini degli altri fiumi (fra cui lo Shannon), ma il Boyne era chiaramente considerato il primo e principale tra tutti i fiumi, addirittura il Drumchla Daimh Díle (“Tetto dei Diluvi”), fonte reale di tutti i fiumi del mondo; in tal senso, il mito della sua origine deve essere considerato come il mito dell’origine di tutte le acque. E sebbene a un certo livello la storia sembri terminare tragicamente per Boann, il cui piano era stato sventato, in realtà ella assume il ruolo di nutrice e di donatrice di vita della Dea-Terra favorevole alla Tribù umana. Boann pare incarnare il ruolo di un Prometeo femminile che ruba tesori vitali dal regno degli déi per renderli accessibili ai mortali.
Dato che durante questo periodo lunare si celebra la festa di Imbolc, e poiché Brigid è la stessa Dea-Terra la cui energia ispira la Tribù, è idoneo considerare la sua mitologia accanto alla storia del diluvio e osservare i riferimenti incrociati che appaiono. Nella tradizione celtica il collegamento di fuoco e acqua (due opposti apparentemente polari) diviene la rappresentazione simbolica primaria della fertilità e della guarigione. Brigid accende il fuoco nella terra (ed è anche il potere del sole che dà la vita), ma è inoltre la custode delle falde acquifere della Terra, e invia fiumi e sorgenti a compiere la loro missione di fertilità. Brigid è quindi patrona sia del fuoco che dell’acqua, e trae da questo i suoi attributi. Va notato che anche i “Nipoti delle Acque” della cultura vedica e persiana (legati a Nechtan dalle stesse radici indoeuropee) esprimono questa stessa idea di “fuoco nell’acqua”.
L’ultima, lunga parte della metamorfosi invernale che porta alla primavera è solitamente un periodo di neve e di pioggia abbondanti. Man mano che i giorni si allungano e la maggiore quantità di luce impedisce al gelo di entrare nelle profondità della terra, quest’abbondanza d’acqua riesce a percolare nel terreno, ammorbidendone la composizione e preparandolo a nutrire le piante che si stanno lentamente risvegliando. E in effetti, poco tempo dopo la scomparsa di questa luna, iniziamo a vedere i primi segni del risveglio: crocus e narcisi selvatici emergono tra la fanghiglia del disgelo. Tradotto nei termini del nostro mondo interiore, utilizziamo le proprietà acquose di questa stagione per compiere il disgelo nei nostri spiriti, conducendoli fuori dalla loro rigidità invernale e preparandoli per la modalità samos di crescita e di espansione.
Così, mano a mano che la luna cresce, acquisiamo consapevolezza della raccolta delle acque nelle profondità amorfe e senza dimensione della Casa di Tethra; percepiamo la loro crescente  pressione contro la barriera di terreno inerte, la loro brama di esprimere una manifestazione cosciente
.

V - Il Vento
(18 febbraio – 17 marzo)
Am gaeth i m-muir

Benvenuta, Luna del Vento!
Forti venti soffiano sulla terra desolata
animando di vita le acque col loro respiro.
facendo di noi strumento di creazione

Forti venti si alzano man mano che l’anno si sposta verso l’Equinozio. Il “vento pazzo di marzo” spazza via le foglie e i rami morti che ingombrano la superficie del terreno, esponendone una parte più grande alla luce crescente; tutto questo ha però anche un significato mitologico. In molte culture, il concetto dello spirito è collegato metaforicamente al respiro: il latino spiritus, per esempio, e l’ebraico ruach, che nel resoconto biblico della creazione “aleggia sopra le acque”; il vento che somiglia al respiro di un essere vivente è in realtà il soffio di vita di un grande Potere che sta dietro all’intero mondo naturale, ed è così manifestazione anche del suo aspetto creativo. I Celti condividevano questo linguaggio simbolico (l’antico celtico anatlon, “respiro” è chiaramente collegato ad anatiâ, “anima”), di modo tale che, in termini mitologici, una forte folata di vento indica l’infusione dell’anima e del potere creativo. Nel Lebor Gabála i Tuatha Dé Danann, che sono déi della creatività cosciente, appaiono improvvisamente in Irlanda provenienti dall’aria, su nuvole portate dal vento. Nel Preiddeu Annwn, il Calderone dell’Altromondo della creatività viene alimentato (“ispirato”) dal respiro delle nove fanciulle (o anadyl naw morwyn) che sono la Dea manifestata in nove aspetti.
Seguendo la sequenza di questo immaginario nel conto delle nostre lune, scopriamo che il “vento sul mare” segue in modo logico la manifestazione del lago nella pianura. Le acque sono sfuggite dall’abisso fomorico portando l’essenza della fertilità nella luce del giorno, ma rimangono inerti, senza direzione né scopo. Ora lo spirito, il Vento Divino, deve insufflarsi nel loro fertile potenziale, instillando nelle acque l’idea della crescita. Dal punto di vista della nostra reazione soggettiva a questo punto del ciclo annuale, dobbiamo consentire al nostro sé interiore, scongelato e irrigato dall’esperienza della luna precedente, di aprirsi al dono dello Spirito. Ora siamo pronti a contemplare la creatività futura, il ritorno dell’azione cosciente.
Con questa luna quindi, ritorniamo nuovamente alla vita ricevendo il Soffio Divino, che ci prepara per la prossima lunazione.
Mentre la luna cresce, diveniamo consapevoli dell’assemblea dei venti, i quali soffiano da quelle regioni dell’Altromondo in cui ha sede l’energia samos. Inseguendo le nuvole scure delle tempeste di marzo, essi portano con sé gli dei della coscienza e della personalità, le divinità dell’attività manifesta. Con la luna piena percepiamo appieno la portata del vento su di noi, assaporiamo la vita che respira dentro di noi, il potere che esso ci conferisce, così perfettamente idoneo ai contenitori psichici che abbiamo preparato. E mentre la luna cala, continuiamo a far entrare in noi lo Spirito col nostro respiro, raccogliendo e compattando la nostra forza per il nuovo ciclo di lavoro che sta per arrivare
.

VI - La Lacrima Solare
(18 marzo – 14 aprile)
Am dér gréne

Benvenuta, Luna della Lacrima Solare!
I primi giorni di calda luce irrompono nel tempo del freddo,
la terra è sveglia, giovani germogli si distendono verso il sole.
Tracciamo i nostri sogni nella luce
.

