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martedì 18 ottobre 2011

I Celti in Italia


Già dal XII sec. a.C. nel Canton Ticino e nelle regioni nord occidentali dell'Italia (Piemonte e Lombardia) si sviluppa una cultura detta di Golasecca, che discende direttamente dalla cultura dei Campi di Urne.
Queste genti parlano una lingua celtica, detta Leponzio, ai Leponzi è attribuita la più antica iscrizione in lingua celtica (Iscrizione di Prestino VI sec. a.C.) di tutta l'Europa.
Gli Insubri sono considerati gli eredi diretti dei precedenti Golasecchiani.
A partire dal V secolo a.C. (ma qualcuno opta per il IX secolo a.C., mentre altri indicano il VII secolo a.C.) le popolazioni celtiche valicano a più riprese i passi alpini del Gran San Bernardo e del Piccolo San Bernardo per riversarsi nella Pianura Padana, dove i Boi, i Lingoni, gli Insubri, i Senoni e i Cenomani si stabilirono.
I popoli che vivevano al di là delle Alpi che separano l’Italia dalla Francia e dalla Svizzera, appartenevano alla stirpe celtica europea e sia il passo del Gran San Bernardo che quello del Piccolo San Bernardo in Valle d’Aosta (ma anche il Moncenisio, il Gottardo, il Brennero e il Tarvisio), portano testimonianza di un intenso passaggio di genti celtiche. Le numerosissime monete celtiche (oltre 600) ritrovate nei laghi alpini, lì gettate come offerta agli dèi del luogo per proteggere il percorso dei viandanti, portano i nomi di varie tribù, come i Leuci (stanziati nelle valli superiori della Mosa e della Mosella, dall’alta Marna ai Vosgi), i Sequani (grande e importante popolazione stanziata a ovest del Giura, nell’odierno dipartimento di Franche-Comté, e in Alsazia), i Lingoni, i Remi, gl Elvezi, gli Insubri e i Cenomani. Troviamo perciò popolazioni celtiche stanziate appena oltre i passi alpini (Veragri, Seduni e Nantuates nella valle del Rodano; Ceutrones, Acitavones, Medulli e Graioceli oltre il Gran San Bernardo) e in continuo passaggio verso la Pianura Padana e l’Italia in generale.
L’intera Italia settentrionale è costellata da nomi celtici che designano luoghi geografici o città e che testimoniano uno stanziamento stabile per parecchi secoli. Pensiamo alle Alpi, che sembrano derivare il loro nome dalla parola celtica Alp/Arp, il cui significato è “montagna”, o all’Alpis Graia (passo del Piccolo S. Bernardo), fonte di numerose interpretazioni tra le quali è stata proposta la derivazione del nome celtico Grannus, ma anche dalla parola grau, “roccioso”, “scosceso”, oppure dal nome della tribù celtica dei Graioceli, che abitavano nella Gallia Transalpina. Il significato del passo del Gran S. Bernardo (Summus Poenius) è invece più semplice, dato che il nome deriva dalla divinità celtica Penn, ma potrebbe anche riferirsi alla  parola penn, “sommità”.
I Celti scesero e si stanziarono in Italia in successivi spostamenti avvenuti intorno al V-IV secolo a.C., dovuti presumibilmente all’aumento di popolazione delle varie tribù o a nuovo cambiamento del clima, oppure a motivi prettamente di conquista. Si sa per certo che nel 400 a.C. circa, gruppi armati di Celti giungenti dall’alto Reno e dall’alto e medio Danubio attraversarono il passo del Gran San Bernardo e del Brennero e si riversarono nella Pianura Padana, dove gli Insubri fondarono Mediolanum, i Cenomani Briscia, Bergamum e Verona.
Una città prettamente celtica che sorge sulle rive della Dora Baltea, famosa per i suoi cavalli, e fiorente nel 100 a.C., è quella di Ivrea, l’antica Eporedia (da Eporedicas: buoni allevatori di cavalli o da Eporedoria: luogo di coloro che vanno su carri a cavallo).
I Boi, i Lingoni, i Biturigi cercavano oro e vino etruschi, ma trovarono soprattutto nuovi territori in cui stabilirsi.
Tito Livio (Storie lib. I-XXV), cita nei suoi scritti i nomi di sei popoli celtici che invasero l’Italia nel IV secolo a.C: Insubri, Cenomani e Salluvii, che si stabiliscono a nord del Po; Boi, Lingoni e Senoni che invece si stanziarono a sud del grande fiume. Gli Insubri sarebbero stati una suddivisione degli Edui, che avevano come capitale Autun (la moderna Saône-sur-Loire); i Cenomani, una delle tribù secondarie che formavano il gruppo della nazione Volcae, provenivano probabilmente da una regione situata a ovest della Boemia; i Boi sono una parte del popolo che, condotto da Segoveso, conquistò in quello stesso periodo la Boemia, dalla quale furono più tardi cacciati e costretti a dividersi in due gruppi di cui uno si diresse in Pannonia (a sud di Vienna, Austria) e l’altro presso gli Edui in Gallia. I Lingoni portano lo stesso nome della tribù celtica stanziata nel distretto della Haute-Marne, in Francia.
La maggior parte degli invasori Celti giunti in Italia proveniva quindi dalla Francia orientale, dalla Germania meridionale e da parte della Svizzera. Non furono probabilmente popoli interi a spostarsi nelle nuove terre, ma solo una parte della gioventù insoddisfatta dei vecchi luoghi occupati dalle loro tribù (forse troppo numerose) e desiderosi di nuove acquisizioni e avventure, mossi quindi da intenti carichi di audacia ed energia.
Le fonti classiche attestano che i primi a giungere in Italia furono gli Insubri che, dopo aver saccheggiato la città etrusca di Melpum, si stanziarono nei dintorni d Milano. Agli Insubri seguirono i Boi, i Lingoni e i Senoni che si stabilirono in Lombardia. Ma la maggior parte delle genti celtiche si stabilirono nella valle del Po: i Cenomani a nord-est, i Boi nel distretto di Bologna, i Lingoni a sud e in seguito si spinsero fino agli Appennini. I Senoni raggiunsero la costa adriatica di fronte alle Marche, tra Rimini e la foce del fiume Iesi, a nord di Ancona, e vi si fermarono dando vita a una regione conosciuta da quel momento come Ager Gallicus.
Solo una parte degli invasori Celti però, si stanziò immediatamente nei nuovi territori, mentre l’altra continuò ad avanzare lungo la penisola italica. Presso il piccolo fiume Allia, alla confluenza con il Tevere, sconfissero le legioni romane e raggiunsero Roma, che fu incendiata e saccheggiata nel 387 a.C. La sconfitta subita dai Romani servì a questi ultimi per rinforzare le difese della città, costruendo solidi bastioni in pietra, e per riorganizzare l’esercito, così da diventare in seguito una delle più grandi potenze del mondo antico.
Roma nel 338 a.C. aveva il predominio sulla confederazione ormai sciolta delle città etrusche e sulle tribù sannitiche e cominciava a estendere il proprio dominio sull’Italia intera. I Celti ne contrastarono gli intenti quando, nel 299 a.C., affrontarono e distrussero un esercito romano a Clusium (Chiusi), ma quattro anni dopo subirono una sconfitta in Umbria, presso Sentino, e dopo altri sanguinosi scontri furono ricacciati verso l’Italia settentrionale. I Romani fondarono sulle terre dei Senoni, nel 280 a.C., la colonia civile di Sena Gallica (Senigallia).
Gli Insubri e i Boi chiamarono allora in aiuto le forze celtiche d’oltralpe e si scontrarono con i Romani nella battaglia di Talamone  nel 225 a.C., subendo una grave sconfitta che costò loro i territori.
Nel 218 a.C. la discesa di Annibale in Italia permise ad alcune tribù celtiche di tentare di contrastare la supremazia romana nella penisola e molti mercenari si unirono al Cartaginese, senza tuttavia riportare grandi successi. Il confine romano si spostò inesorabilmente verso l’Italia settentrionale e tra il 225 e il 190 a.C. si susseguirono numerose battaglie che portarono alla conquista totale della Gallia Cisalpina.
Nell’82 a.C., sotto il governo di Silla, essa fu eletta provincia di Roma.
A lungo ritenuta una provincia marginale dell’area celtica, dopo accurato esame l’Italia appare invece una regione cruciale per la comprensione dei fenomeni che nel IV secolo a.C. interessarono la cultura di La Tène. Dall’Italia infatti partirono le correnti e gli influssi, percepibili in particolare nel mondo artistico, che segnarono profondamente e durevolmente la cultura dei Celti storici.
Ma questa è anche la regione in  cui il processo di integrazione dei gruppi di celtici immigrati per motivi bellici può essere seguita nel modo migliore, grazie all’abbondanza delle informazioni testuali, che hanno un equivalente soltanto nelle notizie di cui disponiamo, tre secoli dopo, per la Gallia transalpina. La comparazione di tali informazioni con i documenti archeologici dimostra in maniera esemplare l’incompletezza delle conclusioni che si possono trarre usando solo una di queste due categorie di fonti: l’impressione di un popolamento celtico omogeneo, uniforme e in costante contrapposizione con l’ambiente indigeno, che ci si può fare leggendo i testi, appare quasi del tutto falsa se si analizzano i materiali archeologici delle regioni interessate. In effetti le vestigia rivelano la varietà dell’elemento celtico, che è senz’altro dovuta alla diversa derivazione delle sue principali componenti, oltre che alla coabitazione con vari ambienti autoctoni, nel quadro dei complessi territoriali che i testi collocano sotto il loro dominio egemonico.
La capacità di integrazione etnica e culturale palesata in Italia dai Celti costituisce certamente un ottimo modello per capire meglio ciò che è successo nelle altre zone di espansione storica. Il loro caso permette inoltre di valutare la rapidità con cui essi seppero creare formazioni etniche eterogenee sotto il loro controllo: non ci sono volute più di un paio di generazioni affinché popoli come i Senoni o i Boi giungessero al grado di coerenza culturale che riflette, nella seconda metà del IV secolo a.C., il momento di equilibrio del fenomeno celto-italico

