martedì 29 marzo 2011

La tradizione orale celtica



In una certa parrocchia di Galway ci sono i più bravi narratori di tutta l’Europa occidentale. Almeno secondo quanto ha affermato di recente un esperto di folklore irlandese, riferendosi all’arte del raccontare storie tradizionali. In effetti sembra proprio che le remote regioni d’Irlanda e le isole occidentali della Scozia rappresentino l’ultimo rifugio di quest’arte antica in tutta l’Europa occidentale. In questi luoghi è ancora possibile imbattersi in un vecchio o un’anziana donna che sono in grado di raccontare decine, o addirittura centinaia, di “c’era una volta” o “tanto tempo fa”, e in alcune zone la gente si riunisce ancora nelle case per ascoltare tali racconti. Questi narratori sono persone che fin dalla loro giovinezza hanno sfruttato ogni occasione per arricchire il proprio repertorio e per perfezionare la loro maniera di porgerlo. Molti di coloro che si riuniscono davanti al focolare per ascoltarli hanno già sentito quelle storie prima. Alcuni le conoscono perfino a memoria, anche se non oserebbero mai recitarle davanti a un pubblico. Ma questa mancanza di novità non arreca alcun detrimento al piacere di ascoltare quelle storie ancora una volta.
Una breve descrizione di tale riunioni nella casa di un narratore ci è stata fornita da Alexander Carmichael alla fine del 1800.
Apprendiamo quindi che al centro della casa era acceso un fuoco di torba; che la casa era piena di gente, con le ragazze accoccolate tra le ginocchia dei propri padri, fratelli o amici, e i ragazzi appollaiati un po’ dappertutto; che il padrone di casa e la sua famiglia e i vicini erano impegnati in faccende quali intrecciare rametti di erica per fabbricare funi per i tetti di paglia o per fare cestini, filare la lana, intagliare il legno, lavorare a maglia, cucire, e che tutti conversavano abilmente. Con “la gentilezza propria di quella gente” lo straniero era invitato a farsi avanti per occupare la sedia libera lasciata apposta per lui accanto al padrone di casa, al quale doveva chiedere debitamente di raccontare una storia:

“Che il padrone di casa racconti per primo
e poi l’ospite fino al mattino”.