Passato l’equinozio, nella seconda metà del trimestre primaverile trova alfine piena realizzazione l’invocazione del fuoco. L’acqua, supporto necessario della vita, si è diffusa sulla Terra, ricevendo quindi un’anima (seme) dallo Spirito dei venti divini. Questo seme ora nasce, si manifesta, e si apre al nutrimento appassionato della fiamma solare.
Il fuoco nell’acqua è la metafora principale della guarigione, dell’energia di affermazione della vita nella tradizione celtica. A questo punto dell’anno, il fuoco viene a vivificare l’inerte freschezza dell’acqua, a trasformare la vita potenziale in vita reale, fungendo da catalizzatore di nascita. Una goccia liquida, una lacrima caduta dal sole esprime le amichevoli qualità di questo fuoco in forma acquea.
I germogli appena risvegliati, bucando il disgelo del terreno alla ricerca del sole, sono come versioni condensate, abbreviazioni delle piante che diverranno in futuro, quando fusto, rami, foglie e fiori si saranno differenziati e avranno assunto le loro proprie funzioni. Così i nostri progetti creativi devono ora esistere in forma immaginativa (programma dei nostri scopi), prima di poter assumere la forma materiale prodotta dall’interazione della nostra volontà con le circostanze del mondo. Ciò che creiamo deve esprimere i nostri desideri più profondi, quello che la nostra natura essenziale brama ardentemente, ciò che darà vita ai nostri talenti nel modo più autentico: per scoprirlo dobbiamo usare il potere della nostra immaginazione, il Calderone su cui hanno soffiato le nove incarnazioni della Dea e che è ora riscaldato dalla fiamma solare. Facciamo uno sforzo per esporre le regioni oscure in cui sono nati i nostri sogni alla luce del giorno, al principio samos, così che i desideri possano rivelarsi come immagini che diverranno poi il fulcro
di attività creativa.
Così, man mano che la luna cresce, percepiamo il confortevole calore del sole filtrare nel nostro essere, nella forma di una grande goccia di fuoco liquido. Durante la luna piena lasciamoci scaldare e illuminare completamente, invitando quella chiarezza a raggiungere i recessi più oscuri delle nostre anime, senza temere nulla. Durante la luna calante osserviamo ciò che abbiamo liberato sorgere dalle profondità fomoriche e aprirsi alla vita
.

VII Il Falco
(15 aprile – 12 maggio)
Am séig i n-aill

Benvenuta, Luna del Falco!
L’araldo dell’estate è là fuori sulla Terra,
i fiori si gonfiano ed esplodono, l’inverno arretra.
Diveniamo campioni-guerrieri della luce,
aprendo la strada ad un gioioso trionfo dentro di no.

Il Falco è il secondo dei quattro animali sacri citati nella composizione di Amairgen. In altri contesti al suo posto vi è solitamente un’aquila, come nelle storie di Fintan Mac Bóchra e Tuan Mac Cairill; ma l’antico termine irlandese séig pare denotasse una varietà di uccelli da preda, fra cui probabilmente l’aquila. Siamo di nuovo di fronte a una rupe, confine tra le metà luminosa e oscura dell’anno, poiché in questo mese attraversiamo di nuovo tale barriera. Ma le sue caratteristiche sono cambiate: invece della tetra scogliera marina su cui battono le onde, protesa sulla buia incertezza dell’oceano invernale, esso ora porta alla sicurezza della terra fertile e illuminata dal sole, e vi si posa il Falco della coscienza risvegliata – come quello che videro Mael Dúin e i suoi compagni mentre facevano vela sui mari dell’Altromondo, il Falco di una delle ultime isole che visitarono e da cui seppero di essere vicini alla nativa Irlanda.
I falchi appaiono con ruoli diversi nella tradizione celtica: il figlio che Brigid ha avuto da Bres Mac Elathan si chiama Ruadhán (“il Rosso”), che può anche significare “gheppio” o “sparviero” (e potrebbe esserci molto di più di quanto appare nello sparviero offerto come nobile premio nel racconto Geraint ac Enid). Ma forse il riferimento più significativo è quello del nome Gwalchmai (“Falco di Maggio”), uno dei principali compagni di Artù nella tradizione gallese. Gwalchmai assiste l’eroe Culhwch nel conquistare la Fanciulla dei Fiori Olwen strappandola al padre Gigante Biancospino in uno dei più noti miti relativi a questa stagione; dai romanzi continentali (dove egli è noto come Gawain, forse dal cornico Gwalghwynn o dal bretone Gwalc’hwenn, “Falco Bianco”) è evidente che egli era un tempo il protagonista principale di tali cerche. Il “Falco di Maggio” è considerato il catalizzatore finale nel cambiamento da giamos a samos: è la sua azione decisiva e piena di volontà a liberare le energie della crescita della Terra dal suo esilio sotterraneo e a permettere di manifestarsi all’amorosa stagione piena di attività che è l’Estate. Che poi sia il Maponos o no (al solito, la tradizione celtica rifiuta di essere categorica su un punto del genere), egli fornisce comunque l’impeto iniziale che porterà al trionfo del Maponos.
Anche noi cominciamo a desiderare l’azione sentendo il potere di questa vasta presenza attiva che spazza la Terra: il marc’hek glas, il gigantesco cavaliere verde della primavera, che Per-Jakez Hélias presenta in un famoso poema come una tradizione di sua nonna. Avendo gradualmente ricevuto potere dall’essenza di acqua, aria e fuoco durante la nostra permanenza nel ventre-calderone della Dea, siamo ora completi, pronti a rompere i nostri gusci protettivi e ad esprimere le nostre volontà. Seguendo il passaggio della Terra nella modalità samos, manifestiamo ora all’esterno le energie che conservavamo dentro di noi.
Nel periodo di crescita della luna diveniamo consapevoli della rupe che si avvicina, dietro la quale vi è la Terra, verde e invitante, pronta a soddisfare i nostri desideri. In cima alla rupe attende il Falco di Maggio, in qualità di sentinella e di faro. Con la luna piena raggiungiamo la rupe e arriviamo faccia a faccia col Falco, identificandoci con lui e assorbendo la sua energia sconfinata e di battaglia. E mentre la luna cala, lo seguiamo nella sua cerca per liberare la Fanciulla dell’Estate, viaggiando in terre verdi e sempre più verdi, lasciandoci possedere dallo spirito dell’avventura.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev

martedì 17 maggio 2011

Invocazione a Blodeuwedd


(9 strofe di 3 versi ciascuna, il numero di Blodeuwedd)