Da: Il vischio e la quercia di Riccardo Taraglio
La grande storia dei Celti di Venceslas Kruta

martedì 26 luglio 2011

John Barleycorn


John Barleycorn (lo spirito dell'orzo) vive dalla semina fino al momento della sua morte ad opera della falce, ma poi rinasce dal suo stesso seme, in un ciclo senza fine ma con momenti ben definiti, caratterizzati da celebrazioni rituali. In questo ciclo il Dio muore e discende agli inferi dove la Dea della Terra lo soccorre e lo fa rinascere. Anche la maggior parte (se non tutte) le divinità maschili e femminili legate ai raccolti e al grano discendono negli inferi e poi ritornano in superficie.
In Irlanda, Inghilterra e Scozia spesso si canta una ballata popolare, intitolata John Barleycorn must die, incentrata su questo personaggio popolare, che è poi lo spirito dell'orzo, che narra del ciclo annuale dell'orzo, della sua trasformazione in farina e poi in birra e whisky, che è molto simile al ciclo annuale dello spirito del grano. Perché lo spirito del grano doveva morire? Era una metafora del ciclo della mietitura, il grano crescente doveva essere mietuto, quando finiva era finito il raccolto, il mietitore che mieteva l'ultimo covone simbolicamente uccideva il raccolto di quell'anno, quindi uccideva lo spirito del grano e in qualche modo prendeva su di sé la sventura della fine della vita, della morte.
Ma lo spirito sarebbe rinato l'anno dopo, bastava sincerarsi che morisse in modo certo per garantirne la rinascita, e quindi doveva essere inscenata un’uccisione simbolica e inappellabile (nella canzone è il "voto solenne"), con le forme e la brutalità del sacrificio.
Le modalità simboliche dell'uccisione descritte nella canzone sono proprio quelle in uso nelle campagne inglesi del Devonshire e della Scozia fino ai primi decenni del '900. Del testo esistono diverse versioni, raccolte in varie epoche, a partire dal 1600, da tradizioni orali precedenti, tra cui una versione più ampia curata dal poeta nazionale scozzese Robert Burns. Di seguito si può leggere la traduzione del brano nella versione più comune:

C'erano tre uomini che venivano da occidente, per tentare la fortuna
e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn deve morire
loro avevano arato, avevano seminato, loro avevano dissodato
e avevano gettato zolle di terra sulla sua testa
e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn era morto
lo lasciarono giacere per un tempo molto lungo, fino a che scese la pioggia dal cielo
e il piccolo sir John tirò fuori la sua testa e lasciò tutti di stucco
loro l'avevano lasciato steso fino al giorno di mezza estate e fino ad allora lui era sembrato pallido e smorto
e al piccolo Sir John crebbe una lunga lunga barba e così divenne un uomo
loro avevano assoldato uomini con falci veramente affilate per tagliargli via le gambe
l'avevano avvolto e legato tutto attorno, trattandolo nel modo più brutale
avevano assoldato uomini con i loro forconi affilati che avevano conficcato nel (suo) cuore
e il carrettiere lo trattò peggio di così
perché lo legò al carro
e andarono con il carro tutto intorno al campo finché arrivarono al granaio
e fecero un solenne giuramento sul povero John Barleycorn
assoldarono uomini con bastoni uncinati per strappargli via la pelle dalle ossa
e il mugnaio lo trattò peggio di così
perché lo pressò tra due pietre
e il piccolo Sir John con la sua botte di noce e la sua acquavite nel bicchiere
e il piccolo sir John con la sua botte di noce dimostrò che era l'uomo più forte dopo tutto
il cacciatore non può suonare il suo corno così forte per cacciare la volpe
e lo stagnaio non può riparare un bricco o una pentola senza un piccolo (sorso) di grano d'orzo.


§§§§§§§§§


There were three men came out of the west, their fortunes for to try
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn must die
They've plowed, they've sown, they've harrowed him in
Threw clods upon his head
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn was dead

They've let him lie for a very long time, 'til the rains from heaven did fall
And little Sir John sprung up his head and so amazed them all
They've let him stand 'til Midsummer's Day 'til he looked both pale and wan
And little Sir John's grown a long long beard and so became a man
They've hired men with their scythes so sharp to cut him off at the knee
They've rolled him and tied him by the way, serving him most barbarously
They've hired men with their sharp pitchforks who've pricked him to the heart
And the loader he has served him worse than that
For he's bound him to the cart

They've wheeled him around and around a field 'til they came onto a pond
And there they made a solemn oath on poor John Barleycorn
They've hired men with their crabtree sticks to cut him skin from bone
And the miller he has served him worse than that
For he's ground him between two stones

And little Sir John and the nut brown bowl and his brandy in the glass
And little Sir John and the nut brown bowl proved the strongest man at last
The huntsman he can't hunt the fox nor so loudly to blow his horn
And the tinker he can't mend kettle or pots without a little barleycorn

Da:
http://freeforumzone.leonardo.it/lofi/John-Barleycorn-lo-Spirito-del-Grano/D9319242.html
http://lyricskeeper.it/it/traffic/john-barleycorn.html

martedì 19 luglio 2011

I Celti e la caccia



La caccia , e così la guerra, erano per i Celti attività sacre, che si potevano svolgere solo dopo un apprendistato di tipo iniziatico.
La caccia era in grado di costituire un'esperienza "nutritiva" a tutti i livelli.
A livello fisico l’animale cacciato forniva il nutrimento, a livello mentale la caccia stimolava l'astuzia e il coraggio del cacciatore, che doveva confrontarsi con la forza bruta dell’animale, vincendo grazie all'esercizio dell'intelligenza.
La caccia era vista come qualcosa di più di un’opportunità sportiva; con l’usanza di forgiare le armi si iniziò a considerarla un atto sacro, nel quale cacciatore e cacciato entravano in una relazione del tutto particolare. La caccia divenne simbolo e metafora del viaggio dello spirito, dove vita e morte hanno la loro parte e dove la guarigione è raggiunta cacciando. Cacciare e guarire sembrano attività non relazionate, ma i ritrovamenti archeologici ai santuari di guarigione di Lydney nel Gloucestershire e Nettleton Shrub nello Wiltshire mostrano come i Celti unissero i due concetti. La percezione che la morte di un animale corrispondesse alla vita di un altro portò i Celti a collegare lo spargimento di sangue con concetti come rinascita, guarigione, rinnovamento. Impegnandosi nella caccia erano chiamati a rinnovarsi
.
La caccia era accettabile solo se gli animali cacciati erano rispettati dai loro predatori, e le prede dovevano accettare la propria morte; tutto si svolgeva in un’atmosfera armoniosa con la natura, in cui i cacciatori hanno un rapporto indissolubile con gli animali: solo in questo modo all'animale morto era riconcesso l'onore di ritornare in vita, e vagare di nuovo nella foresta per essere nuovamente cacciato.
La caccia e la guerra sarebbero così stati i due aspetti fondanti della ricerca della sovranità.

In quasi tutte le storie antiche, inoltre, compaiono episodi di caccia al cervo o al cinghiale, animali che rappresentano l’anima di colui che deve essere ucciso (l'etimo stesso di "animale" deriva dal greco anemos, anima, spirito, il soffio vitale presente in tutte le creature viventi).
Il cervo e il cinghiale sono creature dell’Altromondo che varcano i confini tra i mondi con facilità, fungendo spesso da messaggeri o guide tra una parte e l’altra del confine. La caccia a questi animali viene accostata sia al periodo di Beltane che a quello di Samhain.
I Celti non andavano mai a caccia senza l’aiuto degli Dei e alcune divinità avevano una duplice attitudine verso gli animali, ne erano sia i guardiani che i cacciatori, legati ad essi da un vincolo mutuo ed intimo. Lo stesso si può dire anche per le dee, come la dea-orso Artio e la dea-cinghiale Arduinna.
Anche il dio gallese Mabon
in Culhwch e Olwen, è un dio-cacciatore. La Caccia Divina non simboleggiava la morte e la fine ma l’immortalità attraverso l’atto dello spargimento di sangue.
Dato che la caccia era una faccenda seria, che implicava la distruzione di parte della natura, era percepita come un’attività nella quale gli dei dovevano giocare un ruolo chiave.
Cernunnos, il dio dalle corna ramificate di cervo, era la divinità della caccia e della selvaggina e veniva chiamato anche il Signore degli Animali. Per i Celti cacciatore e preda formavano un unico essere e il trapasso nella natura di un animale è caratteristico nei racconti di magia. Ci si identificava completamente nella preda, penetrando, come in uno stato di sogno, nella sua mente, nei suoi movimenti e nelle sue astuzie, così l’abilità del cacciatore diveniva una forma di magia , che gli permetteva quasi sempre di avere la meglio sull’animale braccato. Pare che lo stesso persecutore, nell’ucciderlo, soffrisse in quell’attimo tutte le sue pene, tale era l’immedesimazione della sua coscienza. Naturalmente per ottenere ciò era necessario un rituale rivolto a Cernunnos.
Mabon o Maponus è il celtico bambino di Luce che porta la vita eterna. Era un grande cacciatore con un agile cavallo e uno splendido cane da caccia. Mabon ap Modron significa "Grande Figlio della Grande Madre", 'Il Figlio Divino” è il Dio gallese della giovinezza e figlio della Madre Terra Modron e di Mellt ('Illuminante"). Era il Figlio della Luce, della liberazione, armonia, musica e unità (assimilabile anche a divinità come Lugh e Belenos). Ha anche il potere di far fiorire e sviluppare ciò che dipende per la propria crescita dalla sua luce solare (in senso naturale e spirituale). Mabon è associato a Beleno, chiamato anche Bel, Beli o Belenos, Dio del sole, protettore delle pecore e del bestiame. Definito “Padre degli dèi e degli uomini” (e marito della dea Dana), la cui radice ha il significato di “brillante”. Egli è il Giovane Cervo , l’altro lato del Dio Cornuto, la sua controparte luminosa che domina il semestre luminoso, Maponos le corna non le ha ancora, ma le mette nel momento in cui la "corona" passa da Cernunnos a lui. Il cervo con le corna e quello senza corna sono comunque considerabili lo stesso identico cervo, infatti le corna vengono perse e rimesse ciclicamente, ecco perché Cernunnos ha grosse corna, mentre Maponos no. È anche possibile collegare il personaggio di Mabon, il Giovane Divino, a quello dell’irlandese Aengus, Dio dell’amore, della giovinezza e dell’ispirazione poetica, dell’amore fatale: i baci di Aengus si tramutano in uccellini cinguettanti, secondo il mito, e la sua musica ha il potere di attrarre a sé chiunque l’ascolti. In alcune leggende Aengus è in grado di ricongiungere corpi fatti a pezzi e di riportarli in vita.