Questa narrazione era ricca di “avventure, azione e pathos” ed era raccontata “in maniera semplice seppur vivace, a volte drammatica, catturando la totale attenzione degli ascoltatori”.
Ecco che nelle memorie e sulle labbra di questa gente di campagna sopravvivono le tradizioni .
Nel piccolo villaggio montano di Cìllrialaig, nell’angolo sud occidentale della contea di Kerry, J.H. Delargy, Direttore Onorario della Commissione per il Folklore Irlandese, incontrò nel 1923 “l’uomo nei cui racconti ho trovato l’ispirazione per raccogliere, per quanto mi è stato possibile, le tradizioni non scritte della gente d’Irlanda”. Si trattava di Seán O’ Conaill, un pescatore-contadino, allora settantenne. Vale la pena citare almeno in parte l’ampia descrizione che il professor Delargy fece della sua storia e della sua arte.
“La sua famiglia aveva vissuto nello stesso posto per almeno cinque generazioni… Egli non aveva mai lasciato la sua regione natìa tranne che in quella memorabile occasione in cui si era recato in treno alla famosa fiera di Killorglin ed era tornato a casa a piedi! Non era mai andato a scuola e, secondo la mentalità ristretta dei funzionari del censimento, era un analfabeta. Non parlava e non capiva l’inglese, ma era uno degli uomini più istruiti in materia di letteratura orale che abbia mai conosciuto, la sua mente era una miniera di tradizioni di ogni tipo, annedoti succosi, racconti eroici dal complicato intreccio, e proverbi, rime e indovinelli, e altri aspetti della ricca tradizione orale comune a tutta l’Irlanda di tre secoli fa. Egli era cosciente della propria capacità letteraria e provava un grande piacere nel narrare le sue storie; Il suo linguaggio era chiaro e incisivo, e racchiudeva in sé la sostanza della letteratura.
Era mia abitudine andarlo a trovare  tre sere a settimana durante le mie vacanze in quella località. La sua casa era un cottage di due stanze dal tetto di paglia, una stanza era la cucina dove si svolgevano tutte le attività domestiche, l’altra era la stanza da letto. In questa c’era un soppalco dove c’era un letto, l’attrezzatura da pesca, un filatoio e del  legname proveniente da una vecchia fattoria.
Nel caminetto della cucina era acceso un fuoco di torba e ai due lati del focolare c’erano dei sedili di pietra dai quali si poteva scorgere il comignolo coperto di fuliggine e le stelle brillanti nel cielo. Alla destra del focolare c’era un tavolo di abete ben pulito e nell’angolo un sacco di sale per conservare il pesce. Di solito mi sedevo su questo sacco, tirando il tavolo verso di me, e su di esso a più riprese ho scritto, sotto la dettatura del mio amico, circa 200 brani di narrativa. Prima di cominciare a lavorare, aiutavo Seán e la sua vecchia moglie a riassettare la casa: spazzavo il pavimento, spargevo sabbia pulita, portavo dentro la torba e accendevo la lampada ad olio. Uno dei miei compiti consisteva nello scacciare le galline che si intrufolavano nella mezza-porta. Dal vano della porta aperta si poteva vedere il mare e il lontano fragore delle onde entrava nella cucina ed era il costante sottofondo alla narrazione delle storie.
Mentre scrivevo sotto la dettatura di Seán, arrivavano i vicini di casa, uno a uno, o in piccoli gruppi, e si mettevano ad ascoltare fino all’ultima parola messa per iscritto. Poi il vecchio narratore prendeva un tizzone ardente dal fuoco, lo premeva con il pollice incallito sul tabacco della sua pipa, allungava la schiena sulla sedia impagliata e si godeva le congratulazioni degli ascoltatori che, sebbene avessero già sentito quel racconto, erano lieti di riascoltarlo ancora. I loro consensi si mescolavano gradualmente ai pettegolezzi, in cui si discutevano gli eventi accaduti nel villaggio. Poi, dopo un po’, qualcuno chiedeva al “padrone di casa” di raccontare un’altra storia, e per circa un’ora o quasi venivamo nuovamente trasportati nella terra dove i sogni diventano realtà. Le persone ascoltavano in silenzio, scoppiando in sonore risate per la sconfitta del cattivo o per qualche parentesi umoristica introdotta nel racconto; a volte sottolineavano con un applauso il valore dell’eroe che combatteva in circostanze impossibili contro i giganti dalle sette teste o i mostri venuti dal mare, o le file serrate delle armate del re dell’Oriente”.
Queste storie venivano raccontate intorno al fuoco durante le lunghe serate invernali e i vecchi affermano che c’erano dei narratori che potevano recitare una storia diversa ogni sera per tutto l’inverno, ma che portava sfortuna raccontare tali eroiche gesta di giorno. Oltre a questa regolare attività nella stagione invernale, i narratori svolgevano un ruolo riconosciuto in determinate occasioni cerimoniali: durante le veglie notturne presso i pozzi sacri, dopo le “stazioni” e i servizi religiosi tenuti in case private, alle veglie funebri e ai battesimi, mentre i pescatori spesso ascoltavano storie narrate di notte in attesa di ritirare le reti. I racconti in prosa non erano le uniche forme tradizionali che si narravano durante queste riunioni; c’erano anche rime, indovinelli, canzoni, preghiere, proverbi, tradizioni genealogiche e locali. Ma il posto d’onore era dato ai racconti di eroi e di prodigi, la maggior parte dei quali richiedevano un’ora per essere narrati, anche se ce n’erano alcuni lunghi sei ore o più. Per le donne era considerato disdicevole narrare storie di eroi tradizionali. Inoltre, nessun uomo avrebbe mai raccontato una storia in presenza del padre o di un fratello maggiore, ed erano proprio i giovani che nelle serate d’inverno frequentavano regolarmente le case dove venivano raccontate queste vicende.
I narratori non si vantano di essere gli autori delle loro storie. Infatti, spesso concludono i loro racconti più estesi con il tradizionale finale: “Questa è la mia storia! Se c’è una menzogna, così sia! Non sono io quello che l’ha inventata”. Probabilmente hanno appreso le storie ascoltando altri narratori più anziani, magari membri della loro stessa famiglia, oppure vicini di casa, “viaggiatori”, o mendicanti, e si può tracciare l’iter di certi particolari racconti risalendo da un narratore all’altro per diverse generazioni fin ad arrivare, anche se in casi molto rari, ai primi anni del XVIII secolo. La capacità di memoria di queste persone illetterate è davvero sorprendente per gente come noi abituata a testimonianze scritte e stampate. Di un narratore di Benbecula, morto nel 1954, si diceva che se sentiva una sola volta un racconto e poi lo narrava lui stesso una volta,  era in grado di ricordarlo per tutta la vita. Perciò a volte recitava storie che aveva sentito una sola volta, cinquant’anni prima. Un pescatore-fittavolo di Barra sosteneva che da giovane si era recato ad ascoltare lo stesso narratore praticamente ogni sera d’inverno per quindici anni e che raramente aveva sentito la stessa storia due volte.
Un aspetto interessante dell’arte del narratore, e che testimonia la sua antichità, è l’uso che si fa di brani descrittivi stereotipati o “sequenze” retoriche. Arcaiche e oscure nella pronuncia, vengono introdotte quando occorre descrivere un eroe che si prepara per un’avventura, una battaglia che sta per essere combattuta, o altre scene ugualmente note. Servono ad abbellire la storia e a impressionare l’uditorio mentre offrono al narratore l’opportunità di prepararsi al passo successivo nella vicenda. Quanti di questi racconti appartengano all’antica tradizione celtica non si può stabilire con certezza, ma possiamo affermare che per quanto riguarda la forma, i personaggi e gli argomenti, essi hanno molto in comune con quei racconti dei manoscritti medievali che costituiscono il vanto e l’orgoglio della letteratura irlandese.

Da: L’eredità celtica. Antiche tradizioni d’Irlanda e del Galles, di  Alwyn D. Rees e Brinley Rees

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