Blodeuwedd, rendimi piccola piccola
fammi volare sulle tue ali silenziose
attraverso la mia Ombra

Illuminala di colori e profumi
saprò chi sono
e sarò libera

Mi dissolverò nello scorrere del ruscello
per farmi acqua canterina
mi poserò sul tuo viso di fiori e ne carpirò il profumo

Poi seguirò il vento
saprò chi sono
e sarò libera

Fruscerò tra le foglie degli alberi
leggera leggera, fresca, profumata, luminosa
danzante nella danza della vita

Rinascerò a me stessa e al mondo
saprò chi sono
e sarò libera

Bianca fanciulla della Nona Onda
dall’Oscurità e dal profondo del tuo Lago
mostrami ciò che deve essere con la tua Vista

Diverrò saggia
saprò chi sono
e sarò libera

Meravigliosa Creatura della Notte e di inebrianti terre fiorite
fa’ che Bellezza, Dolcezza e Amore
mi accompagnino sempre nella Luce e nel Buio

lunedì 16 maggio 2011

La tonsura celtica


“Voglio che acconci i miei capelli.”
“Lo farò.”
Artù prese un pettine d’oro. Forbici dall’impugnatura d’argento, e gli acconciò i capelli. Poi gli chiese chi fosse.

Da: Culhwch e Olwen

Come mai Culhwch chiede ad Artù di acconciargli i capelli? È una delle tante domande che mi sono fatta quando lessi questo racconto, sembra un particolare secondario, ma quando si studiano i miti celtici non va trascurato nulla.
Ora dopo un po’ di anni provo a darmi una risposta perché ho trovato delle indicazioni ne: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis:
Secondo le fonti irlandesi i druidi avevano una tonsura. Pare ovvio che anche tra i druidi di Britannia dovesse essere diffusa una simile forma di taglio dei capelli, nonostante non compaiano in questo senso affermazioni specifiche. Il concetto di tonsura è proprio di molte culture e religioni. I monaci buddisti e giaini, e anche gli Indù, tagliano i capelli come forma di iniziazione religiosa. Nei tempi antichi i bambini indù venivano sottoposti all’età di due anni alla cerimonia detta cudakarana, la quale comprendeva una tonsura, atta a mostrare la transizione dalla condizione di infante a quella di bambino. Oggi questa cerimonia è più simbolica che effettiva. Quindi non è sorprendente il fatto di ritrovare una tonsura druidica nell’antica società celtica.
La studiosa Maud Joynt parla della tonsura druidica nel suo articolo “Airbacc giunnae” (“Eriu”, X, 1928, pp. 130-34). Tirechán è una delle prime fonti a fare menzione di una simile tonsura. Di Lucat Mael e Caplait, i due druidi che furono tutori di Ethne e Fidelma, le due figlie del Re Supremo Laoghaire, si dice avessero tagliato i capelli alla maniera detta airbac giunnae; P.W. Joyce ritiene che si definiva in questo modo un “taglio di capelli a siepe”, sottintendendo che il taglio presentava una sorta di scriminatura lungo la testa, che andava da un orecchio all’altro, lasciando rasata la parte frontale del capo. Joynt, comunque, ritiene che si voglia con ciò indicare “la curva frontale della tonsura”. Il nome Mael, “calvo”, poteva allo stesso modo presupporre l’idea di tonsura. Gli scrittori latini, parlando di Lucet Mael, lo chiamano Lucat Calvuc, ovviamente dal termine latino calvus (calvo).
Quando il cristianesimo cominciò a fare presa sui Celti, la tonsura druidica fu conservata e divenne la tonsura dei religiosi cristiani celtici, nonostante il fatto che nel glossario di Ferfesa o’Mulchonry (Annales Ríoghachta Éireann) il nome della tonsura fosse divenuto berrad mog o tonsura civilis. La più esplicita descrizione della tonsura ci è data dalla lettera di Ceolfrid a Naiton, re dei Pitti, che la descrive come una rasatura della parte frontale del capo, lungo una linea che va da un orecchio all’altro, e che lascia i capelli lunghi sulla parte posteriore. Ovviamente, gli scrittori celtici cristiani successivi non parlarono di un’origine druidica per questa tonsura, sostenendo anzi che si trattasse della Tonsura di San Giovanni.
Gli oppositori romani della Chiesa Celtica, in particolare Aldelmo di Malmesbury, sostenevano che si trattasse della tonsura di Simon Mago.
Sia la Vita Tripartita di San Patrizio sia la Vita di Patrizio di Tirechán asseriscono che quando Cass Macc Glais, il porcaio del Re Supremo Laoghaire, venne battezzato da San Patrizio, gli vennero tagliati i capelli in questo modo. (Dall’esame delle più diverse tradizioni si evince che il maiale tende a essere collegato alla casta sacerdotale. Presso i Celti il porcaio è un druido, il porcaio più celebre che conosciamo è San Patrizio in persona. Come fonte di nutrimento la scrofa rappresenta la Dea; a prova del fatto che il druidismo fosse originalmente centrato sulla Dea, i druidi erano chiamati “maialini”, e la Dea, a volte Ceredwen, era raffigurata come una scrofa, il suo druido era chiamato cinghiale o cinghiale selvatico e il suo Alto Prelato guardiano dei porci. Il nome di Culhwch, che nel racconto Culhwch e Olwen si fa acconciare i capelli da Artù, significa “recinto per maiali”, poiché egli nacque in un porcile e venne allevato da un porcaio, probabilmente ha compiuto tutta la sua istruzione in una scuola druidica e questo viene riconosciuto da Artù quando gli pratica la tonsura alla maniera dei druidi).