Da: http://raggiodiluceattiva.xoom.it/ildio.htm

giovedì 7 luglio 2011

La pietra di Tara



La
Pietra
del Destino, la Lia Fáil, fece la sua prima comparsa in Irlanda per mano dei Tuatha De Danann che la portarono dalla città di Fáilias, assieme alla Spada di Luce, Claíomh Solais, da Gorias, al calderone del Dagda da Murias e alla lancia di Lugh da Finias. Essi la regalarono ai Milesi loro successori e antenati del popolo che ora chiamiamo irlandesi.
I Tuatha De Danann (il Popolo di Dana) erano, secondo la tradizione irlandese, gli antichi abitatori dell'Irlanda: un'antica stirpe di natura divina dotata di poteri soprannaturali che, secondo quanto narrato dalla tradizione irlandese, giunse in una nuvola magica e, nella nebbia sollevata dai suoi druidi, sparì.
Si dice che i Tuatha De Danann portarono anche la scienza, la civiltà, l'arte. La pietra era in grado di riconoscere il vero sovrano del paese emettendo un alto grido. Divenne proprietà dei primi re d'Irlanda come "Pietra del Destino" e fu installata nella mitica collina di Tara, nella contea di Meath, sede dell' "Ard Ri", il re supremo che regnava su tutta l'Irlanda. La pietra fungeva da trono per l'incoronazione ed era il luogo in cui veniva amministrata la giustizia.
Nel VI secolo d.C. Tara fu abbandonata e, in seguito, i miti irlandesi e scozzesi concordano nel dire che fu portata in Scozia, dove ne possiamo trovare le tracce successive. Quello che oggi è un modesto villaggio del Tayside, vicino a Perth, era fino all'VIII secolo la capitale del regno dei Pitti: ci riferiamo al villaggio di Scone, allora importante centro religioso, oltre che sede dei regnanti, dove veniva conservata la conoscenza druidica e dove i re venivano incoronati sulla Pietra del Destino. Nel IX secolo il trono dei Pitti e quello scozzese furono unificati e il loro primo re, Kenneth McAlpine, trasportò la pietra nel luogo della sua incoronazione, a Dunnstaffnage Castle, a Perth. Due secoli dopo, il re inglese Edoardo I trovandosi invischiato in un litigio a nord del Border (il confine tra Inghilterra e Scozia), colse l'opportunità di trafugarla portandola a Westminster. Incapsulata nel sedile dorato dall'alto schienale, la pietra costituiva il trono su cui sono stati incoronati sin da allora i re e le regine britannici.
Ma la sua storia avventurosa continua ancora ai giorni nostri: prelevata dai nazionalisti scozzesi nel 1950, la pietra fu recuperata giusto in tempo per l'incoronazione dell'attuale regina, Elisabetta II, nel 1952.
Solo nel 1996 il governo inglese ha restituito definitivamente la pietra, oggi custodita nel Castello di Edimburgo. Ma, secondo alcune ricerche, la magica pietra di Tara non si trovava affatto incastonata nel trono inglese. Edoardo I portò una “falsa pietra”. Gli scozzesi, ritenendola molto sacra, la sostituirono perché non erano del parere che venisse asportata.
La leggenda misteriosa che essa emettesse un grido di fronte al vero re ha delle fondamenta sacre. Non si trattava solamente di magia ma di una vera e propria “vibrazione” intercettatrice delle qualità del designato.
In seguito la pietra fu presa dagli scozzesi, ma pare che le sue forze magiche si rifiutassero di collaborare perché, tolta dal grembo della “madre originaria”, era rimasta priva dell’anima divina che la guidava. Allora, per non perdere il prestigio, i caparbi, orgogliosi guerrieri di Scozia asserirono che i loro re venissero ugualmente incoronati tramite la scelta della pietra di Tara. Questo inganno non portò molta fortuna ai re incoronati in presenza di quel masso. Così gli scozzesi decisero di sostituirla con una falsa, nascondendo la pietra verde in un luogo segreto e conosciuto a pochi, poiché temevano le maledizioni e le vendette degli dèi d’Irlanda. Da ciò si deduce che la precedente pietra proveniente da Perth, per opera di Edoardo I, non sia quella originale.
Nelle lande deserte, desolate, la voce della potente Madre grida per il suo parto regale. L’uomo è rimasto solo, senza guida, non rendendosi conto di essere un comune mortale. Gli ultimi esponenti dei vari paesi non sono che simulacri di ciò che un tempo significava essere re, in tutta la pienezza che questo ruolo richiede, spirituale, sacro ed eroico.
Fu proprio la Pietra del Destino a segnare l’inizio di una dinastia regale. Forse venne dal cielo e si fermò per segnare uno spazio sacrale, formando un’aura di energie magiche. Tara fu il cuore celtico del suo popolo.
La Pietra del Destino, insieme agli altri oggetti sacri portati dai Tuatha De Danann. riapparirà in corrispondenti oggetti nel Ciclo del Graal, allo stesso modo che la sede di questo sarà in stretta relazione con l’Isola di Avalon, ma avremo occasione di vederlo nel dettaglio quando parlerò ancora del Graal. Quanto agli stessi Tuatha, essi, secondo alcuni testi, avrebbero abbandonato l’Irlanda, assumendo una forma invisibile come abitanti di meravigliosi palazzi “sotterranei” o di caverne montane inaccessibili agli uomini, fra i quali non tornarono a manifestarsi che eccezionalmente; secondo altri testi, ritornarono nella loro patria d’origine, ad Avalon. Le due versioni si equivalgono, si tratta di due figurazioni del centro primordiale divenuto occulto (“sotterraneo”) e inaccessibile

Da: La magia dei Celti di Pina Andonico Tosonotti
Il mistero del Graal di Julius Evola
http://www.eco-spirituality.org/n0009.htm

giovedì 19 maggio 2011

Canzone di Amairgen


Quando i Túatha Dé Danann vennero sconfitti dai mortali, fu decisiva la magia del grande druido e bardo Amairgen che andò dalla barca alla spiaggia e cantò una canzone, rivolgendosi alla terra d’Irlanda. I sortilegi dei Túatha dé Danann si spezzarono di fronte all’ispirazione del poeta. Questa canzone salvifica rimarrà nota come la Canzone di Amairgen. Vi si trovano 13 immagini che si possono collegare all’anno lunare del Calendario di Coligny.

Canzone di Amairgen – dal Leabhar Gabhàla
(fonte: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis)

Io sono il Vento che soffia sul mare;
Sono l’Onda dell’Oceano;
Sono il Mormorio dei Flutti;
Sono il Toro delle Sette Battaglie;
Sono il Rapace sulla Rocca;
Sono un Raggio del Sole;
Sono il più Bello dei Fiori;
Sono un Cinghiale Coraggioso;
Sono un Salmone nel Fiume;
Sono un Lago nella Pianura;
Sono l’Abilità dell’Artigiano;
Sono una Parola di Scienza;
Sono la Lancia che dà Battaglia;
Sono il dio che crea nella mente dell’uomo il Fuoco del Pensiero;
Chi dà luce all’assemblea sulla montagna, se non io?
Chi può dire quale sia l’età della luna, se non io?
Chi può indicare il luogo dove il sole va a riposare, se non io?
Chi richiama gli armenti dalla Casa di Tetra?
A chi sorridono gli armenti di Tetra?
Chi è il dio che forgia gli incantesimi -
- l’incantesimo della battaglia ed il vento del mutamento?


I - La Scogliera
(30 ottobre – 25 novembre)
Am fuaim mara

Benvenuta, Luna della Scogliera! L’anno varca il confine tra
Luce e Oscurità, le forze della crescita dormiranno sui mari
dell’Altromondo. Anche noi ci volgiamo all’interno, per riempire
le nostre anime del buio nutriente oltre il nostro sé

Ora che le comunità di lingua celtica sono state spinte a ovest fin sulla stretta “fascia celtica” lungo la costa atlantica, quel rumore echeggia costantemente nella coscienza di quelle genti ed è entrato a far parte dei canti e delle storie dei popoli celtici, così come le onde battono incessantemente (specie nel silenzio invernale) contro le alte scogliere dell’Irlanda occidentale e delle Ebridi esterne, in Cornovaglia e nel Galles sud-occidentale.
Ma anche quando i paesi celtici si stendevano nel cuore dell’entroterra fra regioni di foreste e di montagne, la costa marina esercitava una forte attrazione sulla loro immaginazione. Era il confine tra il nostro mondo e l’Altromondo, poiché salpando verso occidente e attraverso l’oceano si lasciavano dietro di sé le sicurezze della vita terrena, e sarebbero ben presto giunti a contemplare la reale immensità di quel piano di esistenza liquido ed essenzialmente non umano- anche se la nostra realtà quotidiana è ben poca cosa se paragonata al potenziale illimitato dell’Altromondo da cui proviene.
Gli antichi Celti guardavano a Ovest verso il Morimarousa, l’oceano primordiale che all’inizio dei tempi aveva partorito le solide terre su cui vivono gli umani, e credevano che i morti, nel loro viaggio di ritorno verso l’Altromondo, passassero prima attraverso la dissoluzione in quel mare. Nel famoso aneddoto riportato dal cronista del sesto secolo Procopio, ci viene detto che alcuni abitanti della costa atlantica fungevano da traghettatori per i defunti. Svegliati a mezzanotte da un richiamo misterioso, essi saltavano verso ovest con un carico di passeggeri invisibili. Dopo un giorno e una notte di viaggio, raggiungevano un’isola in cui sbarcava la folla invisibile (alleggerendo sensibilmente l’imbarcazione), mentre una voce disincarnata li chiamava per nome e discendenza. La tradizione irlandese è coerente con questo modello: si credeva che i morti ricercassero dapprima un piccolo gruppo di isole chiamate Teach Duinn (Casa di Donn) al largo della costa sud-occidentale d’Irlanda, dove Donn, uno dei figli di Mil (antenati dei Gaeli moderni) aveva incontrato la morte trasformandosi così nel Dio dei Morti, il capo che da quel momento in avanti avrebbe incontrato tutti i defunti d’Irlanda. Dopo aver soggiornato per un certo periodo nel suo regno, i defunti proseguivano verso altre parti dell’Altromondo.
Questa luna ci porta verso il cuore dell’oscurità dove i confini, divenuti invisibili, si dissolvono infine dalla nostra coscienza e ci mettiamo a disposizione del potenziale di fertilità dell’Altromondo. Così preparati, ci prepariamo all’esperienza di giamos.