Secondo Dom Gougard, tuttavia, Patrizio si oppose alla tonsura celtica e ordinò la scomunica di quei clerici irlandesi che rifiutavano di radersi more romano. L’eccellente studio di Dom Gougard è rigidamente trincerato all’interno della sua dottrina romana, e di questa attitudine dobbiamo tenere conto nel considerare l’opera. Se Dom Gougard ha ragione, dobbiamo concludere che il tentativo di San Patrizio non ebbe successo, e che egli stesso alla fine accettò la tonsura celtica.
La tonsura celtica fu uno degli argomenti di discussione durante il conflitto svoltosi a Whitby nel 664 d.C tra gli avvocati celtici e quelli romani. Il concilio di Toledo nel 633 d.C. aveva già condannato la tonsura dei Celti britannici, che si erano stabiliti in Galizia e in Asturia. Essa era comunque ancora diffusa in Bretagna in una data di molto successiva, vale a dire l’818, anno in cui presso Landévennec all’abate Marmonoc fu ordinato di istituire la regola benedettina per rimpiazzare quella di Guénolé, conosciuto in Cornovaglia anche con il nome di Winwaloe. Landévennec fu il centro intellettuale della Chiesa celtica di Bretagna.
Secondo gli Annali di Tigernach, la tonsura romana non fu accettata a Iona fino al 714 d.C. circa. Dopo questa data, inoltre, i Celti britannici ancora adottavano la tonsura celtica. È difficile stabilire per quanto tempo questa moda sia durata tra di loro. Esistono anche alcuni riferimenti ai Culdees, Cele Dé, Servo di Dio, un ordine istituito da Mael Ruain, fondatore del monastero di Tallaght (morto nel 792 d.C.), dei quali si dice portassero la tonsura celtica vagabondando per la Scozia ancora nel quattordicesimo secolo d.C.
Avendo visto nei druidi meramente dei sacerdoti, i commentatori hanno trovato difficoltà nello spiegare i motivi per cui altre persone, e non solo i funzionari religiosi, avessero adottato questa tonsura. “Indubbiamente”, dice Dom Gougard, “la tonsura non costituiva un privilegio esclusivo dei druidi. Essa veniva con tutta probabilità ostentata da altre classi nell’antica società celtica”. Tuttavia questo fatto non fa che confermare l’opinione secondo la quale i druidi non erano semplicemente sacerdoti. Inoltre, bisogna anche considerare che in molte parti del mondo, la tonsura costituiva un segno distintivo della casta dei guerrieri quanto di quella degli intellettuali e dei sacerdoti. Nella società celtica scopriamo che alcuni campioni del re bretone Waroc’h II (577 d.C. ca. – 594) si rasavano il capo con la stessa tonsura celtica. Waroc’h con successo chiamò a raccolta la Bretagna contro gli attacchi dei Franchi.
Strana questa tonsura perché non scopre completamente il VII chakra, al vertice del cranio, ma lo lascia coperto a metà con i capelli, a differenza della tonsura che avevano i monaci medievali e i monaci buddisti. Probabilmente i druidi non volevano distaccarsi completamente dal mondo fisico, chissà.
Da http://www.energiainmovimento.it/La%20scuola/Mercoled%EC/280503.htm:
Il VII Chakra è quello che permette di connettersi con energie superiori. Prima di arrivare a questa connessione è necessario fare un buon lavoro su se stessi.È bene innanzi tutto fare attenzione a come si manovrano quel tipo di energie. Il nostro pensiero non è qualcosa che rimane solo presso di noi, o è qualcosa di non conoscibile oppure difficilmente percettibile; sappiamo che ogni nostro pensiero modifica sempre qualcosa dentro e fuori di noi. Chi ha il settimo chakra aperto, sviluppato, in espansione, non vive con la testa fra le nuvole, vive attaccato al cielo, ma molto bene anche attaccato alla terra, è il Realizzato, l'Illuminato, il Maestro. Se stiamo con la testa lassù e i piedi a mezz'aria è chiaro che la nostra realtà è abbastanza difficile da gestire, se abbiamo costruito bene la base e gradino per gradino siamo arrivati lassù, siamo agganciati al padre celeste e alla madre terra, e chi sta meglio di noi! Il nostro scopo, nel VII° Chakra, è quello di entrare in contatto con il Divino, ma anche di manifestare la divinità nel nostro corpo e nelle azioni, e, in tal modo di trasformare il mondo. Dobbiamo sì liberare il nostro spirito, ma per non perderci nell’infinito dobbiamo conservare una casa in cui lo spirito possa far ritorno.
È questa l’impresa di un VII° Chakra equilibrato
.

domenica 15 maggio 2011

L'uovo di serpente dei druidi



Nella Naturalis Historia, la sua opera principale e l’unica che sia giunta sino a noi, Plinio ci dà uno dei più completi resoconti dei druidi che ci siano rimasti, presentandoli come scienziati naturali, medici e maghi. Plinio stesso era affascinato dalla magia e si può quindi comprendere perché egli indugiasse su questo aspetto nel suo accostarsi ai druidi.
Fu forse il fascino della magia che spinse Plinio a parlare di anguinam, ossia delle “uova dei druidi” o “uova di serpente”. Egli dice che durante il regno di Claudio, un capo dei Galli, Voconzi, fu messo a morte perché si scoprì che egli portava con sé un “uovo di serpente” mentre stava assistendo a un processo.
Plinio afferma che i druidi consideravano tale uovo come un talismano capace di recare vittoria nei tribunali. È stato sottolineato che, quale che sia la realtà circa questo episodio, esso testimonia che chiunque fosse connesso con il druidismo, anche in modo remoto, era esposto alle punizioni della legge romana. Plinio afferma di avere una volta visto un “uovo di druido”: esso era simile al cristallo, e grande quanto una mela di moderate dimensioni, il guscio era cartilaginoso con numerose cupole come quelle dei tentacoli dei polipi. Se ne loda l’effetto meraviglioso per vincere i processi e accedere ai re. Inoltre egli aggiunge che l’uovo veniva formato con la bava di due serpenti sibilanti uniti. La bava che colava dalle loro bocche formava un umore viscido, con cui si faceva una piccola palla, che veniva lanciata in aria: se essa veniva ripresa da un druido, poteva essere usata per neutralizzare le magie. Bisognava raccoglierlo in un saio prima che toccasse terra. Il rapitore doveva fuggire a cavallo perché i serpenti lo inseguivano fino a che non ne erano impediti dall’ostacolo di un fiume. Si riconosceva quest’uovo dal fatto che fluttuava contro corrente. I druidi affermavano che occorreva attendere una certa luna per raccogliere l’uovo.
Vi sono divinità celtiche che portano delle uova; si pensi a Sirona, la dea della fertiità, della guarigione e della rinascita, la cui immagine a Horchscheid, in Germania, la ritrae mentre porta una ciotola con tre uova. È piuttosto interessante se si pensa all’”uovo di serpente”, che Sirona sia ritratta con un serpente attorcigliato intorno al suo braccio, che si sporge per afferrare le uova. È chiaro che le uova sono considerate un potente simbolo di fertilità. Nella tomba di un capo guerriero gallico le uova furono effettivamente seppellite come beni sepolcrali. Le uova compaiono inoltre nella mitologia celtica. La dea irlandese Cliodna possedeva due uccelli del mondo ultraterreno, di colore rosso e con le teste verdi, che deponevano uova di colore blu e cremisi. Se esse venivano mangiate dai mortali, questi si trasformavano in uccelli, dotandosi di un piumaggio.
Anzi, l’idea dell’uovo dei druidi compare in gran parte del folklore celtico. Gli echinati o ricci di mare fossili sono definiti cestini fatati e si dice che coloro che ne posseggono non avranno mai bisogno di cibo ed avranno sempre l'assistenza delle Fate. Nelle tradizioni fatate viene consigliato di sistemare un echinato sul proprio caminetto o in un altro punto ben visibile del salone di casa.
In Scozia era noto il glain-nan-Druidhe, o “cristallo del druido”. William Camden nella sua Britannia (1586) parla delle gemmae anguinae come di “piccoli amuleti di vetro, in genere grandi quanti i nostri anelli per le dita, ma molto più spessi, solitamente di colore verde, benché alcuni siano blu ed altri abbiano curiose onde blu, rosse e bianche”. Thomas Kendrick crede che Plinio abbia visto un conglomerato di piccoli ammoniti.
Scrive Pina Andronico in “La magia dei Celti":
“Si dice che il serpente donasse l'immortalità, come una sorta di pietra filosofale alchemica e che l’uovo di serpente esaltasse ancora di più i significati di rinascita, rigenerazione, fertilità, e che contenesse in sé anche la componente oscura dell'esistenza. L'uovo di serpente è anche l'unione dell'elemento femminile, l'ovulo cosmico, e di quello maschile fallico…È un simbolo universale, contenente il germe da cui nasce il mondo. Le spirali, tipiche nelle raffigurazioni celtiche, non sono che la rotazione dell'energia che usciva da un corpo e ornava una specie di uovo di serpente detto ovum anguinum, al quale i druidi attribuivano qualità straordinarie. Probabilmente si trattava di "ricci di mare, simili a quelli trovati nei dintorni di Arras, in Vendèe. Queste uova fossili avevano parvenza di volto umano".
Specialmente presso i Celti della Gallia francese, veniva tributato un vero e proprio culto all’esoscheletro dei ricci di mare tanto che in Francia, a Saint-Amand (Deux-Sèvres) e a Barjon (Costa d’Oro), sono stati ritrovati dei ricci fossili alla base o al centro di alcuni monticelli privi di resti funebri. Il simbolo fondamentale del riccio di mare è, infatti, quello di “uovo del mondo”. Simbolo della vita concentrata, uovo primordiale, nella dottrina dei Catari indicava la doppia natura del Cristo, la potenza riunita del divino e dell’umano. Come sostengono Jean Chevalier e Alain Gheerbrant: “Il riccio fossile ha seguito nella sua storia simbolica la curva ascendente più perfetta: uovo di serpente, uovo del mondo, manifestazione del Verbo. Al contrario dell’involuzione, rappresenta l’evoluzione giunta al culmine”.