II -  La Marea
(26 novembre – 23 dicembre)
Am tond trethan

Benvenuta, Luna della Marea! L’oscurità ha raggiunto il suo apice
e spazza via i resti dell’anno passato. Noi spazziamo via tutti i ricordi
di errori passati e ci prepariamo al nuovo inizio.

Non si tratta più dell’acqua che batte contro la scogliera, ma di un’onda che scorre libera, parte del vasto e misterioso movimento del regno marino. Nella tradizione irlandese l’espressione thar naoi dtonn (“oltre le nove onde”) definisce il punto in cui le leggi stabilite sulla terra devono lasciare il posto all’imprevedibile fluidità dell’oceano dell’Altromondo. L’onda dell’oceano, ritirandosi dalla riva, ci porta nelle profondità più remote, nella misteriosa Casa di Tethra che è la reale dimora dei poteri dei Fomori. Si tratta di un luogo pericoloso (qualsiasi luogo subacqueo è per definizione ostile agli umani che necessitano di respirare, a meno che non prendano precauzioni speciali), ma è anche la fonte di ogni fertilità, il primo collegamento della grande catena della vita; se si viaggia fin lì si troverà il potere vivificante che sta dietro alla maschera della morte. Al termine del suo canto Amairgen chiede: Cia beir buar o thig Tethrach? (“Chi porterà il bestiame dalla casa di Tethra?”) Un’antica tradizione sostiene che questo bestiame siano in realtà le stelle che sorgono dal mare, ma nel contesto dell’invocazione di Amairgen sono ovviamente qualcosa di più delle stelle fisicamente presenti nel cielo. Un bardo come Amairgen che ha viaggiato nel buio della casa di Tethra ed è riuscito a tornare sarà in grado di richiamare dall’inconscio immagini che danno la vita, così come le stelle emergono dall’abisso ogni notte sul percorso a mo’ di ruota che tracciano nei cieli. Il buar Tethrach è la ricompensa finale per coloro che rischiano se stessi nel mondo al di là della coscienza; e le leggende di tutto il mondo celtico che parlano di bestiame magico che esce dalle profondità acquatiche riflettono proprio questo motivo.
Nel corso della stagione oscura, con le forze della crescita immobilizzate, si può dire che l’anno soggiorni nella Casa di Tethra. Ma per prepararsi alla rinascita, i ricordi negativi del passato non devono essere proiettati sull’oscurità. Non si deve consentire ai veleni di restare nel terreno in cui germoglieranno i semi. L’onda che ci porta via dalla terra fin nelle buie profondità deve anche lavare via da noi la contaminazione del ciclo passato, così che possiamo giungere al ventre della rinascita purificati da ogni negatività.


III - Il Cervo
(23 dicembre – 20 gennaio)
Am dam secht nd’írend

Benvenuta, Luna del Cervo! Il cervo degli déi balza fuori dalla fredda foresta,
una scintilla di luce solare brilla tra le sue corna.
Portiamo le nostre menti a seguire la luce che cresce e ci guida
attraverso tempi oscuri
.

Alcuni fra i primi studiosi hanno tradotto questa frase con “Sono un toro dei sette combattimenti”, poiché dam può significare sia “bue” che “toro” o “cervo”. Il termine dam pare designasse in origine la natura bellicosa di questi animali, e veniva applicato metaforicamente ai guerrieri umani. Nella parlata irlandese moderna, damh ha finito per significare quasi sempre e solo “bue”; è andato perciò perso il suo antico collegamento con la lotta alla vittoria.
Il Cervo è il primo dei quattro animali sacri citati da Amairgen. Pare esistere uno stretto rapporto tra il Cervo e il Cinghiale: entrambi sono creature dell’Altromondo che varcano i confini tra i mondi con facilità, fungendo spesso da messaggeri o guide tra una parte e l’altra del confine. Proprio come il cinghiale bianco condusse Pryderi nella trappola dell’Altromondo architettata da Llwyd ap Cil Coed nel Terzo Ramo dei Mabinogi, così la caccia al Cervo Maschio inaugura gli eventi magici in Geraint ac Enid e nella sua controparte continentale, Érec). Insieme a questa somiglianza di ruolo abbiamo visto che esiste anche una complementarietà: quando uno dei due animali è associato con la metà “giorno” dell’esistenza, all’altro viene data la metà “notte”.  E così, quando il Cinghiale si insedia nell’Altromondo dopo Beltane egli diviene un animale solare col dono della saggezza poetica, mentre il Cervo è legato alla terra verde e interiormente in crescita, proprio come Cernunnos che viene sospinto nelle foreste del nostro mondo e inizia la crescita delle sue corna. E dopo Samhain, quando il Cinghiale (ora una Scrofa) vaga sulla terra desolata nella forma del temibile Hwch Ddu Gwta, il Cervo si trova nei regni celesti come presenza luminosa, a portare la speranza.
Quest’ultima veste del Cervo è familiare nel folklore: numerose leggende locali (in particolare quelle associate a Sant’Eustachio e Sant’Uberto) parlano di un cervo meraviglioso dalle corna luminose la cui apparizione porta il miglioramento negli affari umani. Nel contesto che ci interessa, egli è il messaggero più appropriato per il grande cambiamento che avverrà dopo il Solstizio d’Inverno. Nonostante la terra rimanga buia e senza frutti e le notti siano ancora molto più lunghe dei giorni, la luce ha iniziato a crescere in modo impercettibile. Ci troviamo ancora nell’abisso della modalità giamos, ma una scintilla brilla di fronte a noi ricordandoci di non perdere il contatto con la forza vitale, poiché vivremo ancora nella luce. Sarà nostra guida il “cervo con corna di sette punte” che ha attraversato molti cicli di crescita e decadimento ed è sempre riuscito ad aprirsi la strada verso un nuovo trionfo della vita.
Man mano che la luna cresce, contempliamo allora la luce – senza associarla a un qualche significato o scopo, ma puramente come fenomeno luminoso che brilla oltre l’oscurità in cui si trovano ora immobili i nostri spiriti.


IV - Il Diluvio
(21 gennaio – 17 febbraio)
Am loch i m-maig

Benvenuta, Luna del Diluvio! Pioggia e neve coprono la terra d’acqua,
il duro terreno avrà il suo disgelo che lo trasformerà in fango fertile
dove potranno germogliare i semi.
Qualsiasi parte di noi che sia congelata e rifiuti di crescere
deve lasciare il posto al dissolvimento benedetto del Diluvio


Come molti altri poeti, i Celti avevano un mito del diluvio; e come in altri miti di questo genere, l’evento era raffigurato in modo ambiguo, sia come un disastro che come una fonte di buone cose. Tutta l’acqua (cioè l’essenza della fertilità) appartiene alle divinità fomoriche, che la mantengono nel mondo sottostante. Se l’acqua non fosse sfuggita al regno dei Fomori per un incidente o appositamente, nel mondo superiore non esisterebbero laghi e fiumi per l’irrigazione. È quasi sempre una figura femminile a catalizzare l’evento. Probabilmente la versione più famosa di questo mito nella tradizione celtica è il racconto irlandese del Pozzo di Segais.
Questo pozzo apparteneva a Nechtan (“Grande Nipote), il cui nome proviene dalla stessa radice del latino Neptunus (Nettuno era un dio delle fonti prima di essere assimilato al greco Poseidone, trasformandosi così in un dio del mare) e si riferisce in genere all’antico concetto indoeuropeo del dominatore dell’acqua come “Nipote delle Acque”. Sul pozzo di Nechtan facevano ombra i nove noccioli della saggezza, i cui frutti cadevano nell’acqua e le davano la qualità dell’illuminazione divina, molto ricercata dai bardi (le nocciole sono inoltre mangiate dal salmone nello stagno, impregnando la sua carne della stessa qualità). Soltanto Nechtan e i suoi tre coppieri Fleasc, Lamh e Luamh avevano il permesso di avvicinarsi al pozzo. Ma la dea Boann (Bó-fhionn, la “Mucca Bianca”) desiderò bere dal pozzo per aumentare il proprio potere. Si avvicinò a esso in segreto, ma il pozzo esplose di fronte alla sua presenza non autorizzata e inondò la terra, scorrendo infine verso il mare nella forma del fiume Boyne, in cui lo spirito di Boann avrebbe dimorato di lì in avanti. La stessa storia si raccontava circa le origini degli altri fiumi (fra cui lo Shannon), ma il Boyne era chiaramente considerato il primo e principale tra tutti i fiumi, addirittura il Drumchla Daimh Díle (“Tetto dei Diluvi”), fonte reale di tutti i fiumi del mondo; in tal senso, il mito della sua origine deve essere considerato come il mito dell’origine di tutte le acque. E sebbene a un certo livello la storia sembri terminare tragicamente per Boann, il cui piano era stato sventato, in realtà ella assume il ruolo di nutrice e di donatrice di vita della Dea-Terra favorevole alla Tribù umana. Boann pare incarnare il ruolo di un Prometeo femminile che ruba tesori vitali dal regno degli déi per renderli accessibili ai mortali.
Dato che durante questo periodo lunare si celebra la festa di Imbolc, e poiché Brigid è la stessa Dea-Terra la cui energia ispira la Tribù, è idoneo considerare la sua mitologia accanto alla storia del diluvio e osservare i riferimenti incrociati che appaiono. Nella tradizione celtica il collegamento di fuoco e acqua (due opposti apparentemente polari) diviene la rappresentazione simbolica primaria della fertilità e della guarigione. Brigid accende il fuoco nella terra (ed è anche il potere del sole che dà la vita), ma è inoltre la custode delle falde acquifere della Terra, e invia fiumi e sorgenti a compiere la loro missione di fertilità. Brigid è quindi patrona sia del fuoco che dell’acqua, e trae da questo i suoi attributi. Va notato che anche i “Nipoti delle Acque” della cultura vedica e persiana (legati a Nechtan dalle stesse radici indoeuropee) esprimono questa stessa idea di “fuoco nell’acqua”.
L’ultima, lunga parte della metamorfosi invernale che porta alla primavera è solitamente un periodo di neve e di pioggia abbondanti. Man mano che i giorni si allungano e la maggiore quantità di luce impedisce al gelo di entrare nelle profondità della terra, quest’abbondanza d’acqua riesce a percolare nel terreno, ammorbidendone la composizione e preparandolo a nutrire le piante che si stanno lentamente risvegliando. E in effetti, poco tempo dopo la scomparsa di questa luna, iniziamo a vedere i primi segni del risveglio: crocus e narcisi selvatici emergono tra la fanghiglia del disgelo. Tradotto nei termini del nostro mondo interiore, utilizziamo le proprietà acquose di questa stagione per compiere il disgelo nei nostri spiriti, conducendoli fuori dalla loro rigidità invernale e preparandoli per la modalità samos di crescita e di espansione.
Così, mano a mano che la luna cresce, acquisiamo consapevolezza della raccolta delle acque nelle profondità amorfe e senza dimensione della Casa di Tethra; percepiamo la loro crescente  pressione contro la barriera di terreno inerte, la loro brama di esprimere una manifestazione cosciente
.