Per comprendere la creazione del mondo i cristiani fanno riferimento alla Genesi. Per i Celti l'universo non aveva né inizio né fine, nessuna narrazione strutturata spiegava la sua creazione. Per essi la creazione avveniva in ogni istante e ogni giorno era un inizio. I druidi erano consapevoli che il tempo e lo spazio fossero illusori e che non potessero che essere relativi perché solo Dio è assoluto. Invece di spiegare concretamente la genesi del mondo i principali miti celtici esprimevano la congiunzione tra lo spirito, la forza creativa attiva maschile e la materia, la forza passiva femminile.
Uno di questi miti è proprio quello dell'uovo di serpente, alla ricerca del quale i druidi partivano per mare. Gli storici studiosi dei celti vedono in quest'uovo solo un talismano, un oggetto materiale.
Ma come ha spiegato il grande specialista Yann Brekilien "si tratta piuttosto di una ricerca finalizzata a conoscere la struttura della sostanza di cui il nostro universo è composto".
L'uovo è il prodotto della vita ed esso stesso produce la vita.
Questa contraddizione traduce il mistero dell'esistenza, una conoscenza che i druidi volevano acquisire.
Ma perché proprio un uovo di serpente marino?
Affinché dall'uovo nasca la vita, questo frutto del grembo materno deve essere fecondato dal principio maschile portatore di energia vitale. Poiché il serpente deve essere esso stesso uscito da un uovo, non si riesce a trovare l'inizio.
Ecco perché il serpente del mare, l'elemento primordiale. Nell'acqua la vita è presente senza bisogno di esservi indotta e il serpente marino non ha dunque bisogno di provenire dall'uovo. Questo mito ci induce a riflettere sull'importanza dell'acqua, fonte di ogni forma di vita sulla terra e senza la quale non potremmo esistere.
Il serpente è presente ovunque nella vita umana.
Lo sperma che corre verso l'ovulo per dare origine a una nuova vita e la forma degli spermatozoi (tanto simili al serpente con la testa d'ariete...) sono i rappresentanti di questo animale; i nostri intestini vengono paragonati a un grande serpente e così il cordone ombelicale che ci nutre; il fluire delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri somigliano al sinuoso moto del serpente, così come il rapido scivolare delle correnti dei mondi spirituali riprende il suo movimento.
Il ciclo dell' anno (il cui significato deriva da annulus, “anello”) che regola le stagioni e la vita umana, viene paragonato a un cerchio formato da un serpente che si morde la coda, l'Ouroboros, simbolo d'infinito, di ciclo che si ripete in eterno sempre uguale a se stesso ma sempre diverso.
Il serpente è chiuso in cerchio su se stesso in modo tale che la testa (vuoto, attrattivo, passivo) cerca di divorarsi continuamente la coda (pieno, repulsivo, attivo) che fugge in un eterno movimento.
Il serpente che si morde la coda sta a significare l’eterno processo del divenire, il cerchio magico che non ha né principio né fine.
Kundalini è l’energia che risiede nel corpo umano a livello sottile, manifestazione dell'energia universale cioè shakt, che allo stato latente, risiede alla base della colonna vertebrale sopra al più basso dei chakra, quindi, nell'osso sacro. Essa è tradizionalmente rappresentata da un serpente addormentato, avvolto intorno alla base della spina dorsale in tre giri e mezzo.
Il serpente è associato a Bel-Belenos ed era sacro alla dea Brigit, il cui emblema era un serpente.
I Druidi in Galles chiamavano loro stessi Nadredd, “serpenti”, e sembra che al momento dell'iniziazione i Druidi gridassero “lo sono un Druido. lo sono un serpente”, forse significando che l'iniziato aveva acquisito la conoscenza antica, era giunto a dissetarsi alle fonti della saggezza, di cui il serpente è simbolo.
Inoltre era associato anche al dio Cernunnos, il Signore del Mondo Sotterraneo (dio sciamano) e degli animali.
Un mito greco (vedi il mito e simbologia dell’uovo cosmico anche in http://damadiavalon.blogspot.com/2011/03/simboli-di-oestara.html), racconta che Eurinome, Dea di Tutte le Cose, per scaldarsi si mise a danzare nuda sulle onde delle acque primordiali e strofinò tra le proprie mani il Vento del Nord.
Da questo gesto nacque un serpente, Ofione, che si accoppiò con la grande Dea. Eurinome si tramutò in colomba e dopo l'accoppiamento depose l’uovo universale. Quindi l’originale uovo primordiale era un uovo di serpente.
La croce ansata non è altro che la croce (tempo e spazio che si incontrano in un punto) con sopra un uovo di serpente.
“Dapprincipio – scrive in proposito Robert Graves – non c’erano dei maschili contemporanei alla Dèa che potessero sfidarne il prestigio e il potere. Essa però aveva un amante che era alternativamente il benefico Serpente della Saggezza e la benefica Stella della vita, suo figlio.”
Il Figlio e il Serpente rappresentavano, rispettivamente, la parte chiara e la parte scura dell’anno, così come il celtico Mabon, Figlio della Luce, che a Beltane sposa la Figlia dei fiori (la Dea Madre nella sua versione di fanciulla). Mabon morirà a Samhain, per lasciare posto al cervo, il Cernunnos, il quale, avendo nella mano sinistra un serpente con la testa d’ariete, rappresenta la fase ctonia dell’anno, quando la natura si rifugia nelle profondità per poi risorgere, come Mabon, a primavera.

Da: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis
http://spiritodellanatura.forumfree.it/?t=41515081
http://lagrandedea.forumfree.it/?t=46831731
http://www.silvanodanesi.org/?page_id=418

mercoledì 11 maggio 2011

Druidi e Bramini


Secondo il parere di tutti gli storici delle religioni, i druidi sono gli equivalenti celtici dei Bramini indiani e dei Flamini romani, anche se il loro nome è completamente differente Bramini e Flamini sono linguisticamente apparentati.
Jean Markale fa notare che i Bramini vengono reclutati esclusivamente in base alla nascita all’interno di una casa normale conseguenza delle credenze induiste che riguardano il ciclo delle reincarnazioni, e che i Flamini romani costituivano un collegio al quale si poteva accedere esclusivamente per cooptazione. I Bramini rappresentano la casta sacerdotale e rappresentano la prima delle quattro caste: 1) sacerdoti o bramini, 2) guerrieri, 3) coltivatori, 4) artigiani e piccoli commercianti. I fuori-casta o impuri vengono detti "intoccabili" o parìa, cioè coloro che svolgono i mestieri più umili. Al contrario, i druidi non formavano una classe chiusa: chiunque, che fosse membro di una famiglia reale, o guerriero, o artigiano, o pastore, o agricoltore, fosse anche schiavo poteva accedervi – non fosse che in una categoria inferiore – a condizione di aver seguito degli studi lunghi e approfonditi. La religione cristiana, per più di un titolo erede della religione druidica, saprà conservare memoria per quanto concerne il reclutamento dei suoi sacerdoti.
Tuttavia su Wikipedia ho letto:
“Da precisare che nel Rgveda non vi è alcun riferimento al primato di questa casta a riprova del fatto che nel primo periodo vedico qualsiasi componente della tribù degli Arii poteva candidarsi a questa funzione.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Brahmano#cite_note-1)
(Che bello poter rettificare il grande Jean Markale che sono andata a leggere per approfondire le convinzioni di Peter Berresford Ellis sull’equazione druidi – bramini; ma già una volta mi sono trovata in disaccordo sul suo forte sdegno riguardo la divisione della ruota dell’anno in 8 feste, senza gli equinozi e i solstizi, anche se sono in disaccordo pure con i gruppi druidici che celebravano solo i solstizi. Stupendo! L’albero del druidismo cresce soprattutto dentro di noi, come c’era scritto nel libro dell’Anguana Madre da me citato).
Georges Dumézil, accademico di Francia e storico delle religioni, nella sua opera Flamines-Brahamanes vede non solo una probabile etimologia comune ma anche un parallelismo funzionale fra i Flamini ed i Bramini, la casta sacerdotale indiana ed attraverso l’esame comparativo delle rispettive religioni individua le tre funzioni, tra loro poste in armonica gerarchia, che reggevano e regolavano la società indeuropea.
La prima funzione è la sovranità religiosa ossia il potere magico-giuridico, la seconda la forza, la potenza bellica e la terza la fecondità ossia la procreazione, la pace (la classe sacerdotale, la classe regale-guerriera, la classe lavorativa).
Come accade per tutto il clero di struttura indo-europea, quantomeno agli inizi, la classe sacerdotale druidica aveva come missione quella di organizzare e di amministrare ad un tempo le cose divine e le cose umane. Gli attuali Bramini, a causa dell’evoluzione storica e delle vicissitudini della società indiana, di questa missione hanno conservato soltanto il suo aspetto spirituale, abbandonando il potere politico a sistemi sempre più laici. Ed è di laicizzazione che bisogna parlare a proposito dei Flamini e del ruolo minore che essi hanno svolto nella Repubblica romana. In effetti, se, al momento della monarchia romana, il rex era il capo indiscusso della dimensione sacra e di quella profana, si è giunti assai presto, in Roma, a tener conto delle contingenze tra il potere temporale e il potere spirituale: la laicità è stata effettivamente inventata dalla Repubblica romana, quantunque, paradossalmente, vi si sviluppasse una religione di pura forma, nettamente nazionalista e civica, alla quale erano integrati i grandi corpi dello Stato. Per quanto concerne i druidi, dato che essi sono scomparsi, assorbiti dalla romanità e nel cristianesimo, non è possibile dire alcunché su una ipotetica evoluzione del loto statuto. Ma una cosa è certa: non esisteva, nella società celtica, alcuna sfumatura tra il sacro e il profano. A dire il vero, la questione non si poneva neppure. Il fatto che, durante la cristianizzazione dell’Irlanda, sono quasi esclusivamente i re e i fili (bardi), vale a dire gli eredi dei druidi, a divenire vescovi o abati, cumulando i poteri temporali e spirituali, è insomma la prova assoluta di questo monismo che è talvolta difficile da comprendere considerando quella che è la nostra attuale mentalità.
Bisogna comunque ammettere che la denominazione druidi è assai vasta ed ingloba numerose specializzazioni. Sarebbe ridicolo voler paragonare un druido gallico e un sacerdote cattolico del XX secolo, soprattutto nei paesi dove è in vigore la separazione tra Chiesa e Stato. In qualche modo, possiamo trovare una certa equivalenza tra il druido e un prete di villaggio nel XIX secolo, prima delle leggi sull’insegnamento primario obbligatorio e la comparsa dell’insegnante laico. Giacché, se il druido è un sacerdote, egli è anche ben altra cosa. E, all’interno della classe druidica, esistono molte distinzioni. Gli autori greci e latini, ne avevano piena consapevolezza, quantunque sembri che non avessero per niente compreso con esattezza le sottigliezze di queste distinzioni e del sistema gerarchico. Talvolta chiamavano i druidi “filosofi”, talaltra “maghi”, ciò che non risulta essere proprio la stessa cosa. Si parla anche di “poeti cantanti” e di indovini. E Diodoro Siculo precisa che non poteva compiersi alcun sacrificio senza l’assistenza di uno di questi “filosofi”.

Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti di Jean Markale

mercoledì 4 maggio 2011

Faeryland



Era mattina presto quando Morgana uscì furtivamente dalla Casa delle Vergini e si avventurò nella palude dietro il Lago. Con un po’ di fortuna avrebbe trovato nella foresta ciò che le occorreva.
Sapeva che cosa doveva cercare: una radice, la corteccia di un arbusto e due erbe. Avrebbe potuto prenderle dalla dispensa, ma in tal caso avrebbe dovuto spiegare perché le voleva, e non sopportava quell’idea.
Una delle erbe cresceva nell’orto di Avalon: l’aveva colta senza che nessuno la notasse. Le altre doveva cercarle lontano, e percorse una distanza considerevole prima di accorgersi che non s’era ancora addentrata nelle nebbie. Si guardò intorno e si rese conto di essere giunta in una parte di Avalon che non aveva mai visto. Sembrava impossibile, perché conosceva perfettamente l’Isola, eppure era vero. S’era avventurata dove la foresta era più fitta, gli alberi più vecchi, e i cespugli e le erbe apparivano diversi.
Forse era passata attraverso le nebbie senza accorgersene, ed era sulla terraferma che circondava il Lago e l’Isola? No, era impossibile. C’era soltanto un sentiero semiasciutto che collegava Avalon alla terraferma, e non l’aveva percorso.
Alzò gli occhi per orientarsi con il sole, ma il sole non c’era. Era giorno, ma la luce era una radiazione dolce che pareva giungere da ogni parte.
Morgana fu assalita dal freddo della paura. Non era nel mondo che conosceva. Era possibile che all’interno della magia dei druidi vi fosse un altro territorio sconosciuto? Gli alberi fitti, le querce e i noccioli, le felci e i salici le dicevano che non aveva mai visto quel mondo. C’era una quercia nodosa e indicibilmente antica che non sarebbe potuta sfuggire alla sua attenzione. “Per la Dea, dove sono?”
Dovunque fosse, non poteva restare. Avanzò lentamente nella foresta sempre più fitta. Giunse in una radura circondata da noccioli, e sul margine scorse numerosi ciuffi d’una delle erbe che le occorrevano. Impulsivamente andò a inginocchiarsi e cominciò a scavare per prendere la radice.
Per due volte, mentre frugava nella terra, ebbe la sensazione d’essere osservata. Ma quando alzò gli occhi non vide nessuno, sebbene vi fosse un lieve movimento tra gli alberi.
La terza volta attese il più a lungo possibile prima di sollevare lo sguardo. Estrasse l’erba e incominciò a staccare la radice mormorando un incantesimo. Ma la sensazione d’essere osservata divenne ancora più forte, e sollevò la testa. Quasi invisibile nell’ombra, al limitare degli alberi, c’era una donna.
Non era una delle sacerdotesse, e Morgana non l’aveva mai vista. Indossava un abito verdegrigio come le foglie del salice impolverate alla fine dell’estate, e un mantello scuro. Un monile d’oro le brillava alla gola. A prima vista Morgana pensò che appartenesse al piccolo popolo scuro: ma aveva il portamento d’una sacerdotessa o d’una regina. Era difficile immaginare che età avesse, ma gli occhi profondamente infossati indicavano che non era giovane.
“Che cosa fai, Morgana la Fata?”
Morgana si sentì agghiacciare. Com’era possibile che la donna conoscesse il suo nome? “Se conosci il mio nome, signora, puoi vedere anche cosa sto facendo”, disse con fermezza, e riprese a scortecciare la radice. Poi alzò di nuovo lo sguardo, quasi aspettandosi che la sconosciuta fosse scomparsa; invece era ancora lì e la osservava spassionatamente. “Sì, vedo che cosa stai facendo, e so che cosa intendi fare. Perché?”
“T’interessa tanto?”
“La vita è preziosa per la mia gente”, rispose la donna, “anche se per noi la riproduzione e la morte non sono facili come per voi. Ma mi sorprende che tu, Morgana della stirpe reale del Vecchio Popolo, e quindi mia lontana parente, rifiuti l’unico figlio che potrai mai avere.”
Morgana deglutì con uno sforzo e si alzò. In tono di sfida chiese: “Perché dici così? Sono ancora giovane. Perché credi che se rifiuterò  questo figlio non potrò averne un’altra dozzina?”
“Avevo dimenticato che quando il sangue fatato è diluito, la Vista è menomata e incompleta”, disse la sconosciuta. “Ti basti sapere questo: io ho veduto. Rifletti bene, Morgana, prima di rifiutare ciò che la Dea ti ha mandato con l’intervento del Re Cervo.”
Improvvisamente Morgana ricominciò a piangere. “Non lo voglio! Perché la Dea mi ha fatto questo? Se è lei che ti manda, puoi rispondermi?”
La sconosciuta la guardò con tristezza. “Non sono la Dea e neppure la sua emissaria. La mia gente non conosce né Dei né Dee, ma soltanto nostra madre che sta sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste. Amiamo la vita e ci dispiace vederla gettar via.” Avanzò di qualche passo e prese la radice dalla mano di Morgana. “Tu non la vuoi”, disse, e la gettò via.
“Come ti chiami?” gridò Morgana. “E che luogo è questo?”
“Non potresti pronunciare il mio nome nella tua lingua. E questo luogo è il noccioleto, ed è ciò che è. Conduce alla mia terra, mentre quel sentiero ti condurrà ad Avalon.”
Morgana seguì con lo sguardo il gesto della donna. Sì, c’era un sentiero, ma avrebbe giurato che non ci fosse quando era entrata nel bosco.
La signora era ancora accanto a lei. Esalava una strana fragranza, come di un’erba sconosciuta, fresca e quasi amara.
Con voce bassa e ipnotica la sconosciuta disse: “Puoi restare qui con me, se vuoi. Ti farò dormire in modo che partorisca tuo figlio senza soffrire; lo terrò io e vivrà più a lungo di quanto vivrebbe fra la tua gente. Perché vedo un destino per lui, nel tuo mondo… tenterà di agire bene e, come quasi tutti gli esseri della vostra specie, farà soltanto del male. Ma se rimarrà qui tra la mia gente vivrà molto, molto a lungo, e diventerà un mago. Rimani, piccola: dona a me la creatura che non vuoi partorire, e  poi ritorna fra i tuoi con la certezza che sarà felice.”
Morgana fu scossa da un brivido. Sapeva che quella donna non era interamente umana. Si ritrasse e fuggì, fuggì verso il sentiero come se fosse inseguita da un demone. Dietro di lei la sconosciuta chiamò: “Allora abortisci, oppure strangola tuo figlio quando nascerà, Morgana la Fata; la tua gente ha un suo destino, ma che sarà del figlio del Re Cervo? Il re deve morire…” Ma la voce si smorzò mentre Morgana correva nella nebbia, inciampando tra i rovi, fino a quando finalmente irruppe nel sole e nel silenzio e comprese d’essere ritornata sulle rive di Avalon

Da: Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley

domenica 1 maggio 2011

Il tempo della Madre


Il tempo è adesso!!! Nel regno illimitato dell’anima le cose impossibili succedono ogni giorno, ci sarà di nuovo concessa la capacità di vedere oltre il velo dei segreti della Natura se torneremo a pregare nei suoi santuari, più diveniamo consapevoli di essere Figlie della Madre e non di una civiltà che ci ha allontanato da Essa, più conosceremo i suoi misteri.
Lei è la Regina dei Cieli e della Terra, varca ogni confine ed è in tutte le religioni. Ella è nutrice, stratega e guerriera. La troveremo su ogni altare, in ogni chiesa, foresta e cerchio di pietre. Non la si può negare in alcun modo. Ascolta il più possibile la musica delle Antiche Armonie, è in essa che si dispiega la voce pura e il suono dell’arpa magica dei bardi. La musica non deve far rumore per non disturbare il silenzio della tua anima.
Rispondi alla domanda: “Chi sei?” ognuno avrà una risposta diversa. Io sono Colei che Gioca, che ha sempre giocato senza saperlo, ma le porte si chiudono a una a una per Colei che Gioca e nelle stanze rimangono gli inconsapevoli con la mente ottenebrata, prigionieri dei loro ruoli, ignari dell’Antico Sapere che ci è donato dall’Alba del Mondo. Si chiudono le porte delle stanze delle creature addomesticate da dove non possono uscire ma si aprono i sentieri delle creature selvagge e di Colei che gioca; tutti i sentieri possibili e immaginari portano alla vera gioia se si seguono col Cuore e se si è ancorati al Centro ben saldo, se siamo sempre diversi eppure sempre uguali. La Madre dal Triplice Volto ci parla ancora, ma abbiamo disimparato ad ascoltarla. Come hanno detto altre Viandanti: chi viaggia verso Avalon deve farlo in solitudine. In solitudine ma in compagnia di tanti, tantissimi libri. E gli stessi libri vanno riletti più e più volte, assimilati e meditati. Ho ordinato due volumi del libro di Scatatch in biblioteca, tra poco arriveranno. Cos’è il libro di Scatatch? È un libro segreto che è servito a formare le Anguane Guerriere dei colli veneti e che comprende diversi volumi. Viene tramandato di generazione in generazione e viene custodito dall'Anguana più vecchia e saggia, che è anche quella che istruisce le giovani anguane. 
Le anguane erano favolose “donne magiche”, un po’ fate e un po’ streghe, potenti guaritrici e sciamane, le cui storie si narravano attorno al fuoco e nei “filò” contadini, dal Veneto fino al Friuli, un’immensa saggezza alla quale avrò il privilegio di attingere nei prossimi giorni