V - Il Vento
(18 febbraio – 17 marzo)
Am gaeth i m-muir

Benvenuta, Luna del Vento!
Forti venti soffiano sulla terra desolata
animando di vita le acque col loro respiro.
facendo di noi strumento di creazione

Forti venti si alzano man mano che l’anno si sposta verso l’Equinozio. Il “vento pazzo di marzo” spazza via le foglie e i rami morti che ingombrano la superficie del terreno, esponendone una parte più grande alla luce crescente; tutto questo ha però anche un significato mitologico. In molte culture, il concetto dello spirito è collegato metaforicamente al respiro: il latino spiritus, per esempio, e l’ebraico ruach, che nel resoconto biblico della creazione “aleggia sopra le acque”; il vento che somiglia al respiro di un essere vivente è in realtà il soffio di vita di un grande Potere che sta dietro all’intero mondo naturale, ed è così manifestazione anche del suo aspetto creativo. I Celti condividevano questo linguaggio simbolico (l’antico celtico anatlon, “respiro” è chiaramente collegato ad anatiâ, “anima”), di modo tale che, in termini mitologici, una forte folata di vento indica l’infusione dell’anima e del potere creativo. Nel Lebor Gabála i Tuatha Dé Danann, che sono déi della creatività cosciente, appaiono improvvisamente in Irlanda provenienti dall’aria, su nuvole portate dal vento. Nel Preiddeu Annwn, il Calderone dell’Altromondo della creatività viene alimentato (“ispirato”) dal respiro delle nove fanciulle (o anadyl naw morwyn) che sono la Dea manifestata in nove aspetti.
Seguendo la sequenza di questo immaginario nel conto delle nostre lune, scopriamo che il “vento sul mare” segue in modo logico la manifestazione del lago nella pianura. Le acque sono sfuggite dall’abisso fomorico portando l’essenza della fertilità nella luce del giorno, ma rimangono inerti, senza direzione né scopo. Ora lo spirito, il Vento Divino, deve insufflarsi nel loro fertile potenziale, instillando nelle acque l’idea della crescita. Dal punto di vista della nostra reazione soggettiva a questo punto del ciclo annuale, dobbiamo consentire al nostro sé interiore, scongelato e irrigato dall’esperienza della luna precedente, di aprirsi al dono dello Spirito. Ora siamo pronti a contemplare la creatività futura, il ritorno dell’azione cosciente.
Con questa luna quindi, ritorniamo nuovamente alla vita ricevendo il Soffio Divino, che ci prepara per la prossima lunazione.
Mentre la luna cresce, diveniamo consapevoli dell’assemblea dei venti, i quali soffiano da quelle regioni dell’Altromondo in cui ha sede l’energia samos. Inseguendo le nuvole scure delle tempeste di marzo, essi portano con sé gli dei della coscienza e della personalità, le divinità dell’attività manifesta. Con la luna piena percepiamo appieno la portata del vento su di noi, assaporiamo la vita che respira dentro di noi, il potere che esso ci conferisce, così perfettamente idoneo ai contenitori psichici che abbiamo preparato. E mentre la luna cala, continuiamo a far entrare in noi lo Spirito col nostro respiro, raccogliendo e compattando la nostra forza per il nuovo ciclo di lavoro che sta per arrivare
.

VI - La Lacrima Solare
(18 marzo – 14 aprile)
Am dér gréne

Benvenuta, Luna della Lacrima Solare!
I primi giorni di calda luce irrompono nel tempo del freddo,
la terra è sveglia, giovani germogli si distendono verso il sole.
Tracciamo i nostri sogni nella luce
.

Passato l’equinozio, nella seconda metà del trimestre primaverile trova alfine piena realizzazione l’invocazione del fuoco. L’acqua, supporto necessario della vita, si è diffusa sulla Terra, ricevendo quindi un’anima (seme) dallo Spirito dei venti divini. Questo seme ora nasce, si manifesta, e si apre al nutrimento appassionato della fiamma solare.
Il fuoco nell’acqua è la metafora principale della guarigione, dell’energia di affermazione della vita nella tradizione celtica. A questo punto dell’anno, il fuoco viene a vivificare l’inerte freschezza dell’acqua, a trasformare la vita potenziale in vita reale, fungendo da catalizzatore di nascita. Una goccia liquida, una lacrima caduta dal sole esprime le amichevoli qualità di questo fuoco in forma acquea.
I germogli appena risvegliati, bucando il disgelo del terreno alla ricerca del sole, sono come versioni condensate, abbreviazioni delle piante che diverranno in futuro, quando fusto, rami, foglie e fiori si saranno differenziati e avranno assunto le loro proprie funzioni. Così i nostri progetti creativi devono ora esistere in forma immaginativa (programma dei nostri scopi), prima di poter assumere la forma materiale prodotta dall’interazione della nostra volontà con le circostanze del mondo. Ciò che creiamo deve esprimere i nostri desideri più profondi, quello che la nostra natura essenziale brama ardentemente, ciò che darà vita ai nostri talenti nel modo più autentico: per scoprirlo dobbiamo usare il potere della nostra immaginazione, il Calderone su cui hanno soffiato le nove incarnazioni della Dea e che è ora riscaldato dalla fiamma solare. Facciamo uno sforzo per esporre le regioni oscure in cui sono nati i nostri sogni alla luce del giorno, al principio samos, così che i desideri possano rivelarsi come immagini che diverranno poi il fulcro
di attività creativa.
Così, man mano che la luna cresce, percepiamo il confortevole calore del sole filtrare nel nostro essere, nella forma di una grande goccia di fuoco liquido. Durante la luna piena lasciamoci scaldare e illuminare completamente, invitando quella chiarezza a raggiungere i recessi più oscuri delle nostre anime, senza temere nulla. Durante la luna calante osserviamo ciò che abbiamo liberato sorgere dalle profondità fomoriche e aprirsi alla vita
.

VII Il Falco
(15 aprile – 12 maggio)
Am séig i n-aill

Benvenuta, Luna del Falco!
L’araldo dell’estate è là fuori sulla Terra,
i fiori si gonfiano ed esplodono, l’inverno arretra.
Diveniamo campioni-guerrieri della luce,
aprendo la strada ad un gioioso trionfo dentro di no.

Il Falco è il secondo dei quattro animali sacri citati nella composizione di Amairgen. In altri contesti al suo posto vi è solitamente un’aquila, come nelle storie di Fintan Mac Bóchra e Tuan Mac Cairill; ma l’antico termine irlandese séig pare denotasse una varietà di uccelli da preda, fra cui probabilmente l’aquila. Siamo di nuovo di fronte a una rupe, confine tra le metà luminosa e oscura dell’anno, poiché in questo mese attraversiamo di nuovo tale barriera. Ma le sue caratteristiche sono cambiate: invece della tetra scogliera marina su cui battono le onde, protesa sulla buia incertezza dell’oceano invernale, esso ora porta alla sicurezza della terra fertile e illuminata dal sole, e vi si posa il Falco della coscienza risvegliata – come quello che videro Mael Dúin e i suoi compagni mentre facevano vela sui mari dell’Altromondo, il Falco di una delle ultime isole che visitarono e da cui seppero di essere vicini alla nativa Irlanda.
I falchi appaiono con ruoli diversi nella tradizione celtica: il figlio che Brigid ha avuto da Bres Mac Elathan si chiama Ruadhán (“il Rosso”), che può anche significare “gheppio” o “sparviero” (e potrebbe esserci molto di più di quanto appare nello sparviero offerto come nobile premio nel racconto Geraint ac Enid). Ma forse il riferimento più significativo è quello del nome Gwalchmai (“Falco di Maggio”), uno dei principali compagni di Artù nella tradizione gallese. Gwalchmai assiste l’eroe Culhwch nel conquistare la Fanciulla dei Fiori Olwen strappandola al padre Gigante Biancospino in uno dei più noti miti relativi a questa stagione; dai romanzi continentali (dove egli è noto come Gawain, forse dal cornico Gwalghwynn o dal bretone Gwalc’hwenn, “Falco Bianco”) è evidente che egli era un tempo il protagonista principale di tali cerche. Il “Falco di Maggio” è considerato il catalizzatore finale nel cambiamento da giamos a samos: è la sua azione decisiva e piena di volontà a liberare le energie della crescita della Terra dal suo esilio sotterraneo e a permettere di manifestarsi all’amorosa stagione piena di attività che è l’Estate. Che poi sia il Maponos o no (al solito, la tradizione celtica rifiuta di essere categorica su un punto del genere), egli fornisce comunque l’impeto iniziale che porterà al trionfo del Maponos.
Anche noi cominciamo a desiderare l’azione sentendo il potere di questa vasta presenza attiva che spazza la Terra: il marc’hek glas, il gigantesco cavaliere verde della primavera, che Per-Jakez Hélias presenta in un famoso poema come una tradizione di sua nonna. Avendo gradualmente ricevuto potere dall’essenza di acqua, aria e fuoco durante la nostra permanenza nel ventre-calderone della Dea, siamo ora completi, pronti a rompere i nostri gusci protettivi e ad esprimere le nostre volontà. Seguendo il passaggio della Terra nella modalità samos, manifestiamo ora all’esterno le energie che conservavamo dentro di noi.
Nel periodo di crescita della luna diveniamo consapevoli della rupe che si avvicina, dietro la quale vi è la Terra, verde e invitante, pronta a soddisfare i nostri desideri. In cima alla rupe attende il Falco di Maggio, in qualità di sentinella e di faro. Con la luna piena raggiungiamo la rupe e arriviamo faccia a faccia col Falco, identificandoci con lui e assorbendo la sua energia sconfinata e di battaglia. E mentre la luna cala, lo seguiamo nella sua cerca per liberare la Fanciulla dell’Estate, viaggiando in terre verdi e sempre più verdi, lasciandoci possedere dallo spirito dell’avventura.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev

martedì 29 marzo 2011

La tradizione orale celtica



In una certa parrocchia di Galway ci sono i più bravi narratori di tutta l’Europa occidentale. Almeno secondo quanto ha affermato di recente un esperto di folklore irlandese, riferendosi all’arte del raccontare storie tradizionali. In effetti sembra proprio che le remote regioni d’Irlanda e le isole occidentali della Scozia rappresentino l’ultimo rifugio di quest’arte antica in tutta l’Europa occidentale. In questi luoghi è ancora possibile imbattersi in un vecchio o un’anziana donna che sono in grado di raccontare decine, o addirittura centinaia, di “c’era una volta” o “tanto tempo fa”, e in alcune zone la gente si riunisce ancora nelle case per ascoltare tali racconti. Questi narratori sono persone che fin dalla loro giovinezza hanno sfruttato ogni occasione per arricchire il proprio repertorio e per perfezionare la loro maniera di porgerlo. Molti di coloro che si riuniscono davanti al focolare per ascoltarli hanno già sentito quelle storie prima. Alcuni le conoscono perfino a memoria, anche se non oserebbero mai recitarle davanti a un pubblico. Ma questa mancanza di novità non arreca alcun detrimento al piacere di ascoltare quelle storie ancora una volta.
Una breve descrizione di tale riunioni nella casa di un narratore ci è stata fornita da Alexander Carmichael alla fine del 1800.
Apprendiamo quindi che al centro della casa era acceso un fuoco di torba; che la casa era piena di gente, con le ragazze accoccolate tra le ginocchia dei propri padri, fratelli o amici, e i ragazzi appollaiati un po’ dappertutto; che il padrone di casa e la sua famiglia e i vicini erano impegnati in faccende quali intrecciare rametti di erica per fabbricare funi per i tetti di paglia o per fare cestini, filare la lana, intagliare il legno, lavorare a maglia, cucire, e che tutti conversavano abilmente. Con “la gentilezza propria di quella gente” lo straniero era invitato a farsi avanti per occupare la sedia libera lasciata apposta per lui accanto al padrone di casa, al quale doveva chiedere debitamente di raccontare una storia:

“Che il padrone di casa racconti per primo
e poi l’ospite fino al mattino”.

Questa narrazione era ricca di “avventure, azione e pathos” ed era raccontata “in maniera semplice seppur vivace, a volte drammatica, catturando la totale attenzione degli ascoltatori”.
Ecco che nelle memorie e sulle labbra di questa gente di campagna sopravvivono le tradizioni .
Nel piccolo villaggio montano di Cìllrialaig, nell’angolo sud occidentale della contea di Kerry, J.H. Delargy, Direttore Onorario della Commissione per il Folklore Irlandese, incontrò nel 1923 “l’uomo nei cui racconti ho trovato l’ispirazione per raccogliere, per quanto mi è stato possibile, le tradizioni non scritte della gente d’Irlanda”. Si trattava di Seán O’ Conaill, un pescatore-contadino, allora settantenne. Vale la pena citare almeno in parte l’ampia descrizione che il professor Delargy fece della sua storia e della sua arte.
“La sua famiglia aveva vissuto nello stesso posto per almeno cinque generazioni… Egli non aveva mai lasciato la sua regione natìa tranne che in quella memorabile occasione in cui si era recato in treno alla famosa fiera di Killorglin ed era tornato a casa a piedi! Non era mai andato a scuola e, secondo la mentalità ristretta dei funzionari del censimento, era un analfabeta. Non parlava e non capiva l’inglese, ma era uno degli uomini più istruiti in materia di letteratura orale che abbia mai conosciuto, la sua mente era una miniera di tradizioni di ogni tipo, annedoti succosi, racconti eroici dal complicato intreccio, e proverbi, rime e indovinelli, e altri aspetti della ricca tradizione orale comune a tutta l’Irlanda di tre secoli fa. Egli era cosciente della propria capacità letteraria e provava un grande piacere nel narrare le sue storie; Il suo linguaggio era chiaro e incisivo, e racchiudeva in sé la sostanza della letteratura.
Era mia abitudine andarlo a trovare  tre sere a settimana durante le mie vacanze in quella località. La sua casa era un cottage di due stanze dal tetto di paglia, una stanza era la cucina dove si svolgevano tutte le attività domestiche, l’altra era la stanza da letto. In questa c’era un soppalco dove c’era un letto, l’attrezzatura da pesca, un filatoio e del  legname proveniente da una vecchia fattoria.
Nel caminetto della cucina era acceso un fuoco di torba e ai due lati del focolare c’erano dei sedili di pietra dai quali si poteva scorgere il comignolo coperto di fuliggine e le stelle brillanti nel cielo. Alla destra del focolare c’era un tavolo di abete ben pulito e nell’angolo un sacco di sale per conservare il pesce. Di solito mi sedevo su questo sacco, tirando il tavolo verso di me, e su di esso a più riprese ho scritto, sotto la dettatura del mio amico, circa 200 brani di narrativa. Prima di cominciare a lavorare, aiutavo Seán e la sua vecchia moglie a riassettare la casa: spazzavo il pavimento, spargevo sabbia pulita, portavo dentro la torba e accendevo la lampada ad olio. Uno dei miei compiti consisteva nello scacciare le galline che si intrufolavano nella mezza-porta. Dal vano della porta aperta si poteva vedere il mare e il lontano fragore delle onde entrava nella cucina ed era il costante sottofondo alla narrazione delle storie.
Mentre scrivevo sotto la dettatura di Seán, arrivavano i vicini di casa, uno a uno, o in piccoli gruppi, e si mettevano ad ascoltare fino all’ultima parola messa per iscritto. Poi il vecchio narratore prendeva un tizzone ardente dal fuoco, lo premeva con il pollice incallito sul tabacco della sua pipa, allungava la schiena sulla sedia impagliata e si godeva le congratulazioni degli ascoltatori che, sebbene avessero già sentito quel racconto, erano lieti di riascoltarlo ancora. I loro consensi si mescolavano gradualmente ai pettegolezzi, in cui si discutevano gli eventi accaduti nel villaggio. Poi, dopo un po’, qualcuno chiedeva al “padrone di casa” di raccontare un’altra storia, e per circa un’ora o quasi venivamo nuovamente trasportati nella terra dove i sogni diventano realtà. Le persone ascoltavano in silenzio, scoppiando in sonore risate per la sconfitta del cattivo o per qualche parentesi umoristica introdotta nel racconto; a volte sottolineavano con un applauso il valore dell’eroe che combatteva in circostanze impossibili contro i giganti dalle sette teste o i mostri venuti dal mare, o le file serrate delle armate del re dell’Oriente”.
Queste storie venivano raccontate intorno al fuoco durante le lunghe serate invernali e i vecchi affermano che c’erano dei narratori che potevano recitare una storia diversa ogni sera per tutto l’inverno, ma che portava sfortuna raccontare tali eroiche gesta di giorno. Oltre a questa regolare attività nella stagione invernale, i narratori svolgevano un ruolo riconosciuto in determinate occasioni cerimoniali: durante le veglie notturne presso i pozzi sacri, dopo le “stazioni” e i servizi religiosi tenuti in case private, alle veglie funebri e ai battesimi, mentre i pescatori spesso ascoltavano storie narrate di notte in attesa di ritirare le reti. I racconti in prosa non erano le uniche forme tradizionali che si narravano durante queste riunioni; c’erano anche rime, indovinelli, canzoni, preghiere, proverbi, tradizioni genealogiche e locali. Ma il posto d’onore era dato ai racconti di eroi e di prodigi, la maggior parte dei quali richiedevano un’ora per essere narrati, anche se ce n’erano alcuni lunghi sei ore o più. Per le donne era considerato disdicevole narrare storie di eroi tradizionali. Inoltre, nessun uomo avrebbe mai raccontato una storia in presenza del padre o di un fratello maggiore, ed erano proprio i giovani che nelle serate d’inverno frequentavano regolarmente le case dove venivano raccontate queste vicende.
I narratori non si vantano di essere gli autori delle loro storie. Infatti, spesso concludono i loro racconti più estesi con il tradizionale finale: “Questa è la mia storia! Se c’è una menzogna, così sia! Non sono io quello che l’ha inventata”. Probabilmente hanno appreso le storie ascoltando altri narratori più anziani, magari membri della loro stessa famiglia, oppure vicini di casa, “viaggiatori”, o mendicanti, e si può tracciare l’iter di certi particolari racconti risalendo da un narratore all’altro per diverse generazioni fin ad arrivare, anche se in casi molto rari, ai primi anni del XVIII secolo. La capacità di memoria di queste persone illetterate è davvero sorprendente per gente come noi abituata a testimonianze scritte e stampate. Di un narratore di Benbecula, morto nel 1954, si diceva che se sentiva una sola volta un racconto e poi lo narrava lui stesso una volta,  era in grado di ricordarlo per tutta la vita. Perciò a volte recitava storie che aveva sentito una sola volta, cinquant’anni prima. Un pescatore-fittavolo di Barra sosteneva che da giovane si era recato ad ascoltare lo stesso narratore praticamente ogni sera d’inverno per quindici anni e che raramente aveva sentito la stessa storia due volte.
Un aspetto interessante dell’arte del narratore, e che testimonia la sua antichità, è l’uso che si fa di brani descrittivi stereotipati o “sequenze” retoriche. Arcaiche e oscure nella pronuncia, vengono introdotte quando occorre descrivere un eroe che si prepara per un’avventura, una battaglia che sta per essere combattuta, o altre scene ugualmente note. Servono ad abbellire la storia e a impressionare l’uditorio mentre offrono al narratore l’opportunità di prepararsi al passo successivo nella vicenda. Quanti di questi racconti appartengano all’antica tradizione celtica non si può stabilire con certezza, ma possiamo affermare che per quanto riguarda la forma, i personaggi e gli argomenti, essi hanno molto in comune con quei racconti dei manoscritti medievali che costituiscono il vanto e l’orgoglio della letteratura irlandese.

Da: L’eredità celtica. Antiche tradizioni d’Irlanda e del Galles, di  Alwyn D. Rees e Brinley Rees

lunedì 27 dicembre 2010

Natale – Yule – La tradizione della Caccia allo Scricciolo


Un altro costume di “Natale” che ha un significato speciale nella tradizione celtica è la Caccia allo Scricciolo, svolta ora in forma simbolica.
Gli “scriccioli” in gara (dréoilìnì, cioè fratellanze rituali) spendono talvolta delle fortune in costumi e musica. Nella forma di più antica attestazione, che è anche la più semplice, la cerimonia (che si tiene sempre il 26 dicembre, giorno di S. Stefano o “Giorno dello Scricciolo”) iniziava con l’inseguimento di un vero scricciolo che infine veniva lapidato. Il suo corpo era quindi deposto in una scatola o gabbia stupendamente decorata con rami di sempreverdi, nastri colorati e frutti (detti perllan o “frutteto” in gallese) che veniva fissata all’estremità di un palo e portata in parata di casa in casa da una compagnia di danzatori, cantanti e musicisti in costume. La composizione specifica dei personaggi variava ma, almeno in Irlanda, includeva sempre un uomo travestito da “megera” (cailleach) e un cavallino chiamato Lair Bhan (“Giumenta Bianca”). Ovunque fossero accolti, i “ragazzi dello scricciolo”  eseguivano una performance di danza, clownerie e musica nuova e vecchia (parte della quale riferita specificamente all’occasione), e quindi chiedevano la carità “per seppellire lo scricciolo”. In effetti, si trattava più precisamente di soldi non per seppellire lo scricciolo, dato che si riteneva che il suo corpo portasse sfortuna; per vendicarsi, i figuranti di alcune comunità si sbarazzavano infine del cadaverino deponendolo sulla terra della casa che li aveva accolti più miseramente o in modo scortese nel corso della giornata. In altre aree, la sepoltura dello scricciolo era un rituale elaborato e il corpo veniva lasciato in un luogo “liminale” (per esempio sulla riva, né sulla terra, né in mare) dove il suo influsso veniva così neutralizzato. Talvolta, oltre alla ciotola o alla borsa in cui si raccoglievano i soldi, i ragazzi dello scricciolo portavano in giro una grossa ciotola usata più che altro per chiedere da bere (anche se in alcuni esempi significativi veniva riempita prima di ogni altra cosa con una mistura “da bagordi” passata poi tra i partecipanti, da assaggiare versando una quota).
Perché fare di uno scricciolo il fulcro di tutte queste attività goliardiche? Lo scricciolo figura in modo prominente nella tradizione popolare come uccello della divinazione (si pone quindi nella classe “druidica” o “bardica” degli esseri) ed è il protagonista di un racconto popolare molto diffuso (senza dubbio quanto resta di una mitologia molto antica) che spiega il suo appellativo di “Re di tutti gli uccelli”.  La storia narra che in una gara a chi riusciva a volare più in alto, lo scricciolo si posò sulla testa dell’aquila e, una volta che il grande uccello aveva raggiunto i limiti della propria forza, lo scricciolo emerse dal suo nascondiglio e volò più in alto degli altri uccelli, guadagnandosi così la supremazia su tutto il popolo alato, nonostante le sue minuscole dimensioni. Tutto questo ci fa ben capire quanto sia astuto lo scricciolo, pronto a partire da quanto altri hanno raggiunto per dare un colpo al loro orgoglio e metterli fuori gioco all’ultimo momento.
Lo sciamano era spesso conosciuto come “l’astuto”, e il Druido, sciamano a sua volta, è anche “astuto” -  un uomo che può farsi invisibile come lo scricciolo, che può viaggiare sul dorso di una nobile aquila per raggiungere la sua destinazione, preservando contemporaneamente le sue energie.
La tradizione usa chiamare il nido dello scricciolo “Casa del Druido”. Di tutti gli uccelli riveriti dai druidi, lo scricciolo è considerato il più sacro. In Irlanda era chiamato il Drui-en, o l’Uccello Druido: nel Galles la parola Dryw significa sia druido che scricciolo.
Ad ogni Capodanno l’apprendista druido entrava nella foresta alla ricerca della saggezza nascosta, così come un nativo americano sarebbe andato ad una Ricerca della Visione. Se in questa ricognizione avesse potuto incontrare uno scricciolo, lo avrebbe letto come segno della benedizione di una conoscenza profonda che avrebbe ricevuto nell’anno a venire.
I druidi bretoni dicono sia stato lo scricciolo a portare il fuoco dal cielo, ma che nel portarlo sulla terra si fosse incendiato le ali fino a dover passare il suo dono al pettirosso, cui pure si infiammarono le piume. A questo punto entrò in scena l’allodola che finalmente fu in grado di portare il fuoco al mondo. In questa leggenda vediamo la simbologia del passaggio di poteri dello scricciolo, re dell’Anno Calante, al pettirosso, re dell’Anno Crescente.
Lo scricciolo cacciato ed ucciso in modo rituale riproponeva l’idea che la morte di un re nel pieno delle sue forze potesse garantire il passaggio dei suoi poteri al successore.
Llew Llaw Gyffes (il Brillante, il Luminoso Abile di Mano, secondo altri il Leone dalla Mano Ferma), figlio di Arianrhod, è chiaramente un re dell’Anno Crescente o Re Quercia, riconosciuto come tale da sua madre nel momento in cui lo loda dandogli il nome, dopo che egli colpisce uno scricciolo ad una zampa con una fionda, come ci viene narrato nei Mabinogi nel racconto Math figlio di Mathonwy. Egli non lo uccide, ma lo azzoppa, cioè azzoppa il suo animale rivale facendo in modo che possa essere riconosciuto da sua madre come Re Sacro. Graves spiega ne La Dea Bianca che alla morte rituale del re si sostituì il culto di un re che regnasse a lungo, il quale però veniva castrato o azzoppato. Più tardi ancora la zoppìa venne sostituita con la circoncisione e con l’uso di scarpe regali, i coturni. Quando Llew viene a sua volta sacrificato e ucciso da Grown Pebr Lleu si trasforma in un’aquila e vola via per andare a vivere su una quercia. La sua resurrezione ha poi luogo nel cuore dell’inverno, nella stagione della Vecchia Scrofa, Ceredwen.
  
Anche il vischio viene tagliato e appeso come decorazione, oppure come talismano della fertilità sotto cui si baciano le giovani coppie. Solitamente, in situazioni del genere, dobbiamo prendere in considerazione una tradizione precedente di sacrificio. I destinatari del sacrificio di sangue sono invariabilmente i poteri dei Fomori, gli spiriti della Terra la cui insaziabile ingordigia e indifferenza alle preoccupazioni umane mette sempre in pericolo la sopravvivenza della Tribù.
Il sacrificio di sangue è associato all’energia solare in molte culture. Per fare uno spettacolare esempio, i sinistri sacrifici umani che caratterizzavano l’America Centrale avevano l’intento esplicito di mantenere forte il sole; se non veniva ben nutrito di sangue, l’astro luminoso poteva non emergere mai più dal buio Mondo Sotterraneo in cui scendeva la sera. La lucentezza di sangue, oro e luce solare venivano collegate fra loro, e potevano trasformarsi l’una nell’altra: l’oro condensava perciò le proprietà di guarigione e di vita della luce solare in forma metallica, mentre il sangue era in grado di aumentare il calore del sole stesso. Si dava quindi del sangue agli spiriti della terra profonda che imprigionavano il sole nei periodi di buio. I Celti condividevano chiaramente una simbologia di questo genere, e possiamo certamente trovarne altre applicazioni nel loro rituale del Solstizio d’Inverno. Fino al Diciannovesimo Secolo, i sacrifici di sangue erano una componente delle celebrazioni natalizie (o di Santo Stefano) in molte parti del Galles. In alcune comunità ciò si limitava a sacrifici di bestiame, e poteva essere spiegato come una sorta di medicina popolare; ma in altri luoghi era un rituale che coinvolgeva esclusivamente esseri umani: talvolta un unico individuo designato a caso o tramite estrazione a sorte (per esempio, l’ultimo a svegliarsi al mattino), il quale veniva fustigato con un ramo di agrifoglio fino a far scorrere il sangue, altre volte l’intera comunità, i cui membri si colpivano a vicenda con rami dello stesso albero in un finto combattimento. In ogni caso l’holming (termine con cui questa pratica finì per essere indicata nei distretti di lingua inglese) aveva lo scopo esplicito di versare del sangue.
A questo punto dovremmo analizzare il ruolo ricoperto da un’altra presenza del Natale, l’agrifoglio. Ben noto ai Celti già nelle prime fasi della loro tradizione (come suggerito dal termine in celtico antico kolennos, “pungitore”), l’albero di agrifoglio acquisì un significato religioso in virtù dei suoi tratti caratteristici. Come tutti i sempreverdi, che sono in qualche modo in grado di sconfiggere l’influsso della stagione giamos sul mondo vegetale, esso divenne un simbolo di vitalità divina, di immortalità che trascende i cicli della natura. Come tutte le creature dotate dei tre colori sacri (in questo caso foglie “nere” – o verde scuro -, fiori bianchi e bacche rosse), esso era una manifestazione speciale di divinità, dato che il nero, il bianco e il rosso sono i colori del triplice aspetto della Dea correlato alle tre fasi della Luna: la luna crescente nell’aspetto della Bianca Dea Fanciulla, la luna piena della Rossa Dea Madre e la luna calante della Nera Dea Anziana. Ma a distinguere l’agrifoglio in modo particolare sono le sue spine in grado di estrarre sangue e che suggeriscono le varie applicazioni di tale attività nel mondo umano, che si tratti di scopi militari o rituali.
L’agrifoglio è quindi il sacrificatore divino tra gli alberi; posizionarlo nel momento più buio della stagione giamos, a presiedere sul nutrimento di sangue del Sole rinato, appare del tutto appropriato.
Il sacrificio di sangue è menzionato anche nel contesto della nascita di Pryderi nel Primo Ramo dei Mabinogi: le serve sporcano le mani e il volto addormentato di Rhiannon con il sangue, così che gli altri credano sia stata lei a uccidere il proprio figlio. Il sangue utilizzato è in effetti quello di un cane appena nato. Secondo alcuni ricercatori, il cane è un animale associato con Lugh e con tutte le figure divine o eroiche che lo hanno preso a modello. Forse che questa sia di nuovo un’eco di un sacrificio di sangue che deve avvenire alla nascita del Figlio della Luce? Nonostante altrove nella storia Pryderi sia equino come sua madre, le divinità celtiche hanno solitamente più di una manifestazione animale e sembra del tutto plausibile che cagna e cagnolino siano qui da intendersi come riflesso della Grande madre e del Grande Figlio, proprio come avviene poco dopo con la Giumenta di Teyrnon e col suo puledro. Il cagnolino non potrebbe allora essere una creatura di natura simile a Pryderi e che viene a lui sostituita, non soltanto come richiede la trama dei Mabinogi, ma anche come sacrificio?
È in ogni caso evidente che sia il rituale di Mari Lwyd sia quello della Caccia allo Scricciolo sono collegati da motivi comuni e carichi di riferimenti mitologici, e che un tempo potrebbero aver fatto parte di un’unica cerimonia. In una tradizione rivitalizzata moderna potrebbe essere illuminante combinare le due cerimonie, sottolineando la forza dell’ immaginario mitologico nel loro contesto stagionale.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti. Una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev e L’oracolo dei druidi di Philip e Stephanie Carr-Gomm

venerdì 24 dicembre 2010

Natale – Yule – La tradizione della Mari Llwyd

...Ma quando Pwyll tentò di guardarla in viso, non gli fu possibile, dovette abbassare gli occhi e allora capì che Essa non era una donna bensì una Dea, e che quel posto viveva della Eterna Gloria di Lei.

(I Mabinogion, Evangeline Walton)

Due tradizioni emergono tra le festività del Natale Celtico, e paiono provenire da una radice indigena: la Processione di Mari Lwyd e la Caccia allo Scricciolo (sebbene quest’ultimo costume possa essere di provenienza scandinava). Sono spesso separate nella pratica, ma appaiono collegate in termini simbolici.
La Mari Lwyd (“Maria la Grigia”, ma probabilmente anche “Giumenta Grigia”) viene ancora portata di casa in casa a un certo punto delle festività natalizie in vari distretti del Galles meridionale e centrale. Si tratta di una figura mostruosa composta da un teschio di cavallo montato su un palo, portato da una persona solitamente celata sotto una coperta a dare l’impressione di un essere umano gigantesco con una testa di animale. La mascella inferiore è disposta in modo tale da poterla aprire e chiudere di scatto, e talvolta le orbite sono dotate di occhi di vetro per dare un effetto ancor più terribile. Nastri escono dalle orecchie, si notano campanelle attaccate intorno al collo e, in alcune comunità, i componenti la sua scorta sono anch’essi abbigliati in costumi grotteschi. Nelle processioni del passato si portava anche la Aderyn Pica Llwyd (“Gazza Grigia”), un uccello artificiale appeso a un bastone con mele e arance. A ogni casa il leader della processione bussa  sulla porta col proprio bastone e il gruppo intona una filastrocca in musica chiedendo il permesso di entrare per sé e per la Mari. Gli abitanti della casa replicano con un’altra filastrocca che esprime sospetto e chiede rassicurazioni sul fatto che Mari non causerà violenza e disordine se lasciata entrare; questo porta a un lungo dialogo musicale che culmina nell’apertura della porta per far entrare la Mari. Ella si dimentica ovviamente delle sue promesse e gira per la stanza cerando di agguantare gli abitanti della casa (specialmente le donne), che fingono di esserne terrorizzate. Spesso un bambino piccolo si para di fronte alla Mari e le dà una torta o una caramella, dopodiché il mostro viene improvvisamente soggiogato.
Considerato nei termini più generici,  questo rituale si colloca in un ampio continuum di tradizioni dette del “cavallino” che si ritrovano in tutta l’Europa rurale. Molte località, dall’Inghilterra alla Polonia, hanno una festa (solitamente durante la metà oscura dell’anno) in cui un gruppo di figuranti va di casa in casa con un cavallo artificiale (o qualche altro tipo di mascheramento da cavallo) che finge di attaccare le donne, in particolare quelle non sposate. Talvolta, come accade in alcune aree della Germania meridionale, tale ruolo è demandato ai “diavoli” o ad altre maschere fantastiche. Il significato di un rituale del genere pare risalire alla comune eredità di simbolismo e credenze indoeuropee. Gli spiriti della Terra che governano la fertilità (dai Centauri della Grecia ai divini Ashvin dell’India) erano immaginati con tratti da cavallo, e ogni volta che se ne invocava il potere si utilizzava un immaginario equino. Nel cuore più buio dell’inverno, quando il potere generativo della vita pare essere nel punto più basso, era evidentemente ritenuto appropriato invocare i guardiani primordiali della fertilità della Terra e associarli con i simboli di generazione della Tribù: le donne. I Celti, la cui mitologia trabocca di figure come Eochu, Echbél e March, condividono certamente tale schema concettuale e devono aver preso i propri rituali del cavallino dalla memoria comune della tradizione. Ma ci sono alcuni aspetti della cerimonia di Mari Lwyd che suggeriscono una struttura di riferimento ancor più legata alla specificità celtica.
Per prima cosa, se in altri paesi il cavallino è di sesso indeterminato oppure è esplicitamente maschio (come si addice a una figura che “insemina” simbolicamente le donne), la Mari è sempre dichiaratamente femmina. Ella è quindi la Grande Giumenta, Epona, la Dea-Terra stessa, non soltanto uno degli spiriti della Terra del suo seguito. Sia lo scandalizzato resoconto di Giraldo Cambrensis sull’investitura di un re irlandese che la maestosa forma del cavallo bianco di Uffington, scavata in una collina di gesso nell’antico territorio dei Dobunni, illustrano l’importanza della Grande Giumenta come immagine della Dea-Terra che assicura la Sovranità tramite la propria unione con il sacro re della tribù. Ma anche quando presenta una serie di attributi animali, la Dea-Terra è solitamente concepita in forma antropomorfica nei resoconti della sua interazione con la tribù. Cosa determina quindi la sua apparizione in forma animale?
Il suggerimento più prezioso viene dal Primo Ramo dei Mabinogi: Rhiannon (“Grande Regina”) appare per la prima volta al marito, il nobile Pwyll, cavalcando nello stile tipico di Epona. Ella stessa viene degradata ad un ruolo equino quando il figlio appena nato, Pryderi, viene rapito dai poteri dell’Altromondo, ed è quindi accusata di averlo ucciso. La sua condanna consiste nello stare davanti all’entrata del suo castello e di offrire agli ospiti di portarli in groppa all’interno di esso, dopo aver raccontato in che modo ha ucciso il proprio figlio. Nel Terzo Ramo, quando sia lei che Pryderi (ora adulto) sono prigionieri della fortezza dell’Altromondo di Llwyd ap Cil Coed, sono costretti a indossare gioghi da cavallo intorno al collo. È implicito in entrambi gli episodi che la Dea e suo figlio (il neonato Pridery viene riportato indietro da Teyrnon in compagnia di un puledro magicamente rapito) vengono realmente trasformati in cavalli; e questo è un fatto confermato dalle varianti della tradizione orale, specialmente in Bretagna. La ragione precisa di questa involuzione allo stato animale non viene mai chiarita (eccetto finora nella struttura generale della narrazione, secondo cui riflette la vendetta di Gwawl su Rhiannon e sulla sua famiglia, usando Lwyd ap Cil Coed come agente), ma se, come suggerito da Caitlìn Matthews, Rhiannon e Pryderi rappresentano qui Modron e Mabon (Matrona e Maponos), la Grande Madre e il grande Figlio, la trasformazione potrebbe essere spiegata con la sua funzione nel più ampio contesto mitologico e rituale. La nascita del Figlio della Luce (che diverrà Maponos, il giovane e vigoroso dominatore della metà samos dell’anno) avviene quando l’aspetto materno e umanamente attraente della Dea Terra è addormentato, sostituito dalla Scrofa, la Megera, la Dea nel suo aspetto ostile (forse rappresentata nel Primo Ramo dalle serve che architettano l’umiliazione di Rhiannon). È l’ascesa della Megera a produrre in effetti l’eclissi della Madre, espressa dalla perdita delle facoltà umane quando il personaggio assume caratteri animali (natura animale = giamos; natura umana = samos). Il volto umano e orientato verso la Tribù della Dea tornerà soltanto quando l’anno si avvicinerà alla sua metà luminosa. Llwyd (la “Grigia”) è la figura che possiede la chiave dei cambiamenti.
Considerando nuovamente il nostro rituale del Solstizio alla luce di quanto sopra, ci si rende conto che, nella stagione invernale, Mari Lwyd è una madre che è stata separata dal figlio. Questo porta immediatamente alla mente molte figure di altre mitologie, Dee-Madri che vagano in lacrime su una terra deserta in cerca di un amore perduto (figlio o consorte) collegato al potere della fertilità: Demetra e Persefone, Iside e Osiride, Nanna e Balder, Leminkäinen e sua madre… Nel caso di Demetra e Iside, le dee vaganti acquisiscono un seguito di compagni che assumono essi stessi significato individuale nei miti. Forse che il racconto di Rhiannon, o dell’archetipo da lei rappresentato nel sapere celtico, contenesse un tempo proprio questo elemento, sopravvissuto fino ad oggi nel rituale che ha ispirato? È il proprio il puledro che la Giumenta Grigia o la Grande Giumenta cerca una casa dopo l’altra, e gli strani personaggi che l’accompagnano, suonando campanelle e violini e sventolando nastri, sono gli aiutanti dell’Altromondo che la sostengono nel suo esilio; le loro identità ci sono sconosciute in questo contesto specifico, ma senza dubbio sono molto vicine a quei “compagni magici”  così comuni nella tradizione popolare. Ovviamente, nonostante la possibilità di tali associazioni, la cerimonia funge ancora chiaramente da rituale “cavallino” mirato a ripristinare la fertilità o riattivare i poteri della generazione: anche in esilio, incapace di manifestarsi apertamente nella natura, la Dea-Terra può ancora trasmettere la sua “energia equina” (eoghus) a coloro che ne hanno bisogno, e lo fa con la tipica turbolenza di un “cavallino”.
Che la cerimonia di Mari Lwyd e il racconto di Rhiannon e Pryderi siano effettivamente collegati a livello storico o no, i collegamenti mitologici e poetici sono sempre più evidenti, e non possono essere ignorati.
Da Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev