lunedì 28 novembre 2011

Cheesecake al triplo cioccolato


Nigella Lawson è la food writer inglese più famosa nel mondo. I suoi libri - un esempio spettacolare di fusione tra passione per la buona cucina, arte della tavola e semplicità di esecuzione - hanno scalato le vette delle classifiche internazionali. A dieci anni dal suo primo best seller - How to Eat - Luxury Books pubblica in Italia il suo libro forse più famoso "How to be a Domestic Goddess". In questo volume l'arte di impastare si svela attraverso decine di ricette da forno che riempiono la casa di profumo già dalle pagine e dalle fotografie, spettacolari, realizzate da Petrina Tinslay. Con questo libro Nigella ha vinto il premio "Autore dell'Anno" in Gran Bretagna e con questo libro parte alla conquista delle lettrici italiane.
L'arte di impastare non è solo un libro di ricette. È un volume che rivela un preciso stile di vita, dove l'amore per la famiglia e quello per la buona tavola si fondono insieme attraverso preparazioni culinarie di grande impatto visivo e di semplice preparazione. "Cucinare oggi può essere un problema" spiega l'autrice "non tanto perché sia difficile ottenere un buon risultato, ma perché la maggior parte delle ricette sembra troppo stressante e difficoltosa - tutte tecnica e poco piacere - tanto da lasciare perplessa anche la cuoca più entusiasta. A volte non c'è scelta, altre volte sì. Le mie ricette sono pensate per trasformarti in una vera regina della casa, capace di preparare squisitezze in un attimo, senza stress, senza fatica, giusto il piacere di accendere il forno..."

In rete ho trovato questa sua deliziosa ricetta di torta al triplo cioccolato:

INGREDIENTI

Per la base:
250 gr di biscotti
100 gr di burro ammorbidito
2 cucchiai di cacao amaro in polvere

Per il ripieno:
500 gr di formaggio Philadelphia a temperatura ambiente
175 gr di cioccolato fuso
150 gr di zucchero semolato fino
150 gr di panna acida
3 uova
3 tuorli
1 bustina di vanillina
1 cucchiaio di amido di mais
1 cucchiaino di cacao amaro in polvere (sciolto in 2 cucchiai di acqua calda)

Per decorare:
 100 gr di cioccolato fondente fuso

PROCEDIMENTO
Tritare fini i biscotti, unirli al cacao e al burro e mescolare con un cucchiaio.
Mettere il composto sul fondo di una tortiera di diametro 26 cm e premere bene con le mani.
Mettere nel mixer tutti gli ingredienti del ripieno (tranne il cioccolato fuso) e mixare fino ad ottenere una crema molto liscia, poi unire il cioccolato fuso (fatto raffreddare) e mixare ancora.
Versare il ripieno sulla base e cuocere a bagnomaria (mettendo la teglia dentro un'altra con acqua fino a metà in forno preriscaldato a 180°C per circa un’ora: deve solidificarsi all'esterno e rimanere morbida al centro.
Sfornare, far raffreddare, sformare su un piatto da portata, decorare con ghirigori di cioccolato fuso e servire

Da: http://le-ricette-della-nonna.blogspot.com/2008/05/cheesecake-al-triplo-cioccolato-di.html

sabato 26 novembre 2011

Il culto della vita


Lascio da parte la storia e le spiegazioni razionali e dico, in ordine sparso e senza alcuna logica, che la magia è tradizione, folklore, essenza del Divino, il vento che muove il ramo di un melo, una ricetta su un quaderno che sa di cannella, una pianta di lavanda a protezione della casa, una tisana calda quando c’è la neve, un libro magico cercato da tempo, un cappello a punta su una bambina nella notte di Halloween, una finestra bianca sul giardino, guardare “Amori e incantesimi” per la centesima volta, girare un mercatino di una festa celtica cercando un fermaglio a forma di foglia, accendere un fuoco e guardare le fiamme danzare, accarezzare un gatto sul davanzale mentre fuori piove, ascoltare una donna anziana che racconta di un antico rimedio, far seccare la salvia per un nuovo incenso, raccogliere conchiglie e sassolini sulla spiaggia con la luna piena. La stregoneria è soprattutto arte, creatività, armonia, ispirazione, e delicata filosofia di vivere. Per questo e per mille altri motivi, la stregoneria, non è nient’altro che, in conclusione, il Culto della Vita

Stregamanda

sabato 19 novembre 2011

Il Graal - IX


Il Battistero di San Giovanni, detto Tomba di Rotari sebbene non abbia nulla a che fare con l'omonimo sovrano longobardo, assieme alla chiesa di Santa Maria Maggiore, forma il complesso monumentale di San Pietro. Si trova a Monte Sant'Angelo, in provincia di Foggia.
Pochi metri dividono il colonnato della basilica di S. Michele dalla più antica chiesa del paese: San Pietro, sede della prima parrocchia cittadina, che venne demolita nel 1891 per ragioni storiche. Di essa oggi restano il seicentesco rosone a traforo posto sul portale d'ingresso, le basi di quattro colonne di granito e la struttura absidale a semicatino scavata da nicchie risalente al XII secolo. A sinistra dell'abside si accede alla Tomba di Rotari, che non è un sepolcro come si potrebbe pensare, ma un Battistero dedicato a San Giovanni che, nei primi del XII sec, Rodelgrimo e suo cognato Pagano da Parma fecero sopraelevare e coprire a cupola. L'appellativo è dovuto all'errata interpretazione del nome del costruttore e del vocabolo "tumba" (cupola).
Monte Sant’Angelo è una località della Puglia fortemente legata al culto micaelico. Ed è principalmente questo fatto che lo rende pieno di fascino. Questo fascino si trova in bilico tra la spiritualità che emana, e tra la storia che è scritta tra le sue mura, centro frequentatissimo nel Medioevo da pellegrini e da crociati pronti a recarsi in terra Santa, tradizione rimasta nei secoli fino ai giorni nostri. La cittadina sorse nel secolo V intorno al luogo dove apparve San Michele Arcangelo, l'Angelico archistratega che i Longobardi considerarono addirittura santuario nazionale. Fu a lungo contesa da Bizantini, Longobardi, Saraceni e Normanni. Dall'XI secolo la Puglia ha due poli religiosi egemoni: San Nicola a Bari e il Santuario micaelico a Monte S. Angelo, entrambi inseriti nelle più importanti vie dei pellegrinaggi europei, quali la via Sacra Langobardorum e la via Francigena.
A un primo impatto, rispetto ai complessi religiosi della Puglia, la tumba di Rotari dà una sensazione molto particolare. Sembra quasi che l’anima si innalzi a vette inaudite, seguendo un percorso iniziatico che sembra non aver molto in comune con i dogmi cattolici.
In realtà, sembra di trovarsi in presenza di un vero e proprio libro di pietra che cela al suo interno un messaggio diverso da quello che ci si aspettava: la fede senza gnosi non può esistere. La fede senza gnosi è solo bigottismo brutale, superstizione, ignoranza che priva l’uomo della sua reale natura, della sua origine, e perciò della sua dignità. La tumba di Rotari appartiene a quei luoghi che contribuiscono a restituirci il nostro vero volto cosicché la fede diventi uno strumento non di controllo ma di elevazione.

Gli indizi
Appena si arriva all’ingresso della tumba si può osservare nell’architrave dell’ingresso un rosone con quattro sirene o donne serpente che incorniciano una stella a otto punte. Al di sotto di questa immagine si trova la raffigurazione di un calice con l’ostia e in più si trova il classico stemma massonico (la mano che regge un compasso) che, stranamente, sembra in armonia con gli altri elementi.
All’interno si trova una vasca quadrata e un architrave che porta all’interno in cui compare una croce che origina da due sfere, seguita dalla famosa scritta Q PETISH. Questa scritta è stata tradotta da molti critici come quod petis habebis, ossia “ciò che chiedi avrai”, espressione genericamente ripresa dalla Bibbia e interpretata come allusione al battesimo. Entrando sulla destra si trova una vasca circolare e sulla sinistra, un sarcofago vuoto scavato nella roccia. All’interno della tomba sulla cornice imposta dal tamburo si trovano tre figure femminili: la prima fuoriesce dal guscio di una lumaca mentre una mano sembra volerla svegliare dal sonno, la seconda rappresenta una donna seduta con un ampio mantello che stringe al seno un bambino dormiente, la terza rappresenta una donna nuda sdraiata con una lunga chioma, mentre viene addentata alla mammella destra da un serpente. Inoltre, dalla base di volta, più piani si sovrappongono assottigliandosi, passando dal quadrato della base all’ottagono intermedio ed al cerchio di volta. Nel quadrato di base della tomba è, invece, inscritto il sigillo di Salomone. Un altro indizio interessante lo si trova nell’atrio superiore del santuario micaelico, dove, collocata in alto rispetto alla porta di ingresso a destra, c’è una lapide con un’iscrizione che recita “Terribilis est locus iste hic domus Dei et porta coeli”, tradotto: “Questo è un luogo terribile. Questa è la casa di Dio e la porta del Cielo”, tratta dalla Genesi.

Il simbolismo

Il rosone


La prima simbologia che si incontra, foriera di significati occulti, è quella del serpente. Il serpente è collegato alla simbologia dell’anello, del tutto, specie nella sua forma di Uroboros, il serpente che si morde la coda. Se l’anello o cerchio appare con una croce nel mezzo si tratta del simbolo della Rosi-crucis che, secondo Lawrence Gardner ne Il regno dei signori degli anelli, è un richiamo al Sangreal. La rosi crucis diventa un simbolo della linea dinastica matriarcale, discesa per il tramite di Lilith e Maria Maddalena.
Un'altra associazione con il serpente, è il drago drakon.
Il vocabolo di origine greca è affine a edrakon, ossia vederci chiaro, ed è equivalente a Nahash, termine biblico che significa “serpente”, oppure “decifrare”, “scoprire”. Il serpente, infatti, era colui che vedeva chiaramente le cose in modo limpido e pieno di saggezza, qualità che caratterizzano il sapiente. Il serpente veniva quindi associato sia alla saggezza, sia alla guarigione.
In Mesopotamia, il drago Mushus, aveva compiti di guardiano e i re e le regine messianiche (unte, consacrate) venivano chiamati dragoni o pendragoni perché ad essi venivano attribuite le virtù dell’animale. Tali re venivano nutriti con una particolare sostanza, l’essenza lunare delle regine dragone (contenenti secrezioni endocrine capaci di esaltare alcune qualità interiori). In Iran, inoltre, esiste una pianta molto particolare, la dracena draco, appartenente al genere delle liliaceae (giglio), la cui resina è conosciuta come sangue del drago. Probabilmente questa sostanza rappresentava un sostituto di tale mistura, chiamata fuoco stellare che, al pari della secrezione mestruale e per la forte assonanza simbolica con quest’ultima, veniva usata nelle cerimonie di consacrazione.
Le regine dragone (le sacerdotesse) venivano associate per questo motivo al fiore del giglio o del loto tramite il nome che portavano: Lilia, Lilith, da cui, secondo Gardner, scaturirebbe il lignaggio De Lac. Altre variazioni si ravvisano nel nome Del Acqs. La stessa rosa crucis è spesso definita coppa delle acque ed è uno dei simboli del Graal, identificato con il sangue messianico raccolto nel sacro calice scaturito dal grembo materno. La simbologia del Graal presente a Monte Sant’Angelo, potrebbe riportare a queste simbologie che risalgono agli albori di una leggenda che in seguito venne cristianizzata.
La prima decodifica di questa leggenda, ci parla di una guarigione spirituale più che fisica, come se il Graal e i suoi poteri agissero sul piano dell’anima, restituendo o modificando le percezioni sensoriali dell’adepto. Bevendo dal Graal (che in origine conteneva una mistura in grado di risvegliare nell’uomo facoltà assopite da tempo ma sempre presenti), l’uomo normale raggiungeva un lignaggio mitico e si ritrovava ad appartenere a una linea messianica che, partendo dalla Mesopotamia, si ritrova nella Bibbia e viene trasmessa per via matriarcale.
Ma soprattutto i simboli sembrano spronarci a scoprire, a decifrarli, a vederci chiaro, a raggiungere lo stato di iniziato e le sue qualità, poiché soltanto chi è in possesso di queste chiavi potrà essere in grado di decifrare il codice.
Consacrazione, unzione, saggezza, capacità di guarire o autoguarirsi, indicano un uomo che appartiene a un lignaggio sacro di tipo sacerdotale, che dagli albori della storia umana sembrano portarci fino all’ebraismo. Lo stesso simbolo massonico dà l’idea che, un codice simile, sia stato in possesso di società segrete che, però, hanno sparso simboli che soltanto gli iniziati possono decifrare. Inoltre, il richiamo alla massoneria e l’immagine di una stella identificata con Sirio o con Venere, le stelle del mattino, sembrano indicare due cose: la conoscenza stellare collegata alla resurrezione e alla conoscenza delle origini, ma anche alla Dea Madre. Che la Tumba sia un tempio della Dea? Quest’ultima considerazione è avallata dal simbolo della Dama Serpente. Il serpente è la forza creatrice della rigenerazione (crea e rinnova) che si snoda dalla spina dorsale fino a raggiungere le ghiandole poste alla sommità del capo; è la kundalini che è al tempo stesso la regina del Graal. La regina del Graal è l’iniziatrice, colei che innesca il processo di redenzione, è Kali che rinnova e distrugge e la Shakti, l’energia primigenia della creazione, la forza femminile per eccellenza. Tra queste regine del Graal, esiste la figura di Melusina con ali di pipistrello e coda serpentina (animali sacri alla Dea), oppure la donna serpente o la sirena. Essa è custode di un anello (simbolo come si è detto della conoscenza) ma anche autentica erede e creatrice della linea del santo Graal.
Questo simbolismo non può che essere associato al culto della Dea Madre che ebbe origine quando gli antichi individuarono la sua controparte celeste. Questa era ottenuta congiungendo un gruppo di costellazioni, Auriga, Perseus, Camaleopardales, Aries, Triangolum, Cassiopea ed Andromeda: la figura delinea una donna distesa, dai grandi seni e dal ventre prominente, figura guida del tempo precessionale dell’ultima fase del pleistocene. Più tardi fu aggiunto il simbolo della costellazione del Taurus (fecondatore), felice intuizione del legame cielo e terra.
Conoscenza stellare, dunque dominio del tempo, conoscenza iniziatica, trasmutazione alchemica (distruzione e rigenerazione), custode della conoscenza: ecco gli elementi che scaturivano da una prima indagine. Inoltre, vi era anche la traccia di quella che appariva sempre più come un lignaggio sacerdotale che formava una vera e propria dinastia. Questa dinastia che custodiva tali conoscenze, riportava inevitabilmente ai tempi di Cristo dato che, in questa discendenza collegata alla Albi-gens, associata all’acqua, si rinvenivano i nomi Maria, Miriam (Merrow o Meirmaid). Le storie delle fate e delle fonti incantate, si tramutavano, dunque, in riferimenti allegorici alla cerimonia del fuoco stellare, che accendeva la conoscenza superiore e permetteva all’energia femminile di rigenerare tessuti e spirito. La tradizione del fuoco stellare, uno dei tre battesimi con l’acqua della purificazione e il sangue del sacrificio, rappresenta il veicolo della luce della conoscenza, ossia l’illuminazione che sconfigge, la gnosi che non può avvenire se non dopo la purificazione, l’eliminazione delle scorie e il sacrificio del se.
Maria è la domina del acquae ed erede della casa del Acqs tramite il simbolismo del giglio; questa eredità si mantenne e si collega alla Maddalena. La Maddalena, inoltre,è collegata anche alla sposa perduta del cantico dei cantici. Questo è un testo di origine sumera e fa riferimento al matrimonio sacro tramite il quale la sposa messianica festeggia lo sposalizio regale ungendo lo sposo con olio di nardo.
Importante è anche l’immagine iconografica della Maddalena che è spesso raffigurata con un mantello rosso sopra una veste verde, il mantello rosso può essere interpretato come simbolo dell’alto grado ecclesiastico e della cerimonia del fuoco stellare, del sangue mestruale che dona la vita, mentre la veste verde la collega direttamente alla fertilità e alla fecondità. Le due Marie (la Maddalena e la Vergine Maria) si presentano come i due aspetti o incarnazioni viventi di uno stesso principio cosmico (stellare), la Vergine e la Madre cosmica. Il loro legame con l’acqua richiama anche il concetto di Gnosi che, in quanto femminile, si incarnava nelle regine sacerdotesse. L’immagine della sirena è un’allegoria della sapienza e della Sophia, le uniche in grado di creare la vita traendola fuori dalla materia informe. La Sapienza delle regine Dragone è il ponte che collega la vita quotidiana al regno dell’Eternità, l’accesso al quale si ottiene soltanto tramite un’esperienza personale di Gnosi.
Non si dimentichi, inoltre, che il riferimento alla coppa che contiene in essa un’ostia,non fa dell’edificio soltanto un riferimento al cristianesimo, ma identifica il luogo come centro in cui viene custodito il Graal.

Da: Chi ha orecchie per intendere intenda - Simboli e segni della chiesa del Graal di Anonimo

mercoledì 16 novembre 2011

Il Graal - VIII


Riprendo il concetto accennato nella prima parte sul Graal, dove viene asserito che il contenuto del sacro calice non era il vino, ma il sangue o un estratto del sangue che gli alchimisti codificano da sempre col termine “sale” e che si identifica con quel calice di amarezza che Gesù per un momento non volle bere.

In un suo studio sul simbolismo della quaternità, (in C.G. Jung: La simbolica dello spirito, Einaudi , Torino, 1975) Jung prende in considerazione le polarità:

Spirito Santo
Padre Figlio
Maria

e considera Maria come polarità femminile della SS. Trinità a causa del suo rapporto con lo Spirito Santo, che la rende il vaso puro che può generare l’essere che realizza in sé le due nature: l’umana e la divina. Jung rileva che alla rappresentazione di Dio trino corrisponde spesso un Satana Tricefalo, che appare come Umbra Trinitatis, avversario di Cristo e Signore della Materia e della molteplicità. Solo l'integrazione delle qualità del principio femminile, rappresentate da Maria, può riunificare e pacificare l'anima umana, che è il teatro del lacerante conflitto tra i princìpi opposti. Così l'Assumptio Beatae Mariae comporta il passaggio del corpo materiale e mortale, soggetto allo spazio e al tempo, al regno dei Cieli. Maria incarna la possibilità data all'uomo di sottrarsi al dominio del Principe di questo mondo e di reintegrarsi nel principio creatore e trinitario. Negare o rimuovere questo archetipo in quanto principio attivo in noi, significa rinunciare a quell'amore verso l'alto che unifica e rende elevata e piena di senso la nostra esperienza terrena. Nel linguaggio della psicoanalisi junghiana l'uomo, rimuovendo il principio femminile salvifico e sapienziale legato a Maria, condanna se stesso a doverlo vivere attraverso la propria Ombra. La costellazione archetipica della quale abbiamo fin qui parlato viene allora ad assumere caratteristiche sataniche e lavora per la frammentazione e la dispersione dell'esistenza e dei rapporti. L'archetipo mariano, al contrario, opera attraverso l'amore, secondo la via del cuore e tende a realizzare l'integrazione e l'armonizzazione degli opposti che si agitano nell'anima e a dissolvere le barriere innalzate tra gli uomini dalla brama di potere e dalle distinzioni di razza e di censo.
In questo senso la Vergine Maria, il calice destinato ad accogliere il Cristo sulla terra, viene accostata al santo Graal, il calice con cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue e l’acqua che sgorgavano dal costato di Gesù crocefisso. Secondo la leggenda il Graal fu intagliato all’inizio dei tempi in uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, quando questi si ribellò a Dio (lo stesso calice era denominato da Wolfram Von Eschembach lapsit exillis, cioè pietra esiliata, da exilium, o caduta dai cieli, da ex coelis, stesso nome dato alla loro Pietra dagli alchimisti). Il Graal rappresenta, nell’uomo, lo spazio sacro del cuore, destinato ad accogliere il Verbo, il calice invisibile che custodisce il senso interiore della tradizione cristiana. Nel mondo esterno rappresenta la Chiesa in quanto custode nel mondo della stessa tradizione, in quanto Gerusalemme terrena che può condurci a quella celeste, cioè all’aspetto iniziatico della tradizione. Narrava ancora la leggenda che la coppa del Graal scomparve dalla terra e che i cavalieri della Tavola Rotonda si proposero come mèta suprema di ritrovarla. Questo pellegrinaggio verso la Terra Santa, questo vagare nel labirinto del mondo alla ricerca del Centro e della Parola Perduta è destinato al fallimento se il viaggio non diventa anche un cammino interiore.
Anche gli alchimisti parlavano di una terra Vergine, resa feconda da un seme spirituale e destinata a partorire la loro Pietra, una terra vergine che spesso essi identificavano con il Sale della Sapienza.
Il culto della Vergine fu considerato dagli alchimisti come una allegoria del loro Magistero e le cattedrali gotiche francesi, veri templi eretti all’arte alchemica, sono quasi tutte consacrate a Notre Dame, cioè a Maria. Come esempio di linguaggio “alchemico” nel culto mariano Fulcanelli, nelle “Dimore Filosofali”, cita l’epistola che viene letta alla messa dell’Immacolata Concezione: “Il signore mi ha posseduta all’inizio delle sue vie. Io ero prima che egli plasmasse qualsiasi altra creatura. Io ero nell’eternità prima che venisse creata la terra. Gli abissi non erano ancora e io ero già concepita. Le sorgenti non erano ancora uscite dalla terra; la pesante massa delle montagne non era ancora stata formata; io ero già nata prima delle colline. Egli non aveva ancora creato né la terra, né i fiumi, né consolidato la terra mediante i due poli. Quando egli preparava i Cieli io ero presente; quando circoscrisse gli abissi con i loro limiti e stabilì una legge inviolabile; quando stabilizzò l’aria attorno alla terra; quando equilibrò l’acqua delle sorgenti; quando rinchiuse il mare nei suoi limiti e quando impose una legge alle acque perché non superassero i confini loro assegnati; quando gettò le fondamenta della terra, io ero con lui e regolavo tutte le cose”. (Si osservi la straordinaria somiglianza con l’inno a Iside citato da Apuleio nell’”Asino d’oro”).
Il culto di una dea vergine che partorisce un bambino è comunque antecedente alla nascita del cristianesimo. Da Semele, la madre di Dioniso, ad Iside (in una delle possibili etimologie il nome viene fatto derivare dal greco Isha, Vergine), sono numerosi gli esempi delle Vergini madri. A questo proposito nella sua “Storia delle credenze e delle idee religiose” Mircea Elide scrive: “La teologia di Maria, della Vergine Madre, riprende a perfezione le antichissime concezioni asiatiche e mediterranee della partenogenesi (capacità di autofecondazione) delle grandi dee (Hera, Cibele). La teologia mariana rappresenta la trasfigurazione dell’omaggio più antico e più significativo che si sia mai reso, dalla preistoria, al mistero religioso della femminilità: la Vergine Maria verrà identificata, nel cristianesimo occidentale, con la figura della Sapienza divina, mentre la chiesa di Oriente svilupperà accanto alla teologia della Teokotos, la Madre di Dio, la dottrina della sapienza celeste Sophia, nella quale si manifesta la figura femminile dello Spirito Santo.”
L’arte sacra dei primi cristiani, che rappresenta la Vergine con il bambino Gesù tra le braccia, sembra aver tratto ispirazione dal culto di Iside che culla il piccolo Horus (la cui nascita veniva celebrata la notte del 24 dicembre, data anche della nascita di Mitra, il sol invictus dei misteri mitraici di origine persiana, che nasceva in una grotta da una pietra). Anche Fulcanelli (nel “Mistero delle Cattedrali”, ma cfr anche J. Baltrusaidis, “La ricerca di Iside”, Adelphi, Milano, 1985) ritiene che il culto delle Madonne nere si sia innestato su un preesistente culto isiaco, mantenendo talvolta invariati anche gli oggetti di culto (immagini e statue della dea reinterpretate come raffigurazioni della Madonna). Anche Vesta o Hestia (dal sanscrito Was, abitazione) era una dea vergine della terra a cui erano sacri sia il focolare domestico che il fuoco sacro della città, l’estinguersi del quale era ritenuto un segno inequivocabile dell’avvicinarsi di una calamità.
Le sacerdotesse di Vesta, le vestali, dovevano essere vergini e mantenersi caste durante tutta la durata del loro ufficio, pena la morte. Avevano il compito di custodire il fuoco sacro e il Palladium (una statua della vergine Atena armata di lancia) oltreché i simulacri dei Penati e altri oggetti sacri in un luogo di forma ottagonale in cui nessun uomo poteva penetrare. Nelle loro cerimonie non potevano usare l’acqua degli acquedotti ma solo quella piovana e delle sorgenti. Le statue di Vesta venivano poste nelle abitazioni all’entrata (da cui, secondo Ovidio, il termine vestibolo) e la dea era raffigurata con in mano una coppa, il Palladium o una torcia.
Nelle “Dodici chiavi della filosofia” di Basilio Valentino, nella quarta chiave è raffigurato uno scheletro in piedi su un catafalco, accanto al quale arde una candela, e, vicino allo scheletro, un tronco di quercia essiccato. Nel simbolismo alchemico la quercia cava raffigurava il “forno filosofico” entro il quale veniva cotto l’uovo filosofico, cioè il recipiente entro il quale si realizzava la trasmutazione alchemica. La figura di Basilio rappresenta l’estrazione del “Sale filosofico”, quel sale che ha il potere di preservare per sempre dalla putrefazione ciò con cui viene a contatto. Un simile Sale, ci dice Valentino, “È inutile se il suo interno più profondo non è scoperto ed il suo esterno spinto al centro”. Il Sale viene liberato dalla cenere ottenuta con la combustione e dev’essere poi unito allo Zolfo e al Mercurio che originariamente appartenevano al corpo non purificato. In tale modo diviene possibile ricostruire, con l’aiuto del fuoco, ciò che distruzione e dissezione avevano dissolto, ma il nuovo corpo, a differenza del vecchio, è un corpo immortale.
Nel “De confectione Lapidis” Rupescissa definisce il Sale come “L’acqua coagulata dalla secchezza del fuoco”; Mylius lo chiama “Il diadema del tuo cuore” e nello stesso modo viene definito da Senior nel “De Chemia”. Per Senior il Sale è anche, alternativamente, “il corpo bianco della cenere” o “la terra bianca fogliata che va separata dalla terra dannata e nera”, cioè dalla parte impura, pesante e malvagia della terra. Lo stesso Senior in “Artis auriferae”, spiega come il Mercurio dei filosofi si fabbrichi dal Sale: “...dapprima diventa cenere, poi Sale, e dal Sale, mediante diverse operazioni, il Mercurio dei Filosofi”.
Molti autori credono che nel Sale siano fusi sia lo Zolfo che il Mercurio, tanto che alcuni lo chiamano Rebis, “la cosa doppia”, un appellativo che, peraltro, veniva riferito talvolta allo Zolfo, talvolta al Mercurio. Infine il testo ermetico “Tractatus aureus”, contenuto nel Musaeum Hermeticum, così ammonisce l’alchimista che pretenda di portare a termine il suo Magistero senza servirsi del Sale: “Colui che opera senza Sale non ridesterà i corpi morti, colui che opera senza Sale tende un arco senza corda. Perché voi in effetti dovete sapere che i saggi hanno bisogno di un Sale assai diverso da questi minerali volgari”.
È interessante anche notare il rapporto costante che esiste tra il sale e l’oro, tanto in alchimia quanto nella geografia sacra.
E il sale è proprio una delle chiavi di quello che si è convenuto di chiamare l’affaire di 

Rennes-le-Château. D’altronde, il nome di Magdala deriva esso stesso dall’arabo magdal, che significa “pesce sotto sale”, in alcune fonti antiche viene denominata in ebraico Migdal Nunya (torre del pesce), l’athanor è chiamato anche torre. Questa persistente continuità viene confermata da Santa Maria Maddalena, le cui lacrime sono redentrici. In effetti, su un’incisione risalente al XVI secolo si può vedere la Santa in Provenza, a Sainte-Baume: la caverna scavata nella falesia domina un piccolo fiume menzionato sotto il nome di… Salins, e nel quadro si può osservare uno stendardo recante una croce templare

Da: http://www.fuocosacro.com/pagine/gnosticismo/vergineanima.htm
Jules Verne e l’esoterismo di Michel Lamy


martedì 15 novembre 2011

Benedizione celtica


Che l’alba ti trovi desto e attento,
pronto ad affrontare la nuova giornata,
con i suoi sogni,
le possibilità e le promesse.

Che la sera ti trovi felice e appagato.

Che tu possa entrare nella notte beato,
protetto e difeso

Vedere il mondo in un granello di sabbia
E il cielo in un fiore di campo
Stringere l'infinito nel palmo della mano
E l'eternità in un'ora

William Blake

Io sono pagana


Io sono pagana
Le rocce, il vento, i ruscelli, gli animali sono miei fratelli. In loro si completa la mia vita. In loro è presente la scintilla divina che guida il mio spirito. Riconosco gli alberi come mio rifugio, come mia fortezza. Ogni volta che piango sono loro ad asciugare le mie lacrime con il lieve tocco del cuore. I loro tronchi sono il mio appoggio quando sono stanca, la loro linfa è il simbolo del continuo fluire del rinnovamento, su me e la mia pelle. Sono la mia capanna dell'anima, dove mi rifugio ogni volta che la pioggia cade troppo forte e il vento porta via le foglie dal sentiero.

Io sono pagana.
Riconosco un Dio e una Dea, in loro la mia vita, per loro la mia vita. Non conosco i loro nomi perchè sono abituata a chiamarli con tutti i nomi del mondo. Loro sempre rispondono anche se la mia voce è solo un sussurro, un sospiro. Loro le mie labbra, loro il mio cuore. Mi insegnano infinito amore e abbandono per la fiammata che sento dentro ogni giorno, l'esistenza. Mi donano la paura ed il dubbio, perché io possa chiedere a me stessa e trovare le risposte. Mi donano il dolore e la sofferenza perché io possa crescere nel faticoso cammino della vita, imparando ogni lezione che a me sarà posta. Mi donano la fantasia e l'eclettismo perché io possa amare me stessa giorno dopo giorno, cambiando forma, mutando umore, essendo donna.

Io sono pagana.
Celebro il mutare delle stagioni. Attraverso l'anno tenendo per mano la Madre nei suoi percorsi di luce, di ghiaccio, di sangue e di rugiada. Onoro il rinnovamento della vita, l'inizio della crescita, la rinascita dei germogli, l'amore e la passione, il primo biondo raccolto, la fruttificazione, l'ultimo raccolto d'arancio, la fine e il passaggio. Le stagioni si posano sulla mia pelle come organza, imprimendo i loro forti odori nelle mie narici, i loro sapori sulla mia lingua, i loro colori nei miei occhi. Mille e ancora mille tesori a me svelati

Morgana

Benedizione celtica




A te la profonda pace dello scorrere dell'onda
A te la profonda pace del flusso dell'aria
A te la profonda pace della terra silenziosa
A te la profonda pace delle stelle lucenti

Possa io mai allontanarmi dal nemeton



Possa io mai allontanarmi dal nemeton

Dove la mia vita è stata creata.

Come un bardo in addestramento, ero un alberello
Crescevo affusolato e con radici superficiali.

Come ovate della visione, ho messo le foglie,
Creato medicine dalla mia ispirazione.

Come druido, sono cresciuto ricco di frutti,
La saggezza incorona la mia altezza elevata,
La pace è protezione per coloro che proteggo
Sotto i miei diffusi rami.

Possa io mai allontanarmi dal nemeton
Dove la mia vita è stata creata.

Caitlin Matthews 

lunedì 14 novembre 2011

Samhain - la festa dell’oscurità


L’autunno inoltrato, con l’arrivo delle nebbie e dei primi freddi è un altro punto di svolta della grande Ruota dell’Anno. In questo periodo infatti, al primo novembre, cade la grande festa celtica di Samhain (pron. souin). Samhain in gaelico irlandese indica il mese di novembre e il corrispondente gaelico scozzese Samhuin (pron. sov’en) è la festività di Ognissanti. Questa ricorrenza, il cui nome significa “fine dell’estate”, rappresenta la controparte di Beltane, l’arrivo della parte oscura dell’anno, l’inizio stagionale dell’inverno (mentre quello astronomico è determinato dal Solstizio d’Inverno). Gli antichi Celti avevano in origine due sole stagioni, Geimredh che iniziava a Samhain e Samradh che iniziava a Beltane (più tardi furono aggiunte altre due stagioni, Earrach con inizio a Imbolc e Foghamar a Lughnasadh). Samhain era il Capodanno celtico: infatti, per gli antichi Celti, l’anno iniziava con la sua parte oscura, allo stesso modo in cui il giorno iniziava con le ore notturne. Le feste celtiche iniziavano sempre al crepuscolo del giorno precedente: ancora oggi nei paesi anglosassoni si celebra Halloween cioè All Hallow’s Eve o Vigilia di Ognissanti (come è stata cristianizzata tale ricorrenza), così come si festeggia May Eve a Beltane. Nella tradizione celtica, al pari di altre culture, il giorno che segna la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, non appartiene a nessuno dei due (né al passato né al futuro) ma è un “tempo oltre il tempo”, una scintilla dell’eternità. Tutti i confini, siano essi spaziali o temporali, hanno in moltissime tradizioni antiche una valenza magico-sacrale: un luogo come la spiaggia non appartiene né all’acqua né alla terra, così l’alba e il crepuscolo non appartengono né al giorno né alla notte. Mezzanotte è un’ora magica perché è al confine fra due giorni. Questi luoghi e questi tempi presentano al tempo stesso pericoli e opportunità di conoscenza perché si può attraverso essi entrare nell’Altro Mondo allo stesso modo in cui energie dell’Altro Mondo possono entrare nel nostro mondo quotidiano. Il momento in cui una stagione cede alla successiva è particolarmente significativo da questo punto di vista, come abbiamo visto a proposito della festa di Beltane. Samhain è ancora più cruciale perché è l’inizio di un nuovo anno, per questo motivo più di ogni altra festa annuale è un momento critico: non appartenendo al tempo quotidiano, esso costituisce un passaggio fra la realtà del nostro mondo e altre dimensioni. Se ogni festa costituisce al tempo stesso un inizio e una fine, Samhain è un momento speciale perché il velo del tempo si solleva e si può comunicare con gli altri livelli di esistenza in maniera più chiara che mai. In questo giorno i vivi possono visitare il mondo dei morti e i morti possono tornare tra i vivi (anzi, ad esser più precisi, tutto il periodo compreso tra Samhain e il Solstizio d’inverno è un tempo di contatti con spiriti ed entità dell’Altro Mondo, perché siamo nella “notte dell’anno”). Le porte del Sidhe (l’aldilà celtico) si aprivano e né gli umani, né gli esseri fatati avevano bisogno di un lasciapassare. Nella Féile na Marbh, la “festa dei morti”, si ritornava al caos primordiale. Secondo un’antica concezione pagana si festeggiava la vita nella morte con una celebrazione che non aveva nulla di triste, quasi a ricordare che ogni fine è un nuovo inizio e ogni morte in questo mondo è una nascita nell’altro mondo. Così da un lato si propiziavano i morti, dall’altro si dava luogo a disinibite feste che riaffermavano il valore della vita di fronte all’incombente oscurità. Samhain può sembrare un inizio strano per il nuovo anno, ma l’esistenza per gli antichi era una ruota, in cui la morte intesa come fenomeno naturale precedeva necessariamente qualsiasi nuova nascita. Di tutte queste credenze è rimasta qualche eco nelle celebrazioni cristiane dei defunti, il 2 novembre, mentre la festa di Samhain fu cristianizzata come Ognissanti e spostata dalla data originaria del 13 maggio dal papa Gregorio IV nell’anno 834.
Samhain, preceduto dalla notte conosciuta ancora oggi in Scozia come Nos-Galan-Geaf (Notte delle Calende d’Inverno) era una festa celebrata dagli antichi Celti in maniera solenne, con banchetti e festini che potevano durare anche una settimana intera. Vi era una ragione pratica: in questo periodo il bestiame proveniente dai pascoli estivi veniva radunato nelle stalle e in base alle scorte di foraggio, si macellavano tutti i capi in eccesso. La carne che non poteva essere conservata veniva consumata da tutti i membri della tribù, perfino dai più poveri che venivano generosamente ospitati dai nobili e dai capi. Anche tutti i prodotti della terra dovevano essere raccolti entro il 31 ottobre: ciò che rimaneva era abbandonato ai Pùca, folletti dispettosi e malvagi.
Infatti Samhain era anche il giorno che celebrava la fine dell’ultimo raccolto dell’anno, quello delle mele, frutto sacro in molte tradizioni. Altro raccolto, celebrato dai Celti, era quello delle nocciole, frutto simbolo della sapienza magica. Non è un caso se in molte leggende mele e nocciole rappresentano i frutti dell’Altro Mondo, donati agli umani da divinità o da esseri fatati! Il nocciolo era sacro ai Celti, simbolo di saggezza e di segreta conoscenza: una leggenda narrava che nove noccioli sacri circondavano la sorgente di Connlas, in Irlanda, portando frutti e fiori nello stesso tempo. In molte culture, non solo quella celtica, il legno di nocciolo era il più indicato per bacchette magiche o rabdomantiche.
In quanto all’altro frutto di Samhain, tra i frutti che la stagione autunnale ci offre nessuno è più presente nei miti e nelle tradizioni dell’Occidente quanto la comune mela.
Come molte altre feste celtiche antiche a Samhain il fuoco aveva un ruolo importante, considerato come simbolo della scintilla della vita futura che rifiorirà in primavera. Alla vigilia della festa tutti i fuochi delle case venivano spenti e la gente si raccoglieva sulle cime delle colline, dove era stato preparato un grande falò. Tutti attendevano in silenzio e nell’oscurità che trascorresse l’ora fatale tra le stagioni e che gli spiriti si fossero allontanati. Poi il sacro fuoco era acceso dai druidi e, passato il pericolo, la gente festeggiava con grande gioia. All’alba ciascuno avrebbe preso una torcia dal falò per riaccendere il proprio focolare domestico. Il fuoco di Samhain era anche un faro e una guida per le anime perdute, le quali potevano usare la sua luce per andare o tornare nel loro luogo di riposo. Echi dei fuochi di Samhain permangono nelle candele collocate all’interno di zucche intagliate a forma di testa umana. Forse un lontano ricordo dei crani collezionati dai guerrieri celti? Queste zucche (ma in molte zone anticamente si utilizzavano rape) prendono il nome di Jack o’Lantern. Ancora oggi molte tradizioni di Samhain sono sopravvissute, specie nei paesi anglosassoni. Numerosi sono gli echi pagani nella festa di Halloween negli Stati Uniti, dove gli spiriti dei defunti e gli esseri fatati sono interpretati da bambini mascherati che passano di casa in casa per cercare vendetta o comunque punire il comportamento irrispettoso dei viventi. Di notte a Samhain si evitava di uscire se non per accendere il sacro fuoco. D’altro canto i morti rappresentavano potenze benefiche da propiziarsi per far crescere i semi del nuovo raccolto e la propiziazione era una faccenda seria quando la sopravvivenza dipendeva da essa. I defunti erano infatti assimilati ai semi. Nell’antichità l’inverno era la stagione dei morti perché era una stagione dura: molte persone sarebbero morte di fame, freddo o malattie allora incurabili, la morte era sempre qualcosa di molto vicino. Anche la vita vegetale moriva, ma il suolo era visto come il corpo della Madre Terra, dove i buchi per i semi erano il suo grembo. I semi giacevano nella terra e da essi nasceva nuova vita. Nel Neolitico i defunti venivano sepolti in posizione fetale, ad aspettare una nuova nascita dal grembo della Dea. Più tardi vennero sepolti in tumuli che avevano camere sepolcrali a forma di grembo. Questi tumuli vennero considerati in seguito le “colline cave”, dimore di spiriti e di fate, da cui uscivano appunto a Samhain. Ma probabilmente i costruttori di tumuli avevano inteso costruire non tanto delle tombe bensì dei luoghi di iniziazione, nei quali dovevano avere luogo solenni cerimonie nei periodi delle feste sacre. È possibile supporre che gli iniziati si sottoponessero ad una sorta di morte rituale ed entrassero nei tumuli che erano gli uteri della Madre Terra. Al sorgere del sole forse gli iniziati uscivano risalendo gli stretti corridoi dei monumenti, e ritornavano nel mondo come nuovi esseri, “nati due volte”. Sui tumuli e nelle camere sepolcrali, come a Newgrange, appare il simbolo della doppia spirale. Nelle antiche civiltà essa era un simbolo di iniziazione. La spirale verso l’interno rappresenta la morte dell’iniziato, il centro è il luogo di rigenerazione e la spirale verso l’esterno è la rinascita. Allo stesso modo si pensava che il Dio del Sole o del Grano avesse affrontato il viaggio iniziatico nel regno dell’oscurità, dove ora egli regnava come sovrano, il Re Oscuro o Re dell’Agrifoglio. Anche la Dea della Terra appariva una potenza oscura, come la celtica Cailleach (la “Velata”, dal gaelico irlandese caille - velo -), il cui animale totemico era il corvo che si nutre di cadaveri. La Vecchia Dea piange il suo amante, il Dio della Vegetazione che se ne è andato nell’Altro Mondo, ma che tuttavia ha fecondato il suo grembo con il seme della nuova primavera. La Dea Oscura è quindi anche come la madre della vita futura e il suo calderone magico altro non è che il grembo della rinascita. Ma Samhain non è solo un periodo di morte e di iniziazione, ma anche di divinazione. L’aspetto divinatorio di questa festa è favorito dal clima psicologico della stagione, che incoraggia a rivolgere lo sguardo verso la propria interiorità, e viene facilitato dalla possibilità di contattare altre dimensioni dell’esistenza. Tuttavia nell’antichità la divinazione era una cosa seria, resa necessaria dall’angoscia provocata dall’approssimarsi dell’inverno con le sue durezze. Quindi le arti mantiche erano appannaggio di persone esperte, sciamani, streghe, sacerdoti. Nel corso dei secoli, però, quella che una volta era l’arte dei druidi, divenne sempre più il gioco preferito dalle ragazze nubili in cerca di marito. Così, nel Donegal (Irlanda) le ragazze lavavano la propria camicia da notte per tre volte in acqua corrente, appendendola ad asciugare di fronte al focolare nella mezzanotte della vigilia di Samhain, e poi lasciando aperta la porta di casa. Si credeva che il futuro sposo sarebbe stato costretto a entrare in casa. Altri metodi di divinazione consistevano nel fissare le scintille o le fiamme del fuoco di Samhain e trarre auspici.
Anche i frutti di Samhain , noci e mele, ricoprivano un ruolo importante nelle tecniche divinatorie; possedendo anche un valore simbolico di fertilità (le noci sono i testicoli, la mela è il frutto d’amore) erano inevitabilmente collegati alle profezie amatorie. Per fare un esempio, le ragazze “battezzavano” alcune nocciole con i nomi dei loro pretendenti e dopo le arrostivano sul fuoco: la prima nocciola che saltava era quella del futuro sposo. Oppure si tagliava una mela in nove spicchi uguali, se ne mangiavano otto e si gettava il nono al di sopra della spalla sinistra, girandosi velocemente. Si credeva che la ragazza avrebbe intravisto le fattezze del futuro marito.
I giochi di Samhain avevano però anche un significato sacrificale: In Galles una volta che l’ultima scintilla del fuoco di Samhain era spenta, tutti improvvisamente si afferravano le gambe gridando: “La scrofa nera si prenda l’ultimo!”; nella mitologia celtica del Galles la scrofa nera era Cerridwen, di nuovo la Vecchia Dea nel suo aspetto oscuro. Tale usanza forse è il lontano ricordo di antichissimi sacrifici rituali dove veniva probabilmente ucciso in maniera rituale il rappresentante umano del re o del Dio, come narrano parecchi miti.
La pianta sacra di Samhain è il tasso, pianta legata per tanti aspetti alla morte. Infatti è un albero con corteccia e foglie altamente velenosi e il suo legno era anticamente usato per fabbricare archi da guerra. Per questi motivi ha sempre ornato tanti cimiteri e presso gli antichi veniva usato spesso nelle pire funerarie. Ma paradossalmente rappresenta anche la Vita nella Morte perché è una pianta sempreverde, con un legno resistentissimo, e può vivere fino a 2000 anni e oltre. Ciò fa del tasso un simbolo di immortalità

Da: Feste pagane di Roberto Fattore

domenica 13 novembre 2011

Celebrare Samhain


In questo periodo cominciano gli oscuri, freddi giorni invernali. Nelle campagne c’è poco lavoro da fare, le foglie cadono dagli alberi e i giorni si accorciano sensibilmente. I poteri naturali della crescita e della luce declinano ed entrano nel loro lungo sonno invernale. Anche gli animali si preparano al letargo. Come loro anche noi dovremmo rallentare le nostre attività e passare più tempo in casa. Se si ha un caminetto in casa è bello accalcarci intorno al fuoco insieme ai nostri amici e raccontare storie. Approfittiamo di questo periodo dell’anno, in cui la Natura muore apparentemente, ritirandosi in sé stessa come i semi si ritirano nel terreno, per raccoglierci in noi stessi intraprendendo viaggi interiori nella nostra coscienza. Prestiamo attenzione ai sottili mutamenti del corpo, all’adattamento biopsichico del nostro organismo ai brevi e freddi giorni invernali: la mente inizia a scivolare dall’esteriorità all’interiorità. Ora è tempo che la nostra attenzione passi dal lato materiale a quello spirituale. È tempo di riflessione, di viaggi interiori per potere scoprire quegli aspetti di noi stessi che necessitano di essere cambiati prima che possa iniziare una nuova vita. Come gli antichi iniziati dobbiamo discendere nel mondo inferiore, ripercorrendo il viaggio delle divinità stagionali: seguiamo la spirale interiore dell’anno vecchio fino ad arrivare al nostro centro interiore e a questo punto ripercorriamo la spirale all’esterno portando fuori il nostro potenziale di vita e creatività che sarà manifesto nel nuovo anno, al tempo stesso conservando in noi la saggezza imparata nel passato. È un periodo adatto a tutti i tipi di meditazione e tradizionalmente propizio alle arti divinatorie, essendo un momento di passaggio in cui si incontrano passato, presente e futuro. Possiamo approfittarne per imparare qualche tecnica divinatoria, come i tarocchi o le rune. Inoltre, siccome le energie di questo tempo hanno a che fare con la morte, possiamo rivolgere i nostri pensieri alle persone che ci hanno lasciato. Si dice che gli spiriti possono essere ora contattati e consultati ma è preferibile (se crediamo in una vita nell’aldilà) non disturbarli; è meglio prestare attenzione ai piccoli messaggi che ci possono inviare (sogni, ricordi improvvisi, ecc.). È infatti tempo di riflessione, tempo di considerare l’anno passato e di confrontarci con quel fenomeno della vita su cui non abbiamo nessun controllo: la morte. Per celebrare degnamente il cerchio completo dell’esistenza dobbiamo riconoscere la realtà della morte e del declino fisico come eventi naturali, non come qualcosa da ignorare o da nascondere. A queste energie ora dobbiamo tributare omaggio ma dobbiamo al tempo stesso ricordare la nuova vita che sopraggiungerà. Il Re dell’Agrifoglio ci insegna che la morte è una fine ma anche un inizio. Teniamo presente la lezione degli antichi Celti e non indugiamo in tristezze! Invitiamo a cena i nostri amici, vestiamoci da streghe e fantasmi, decoriamo le nostre case con le zucche di Halloween e, se ci va, celebriamo i giochi tradizionali cercando di afferrare con la bocca le sacre mele appese ad un filo o galleggianti in una bacinella di acqua! Possiamo divertirci a intagliare e scavare zucche e rape, inserendo in esse candele per esporle alle finestre o sui balconi delle nostre case. È infine un momento in cui al fine di favorire la nostra rigenerazione, si possono ritualmente abbandonare tutte le cose del passato che dobbiamo o vogliamo lasciare, abbandonare (lasciar morire) le cose che non ci piacciono nella nostra vita. Possiamo quindi scrivere queste cose su foglietti di carta per bruciarli nel nostro fuoco di Samhain, che può anche essere una candela di colore nero o comunque scuro. Potete dire per tre volte una frase del tipo: “La cosa tal dei tali è venuta in essere, la cosa tal dei tali ha la sua stagione, e la cosa tal dei tali se ne va!”. Poi, si brucia il foglietto di carta nella fiamma. Possiamo poi, più semplicemente, dare via o bruciare quegli oggetti che non ci piacciono più. È tempo di abbandonare le cattive abitudini, di cambiare la propria vita! Infatti, prima che la nuova crescita possa iniziare, il suolo deve essere fecondato con i resti dei raccolti dell’anno precedente e con i rifiuti (se non ci fossero morte e decomposizione non ci sarebbe la vita). Un rituale senza dubbio più complesso, ma che vale la pena di compiere, può essere eseguito nelle nostre case. Al tramonto del sole, la vigilia di Samhain, si spengono tutte le luci di casa e ci si mette in piedi davanti ad una candela nera o scura. Sentiamo l’anno vecchio che sta per morire, ricordiamo tutte le cose buone o cattive che abbiamo vissuto, ricordiamo le persone a noi care che non ci sono più, e quando ci sentiamo pronti si accende la candela dicendo: “Accolgo con questa luce gli spiriti di coloro che se ne sono andati prima di me. Siate i benvenuti!“. Prendiamo una coppa o un bicchiere pieno di vino e beviamone un po’, dopo aver detto: “Ai morti!”, lasciandone alcune gocce. Possiamo poi accendere una candela speciale per ciascuno dei nostri amici o parenti morti: possono essere anche candele bianche o colorate. Per accenderle si usa la candela scura, e con la stessa candela accendiamo anche le lanterne-zucche di Halloween, se ne abbiamo fabbricata qualcuna. Dopo aver fatto questo si prende un piatto o un vassoio dove avremo messo del pane o dei dolci (possiamo usare i “dolci dei morti” se esistono ricette tipiche nella nostra zona) e invitiamo gli amici invisibili a condividere con noi il cibo. Lasciamone sempre qualche porzione. Poi, prendendo la candela scura, andiamo in tutte le stanze e accendiamo tutte le luci, magari solo per pochi minuti. Andiamo fuori dalla porta d’ingresso e gettiamo una moneta: dovrebbe essere d’argento ma una comune moneta andrà bene ugualmente... Diciamo: “Denaro sul pavimento, denaro sotto la porta” e lasciamo la moneta sul pavimento per un mese, facendola magari scivolare sotto lo zerbino. Essa porterà fortuna alla nostra casa. Meditiamo sul significato di questa festa e lasciamo aperta la porta di casa per fare entrare i nostri amici invisibili; lasciamo loro cibo e bevande.

Da: Feste pagane di Roberto Fattore

lunedì 7 novembre 2011

Reitia - La Dea Madre dei Veneti

La Chiave di Reitia, ritrovata a Ca' Oddo di Monselice. Risale al V secolo a.C
Reitia è la divinità somma nella religione dei Veneti, ciò significa che abbraccia tutta la natura e che non esiste nulla al di fuori né al di sopra di lei.
Oltre il nome e la forma, oltre il tempo e lo spazio, è l’Unica Forza che trae sostegno in se stessa e dalla quale ogni altra è nata e ciclicamente ritorna.
Ha il dominio sul succedersi delle stagioni ed è chiamata tessitrice, cioè colei che tesse la tela della vita.
È la Dea madre del parto, tanto che i Greci la paragonavano alla loro Artemide, protettrice delle levatrici, e sempre come Artemide è signora degli animali selvaggi e dei boschi. È strettamente legata all’elemento acqua, come diverse dee femminili. Risanatrice e compassionevole, è principalmente una divinità taumaturga, cioè guaritrice, tanto è vero che il suo epiteto completo è Pora Reitia Sainate. Pora è la divinità degli Euganei, il popolo che i Veneti hanno trovato migrando dalle pianure a sud del Baltico e con i quali sembra si siano fusi pacificamente, tanto da adottare il doppio nome per la loro divinità. Sainate significa sanante, “colei che guarisce”. Ad Este esisteva una famosissima scuola di scrittura, Reitia può quindi essere anche associata alla scrittura e, come il Dio egizio Thot, è preposta alla saggezza e alla conservazione della memoria. Suoi compagni inseparabili sono il lupo mite, l’anatra e la chiave magica.
È inoltre associata al passaggio, sia spirituale che fisico; il passaggio spirituale di una vita di una persona può essere per esempio quello dall’infanzia all’età adulta, dalla condizione di single a quella coniugale, o il momento della morte, vista semplicemente come un passaggio da un tipo di esistenza ad un’altra, mentre il passaggio fisico può essere un guado oppure un passo montano, si pensi al Passo Resia che è il nome latinizzato di Reitia.
Per capire da dove viene Reitia bisogna partire da molto lontano. La culla della Grande Dea è Babilonia ove il suo primo nome fu quello della sensuale Inanna. Presso i Greci prese il nome di Gea - la Terra, ovvero colei che ha creato l'universo dal Chaos (creazione simboleggiata dall’Ouroboros che si morde la coda) senza intervento maschile. Gea generò i sette Titani (padroni delle rispettive potenze planetarie dell’epoca che corrispondono ai 7 metalli alchemici) e la figlia anatolica Cibele.
Presso i Romani Cibele veniva chiamata Rea e Rea Silvia (detta anche Ilia per la sua provenienza anatolica) ed è la madre dei gemelli allattati dalla lupa. Ebbene, Reitia è la Rea Silvia veneta, e non per nulla compare un lupo nelle sue raffigurazioni e anche la chiave (che è simbolo di Cibele). Dunque si tratta di un’unica Dea che ha assunto diversi nomi nel tempo ma che in essenza è sempre la stessa.
La chiave di Reitia si credeva perduta per sempre a causa dell’avvento del Cristianesimo. Fortunatamente questa chiave pratica ed operativa si è salvata grazie al suo mascheramento all'interno della dottrina alchemica, di cui parimenti costituisce il fondamento poiché Bisanzio fu a lungo miniera d’innumerevoli manoscritti alchemici che, radunati dalle rovine di Alessandria d’Egitto, prendevano il mare per Venezia.
In realtà essa è un caduceo stilizzato ed ha il potere di aprire agli iniziati i sette cancelli che conducono alle dimore dei Titani, come abbiamo visto i sette pianeti, i sette metalli collegati, ma anche i sette centri di forza lungo l’asse della colonna vertebrale, i chakra. La coppia di serpenti attorcigliata nel Caduceo è attorcigliata a questi sette centri di forza.
Robert Graves ne I miti greci riporta che la Dea creatrice creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna un titano e una titanessa: Iperione e Tia al Sole, Atlante e Febe alla Luna, Ceo e Meti a Mercurio, Eurimedonte e Temi al pianeta Giove, Crio e Dione a Marte, Oceano e Teti a Venere, Crono e Rea (Reitia) a Saturno.

Come potrebbe essere il rito di solstizio d’estate di una sacerdotessa di Reitia
Una volta raggiunta la sua meta, Benetika smontò e si sedette a gambe incrociate sull’erba, guardando verso oriente, laddove il cielo era striato delle varie tonalità di rosa di una splendida aurora. Pochi minuti dopo, il primo raggio di sole oltrepassò l’orizzonte lontano e colpì Benetika negli occhi. Allora la sacerdotessa sollevò le mani con i palmi rivolti al sole che sorgeva e gridò:
“Salute a te, o sole, nel giorno del tuo massimo splendore!”
Proprio in quel momento, risuonò il grido di un’aquila proprio sopra di lei. Benetika alzò di scatto lo sguardo e scorse ben tre di quei fieri uccelli che volavano in cerchio esattamente sulla sua verticale. Un istante dopo, s’involarono in direzione del sole sorgente, scomparendo rapidamente dalla vista.
Benetika sorrise: l’aquila era un animale solare, e vederne addirittura tre – numero sacro – in quel frangente era un ottimo presagio.
A quel punto chiuse le palpebre e sintonizzò le proprie energie con quelle del sole davanti a lei e della terra sotto di lei, i due elementi che simboleggiavano il Dio e la Dea, di cui a Beltane erano state festeggiate le Nozze Sacre e che al solstizio proclamavano la loro fertilità, che si rifletteva nella fertilità terrena di esseri umani, animali e vegetali, per poi giungere alla maturazione a Lughnasad, all’inizio di agosto, quando il grano sarebbe stato mietuto o pronto per la mietitura, a seconda della latitudine.

Celebrazione al tramonto
Benetika proseguì da sola verso la catasta di legna che, secondo le sue istruzioni, era unicamente di quercia; appoggiata sui grossi sassi che delimitavano il fuoco, c’era una torcia ben impregnata di resina e da lei precedentemente consacrata, ed accanto ad essa un cesto colmo delle erbe da offrire al fuoco, nonché acciarino e pietra focaia.
Come prima cosa, la sacerdotessa girò attorno alla catasta di legna per tre volte in senso orario, in tal modo consacrando l’area in cui sorgeva. Poi, orientandosi con la luce del sole declinante, individuò la prima direzione, quella dalla quale partiva sempre, ovvero l’est, e si girò in conseguenza.
“Leggiadra Reitia, io ti vedo seduta ad oriente, ti vedo seduta nel vento. Sei l’aria che respiro, sei saggezza, sei intuizione. Sei la brezza che accarezza l’erba, sei la bufera che spazza la pianura. Guardiana dell’Est, vieni a noi, assisti al nostro rito!”
Si inchinò profondamente, poi si mosse alla propria destra e si posizionò verso sud:
“Appassionata Reitia, io ti vedo seduta a meridione, ti vedo seduta nel fuoco. Sei il calore del mio corpo, sei movimento, sei trasformazione. Sei la fiamma confortante della candela, sei l’incendio che devasta la foresta. Guardiana del Sud, vieni a noi, assiti al nostro rito!”
Dopo essersi nuovamente inchinata, continuò alla propria destra fino a rivolgersi verso ovest.
“Potente Reitia, ti vedo seduta a occidente, ti vedo seduta nel mare. Sei l’acqua del mio corpo, sei compassione, sei guarigione. Sei la sorgente che sgorga dal terreno, sei il nubifragio che si abbatte sui campi. Guardiana dell’Ovest, vieni a noi, assisti al nostro rito!”
Di nuovo si inchinò prima di proseguire il giro, fino a fermarsi rivolta a nord:
“Generosa Reitia, ti vedo seduta a settentrione, ti vedo seduta nella terra. Sei le ossa del mio corpo, sei creazione, sei prosperità. Sei la pianura sconfinata, sei la più alta delle montagne. Guardiana del Nord, vieni a noi, assisti al nostro rito!”
Inchinatasi, Benetika concluse il suo periplo tornando al punto di partenza, ma rivolta verso la catasta di legna e sollevò le braccia ed il viso verso l’alto:
“Divina Reitia, ti vedo seduta in alto, ti vedo seduta nel cielo. Sei il nostro spirito, sei speranza, sei desiderio. Guardiana dell’Universo, vieni a noi, assisti al nostro rito!”
Tacque, abbassando le braccia e chinando il capo nell’ultimo inchino. In tutta la radura non si udiva un fiato: tutti erano rapiti dall’emozione del rito. Perfino oche e galline, cani e gatti non emettevano suono.
Benetika si accovacciò ed accese la torcia, che prese subito fuoco. Ripose acciarino e pietra focaia nel cesto delle erbe, poi alzò e sollevò la fiaccola alta verso il cielo, prima di riabbassarla e spingerla dentro una fessura fra i ciocchi di quercia, dove era stata posta della paglia secca cosparsa di resina. Subito si levò una lunga lingua di fiamma che cominciò a lambire la legna. Benetika girò attorno alla catasta, appiccando il fuoco dalle quattro direzioni per tornare nuovamente al punto di partenza che le fiamme cominciavano già a crepitare. A quel punto, gettò la torcia in cima alla catasta e prese il cesto, allontanandosi dal calore del fuoco che cominciava a diventare intenso.
“Questo è il fuoco del solstizio!”, annunciò con voce potente, come le usciva solo durante i riti – la chiamava la Voce della Dea “Con esso celebriamo il momento di massimo fulgore del sole, ed allo stesso tempo ricordiamo che è anche il momento in cui inizia il suo declino. La parte crescente dell’anno è terminata, ed inizia quella calante che ci porterà al solstizio d’inverno. E come in ogni momento di passaggio, di cambiamento, questo è un momento in cui regna il caos, il benefico caos da cui è nata la vita, e che rigenera l’Universo e noi stessi. Qui, in omaggio al popolo celtico, di cui i Boi facevano parte, Benetika aveva deciso di inserire un’usanza dei druidi, “Il Re della Quercia cede il posto al Re dell’Agrifoglio, che governerà questa parte dell’anno.”
Si fecero avanti due uomini, nei panni del vecchio Re della Quercia e del giovane Re dell’Agrifoglio che iniziarono un duello. Alla fine, il vecchio re venne vinto e cadde a terra. Benetika si fece avanti:
“Il vecchio Re della Quercia è sconfitto. Ora si recherà a dimorare nel Castello di Arianrhod fino al momento di ritornare, quando verrà a sfidare il Re dell’Agrifoglio, al solstizio d’inverno.”
Il giovane Re dell’Agrifoglio si inchinò al vecchio Re della Quercia per rendergli omaggio, poi a Benetika, ed infine sollevò le braccia in segno di vittoria. I presenti lo acclamarono rumorosamente.
Mentre i due si allontanavano dopo aver interpretato il duello rituale che simboleggia l’alternarsi delle stagioni, la sacerdotessa tornò ad avvicinarsi al fuoco. Prese una manciata di erbe dal cesto: timo, ruta, maggiorana, ginepro, artemisia, camomilla, verbena, calendula e iperico.
Alcune le aveva trovate nel bosco qualche giorno prima, altre le aveva prese dalla sua riserva di piante medicinali. Erano tutte piante dalle note virtù terapeutiche, che avevano un particolare potere proprio durante il periodo del solstizio estivo.
Benetika rifece ancora una volta il periplo del fuoco, gettando manciate delle prodigiose erbe nelle fiamme fino a svuotare il cesto. Poi lo posò e rifece al contrario le invocazioni, stavolta con una formula di ringraziamento e commiato. Quella finale fu quindi rivolta all’est:
“Leggiadra Reitia, ti ho vista seduta ad oriente, ti ho vista seduta nel vento. Guardiana dell’Est, ti ringrazio di essere venuta ad assistere al nostro rito, e ti saluto.”
Con tale invocazione, la sacerdotessa fece un ultimo inchino e procedette a sconsacrare girando in senso antiorario, infine tornò in mezzo alla gente.

Variante del rito, a mezzogiorno intorno ad un braciere (un falò di giorno manderebbe troppo caldo e non sarebbe una visione suggestiva come di notte):
assieme alla Dea la sacerdotessa invoca anche gli animali a Lei associati:
il cinghiale per l’oriente, che avanza con Reitia sulle ali del tiepido vento di primavera; il leone per il meridione, che procede con Reitia sulle fiamme del caldo fuoco estivo; il lupo per l’occidente, che marcia con Reitia nelle fresche piogge dell’autunno; l’orso per il settentrione, che si muove con Reitia sulla gelida terra invernale.

Le erbe e i fiori da gettare nel fuoco del braciere si possono anche variare: iperico, rosmarino, petali di rosa, artemisia, verbena, menta e lavanda, in una miscela profumatissima, ripetendo il gesto nelle quattro direzioni.

Benedizione di una sacerdotessa di Reitia ad un/a neonato/a, che si potrebbe anche fare per benedire noi stessi/e a tutte le nostre nuove nascite o inizi dell’anno (celtico o babbano):
rivolta ad est:
“Leggiadra Reitia, per mezzo dell’Aria tu sei il nostro respiro e la nostra ispirazione: concedi a (nome del/la neonato/a) chiarezza di mente, saggezza e conoscenza.”

A sud:
“Appassionata Reitia, per mezzo del Fuoco tu sei il nostro calore e la nostra luce: concedi a … giustizia, appagamento e gioia.”

Ad ovest:
“Potente Reitia, per mezzo dell’Acqua tu sei la nostra vita ed il nostro rinnovamento: concedi a … generosità, compassione ed amore.”

Infine a nord:
“Generosa Reitia, per mezzo della Terra tu sei il nostro sostentamento e la nostra forza: concedi a … salute, solidità e abbondanza.”

Completando il giro su se stessa, solleva il piccolo/la piccola verso l’alto e conclude:
“Divina Reitia, per mezzo dello Spirito tu rendi ogni cosa partecipe d’ogni altra e tutto congiungi in un’unica grande entità: concedi a … speranza, realizzazione e crescita spirituale.”

Da: http://www.freewebs.com/wicca_veneta/
http://www.youtube.com/watch?v=a5dF6UjkOw0
Sul sentiero di Reitia di Mariangela Mariga

Il mondo antico reinventato


In un’epoca paragonabile a quella alto medievale, l’Europa non ha mai conosciuto l’egemonia romana, ed ora è suddivisa in tre grandi potenze: la Federazione delle Libere Nazioni, la Repubblica Romana e l’Impero Ellenico.
La Federazione delle Libere Nazioni è l’erede della sorprendente alleanza tra Celti e Veneti, a cui più tardi si sono aggiunti i Germani e, qualche secolo dopo, i Norreni, che è riuscita a contenere l’espansione dell’ambizione romana verso nord; data l’indole fortemente individualistica delle popolazioni celtiche, la forma di governo è estremamente liberale: ogni tribù, o teuta, o gruppo di tribù affini si amministra da sé all’interno del proprio territorio, mentre l’autorità centrale si occupa della difesa da nemici esterni, regola il commercio fra la moltitudine di Stati che compone la Federazione, e dirime eventuali dispute tra gli Stati stessi. I territori della Federazione si estendono dalla penisola iberica al Mar Baltico e, lungo il fiume Vistola, fino al Sava ed ai Monti Sarmatici (Monti Carpazi) – che ne segnano il confine a meridione con l’Impero Ellenico ed a oriente con le sconfinate pianure sarmatiche – e comprende anche l’arcipelago di Prydein (Britannia, gallese antico), l’Islanda e la Scandinavia, mentre a meridione giunge fino alla catena degli Appennini Settentrionali e il Monte Conero. La capitale della Federazione è Belgica, fondata appositamente nell’omonima regione a nord della Celtica (Francia) perché situata quasi nel perfetto centro geografico dei suoi territori; nelle varie regioni si parlano molti idiomi diversi, ma la lingua franca è il veneto, poiché i Veneti, grandi mercanti e viaggiatori, sono stanziati in molti territori della Federazione: oltre al Veneto, essi abitano la Vandea nella Celtica nord-occidentale, la Vindelicia (odierna Svevia in Germania) a nordest del Lago Veneto (Lago di Costanza), la Venedozia nel settentrione del Galles, la Vendia nelle pianure a meridione del Mar Baltico; ci sono enclavi venetiche perfino nell’Impero Ellenico e nella Repubblica Romana: nel primo, l’Enezia, chiamata anche Paflagonia, situata sulle sponde sud-occidentali del Ponto Eusino (Mar Nero, dal greco Pontos Euxeinos, ovvero Mare Ospitale), nel nord dell’Anatolia; nel secondo, la Venetulana, nel centro dell’Italia.
La Repubblica Romana è una potenza prevalentemente marinara: comprende infatti l’intera penisola italica, dov’è ubicata la capitale, Roma; le grandi isole di Corsica, Sardegna e Sicilia; l’arcipelago di Malta e le isole Baleari; e tutti i territori dell’Africa settentrionale dalla catena dell’Alto Atlante alla Cirenaica (Libia), dove hanno fatto fiorire il deserto con immense e geniali opere idrauliche quali acquedotti lunghi migliaia di chilometri, fitte reti di canali d’irrigazione ed enormi serbatoi sotterranei, ciò che ha consentito loro di conquistare vastissime regioni all’agricoltura e di diventare in tal modo una grande potenza economica, nonostante l’inferiore estensione territoriale rispetto alla Federazione delle Libere Nazioni ed all’Impero Ellenico. La forma di governo, come dice il suo nome, è la repubblica, la cui amministrazione, assai complessa, è fondamentalmente affidata a tre organi: il Senato per il potere esecutivo, l’Assemblea per quello legislativo, e la Pretura per quello giudiziario. La lingua parlata ovunque è il latino, dato che i Latini sono il popolo che domina il Mediterraneo, mare su cui si affacciano tutti i territori della Repubblica.
L’Impero Ellenico consiste nelle regioni conquistate dal grande condottiero Alessandro, a cui si sono aggiunte alcune altre; gli Alessandriti, discendenti del semileggendario fondatore dell’impero, uomini e donne spesso altrettanto carismatici, ancora siedono sul trono di Babilonia (Al Hillah, in Iraq), la spettacolare capitale famosa per i suoi giardini pensili, il cui governo si estende dalla Dalmazia e dalla Valacchia nella penisola balcanica verso est fino al fiume Indo, passando per Mesopotamia, Persia, Bactria (territorio tra Hindu Kush e Pamir, comprendente nord Afghanistan, sud Tajikistan e sud Uzbekistan) fino in Aracosia (territorio tra Iran e Afghanistan) e Gedrosia (tra l’Indo e l’Iran), e verso meridione fino all’Egitto attraverso lo stretto corridoio siriano. Grazie alla politica matrimoniale volta all’integrazione e all’unificazione, promossa da Alessandro Magno e continuata dai suoi discendenti, l’Impero è culturalmente e politicamente molto compatto, pur conservando e rispettando le innumerevoli tradizioni locali dei tanti popoli che comprende. La forma di governo è la monarchia assoluta; il Consiglio che affianca l’Imperatore o l’Imperatrice ha funzioni puramente consultive ed esecutive. La lingua comune è il greco, a suo tempo preferito al macedone perché più diffuso fin dall’epoca della fondazione dell’impero.
L’immensa regione che si estende dal Mar Baltico, la Vistola e i monti Sarmatici ad est e i monti Urali ad ovest, delimitata a nord dal gelido Mare di Ghiaccio e a sud dal Ponto Eusino, dalle montagne del Caucaso e dall’Oceano Ircano (Mar Caspio, dal greco Okeanos Hyrcanos, ovvero mare dell’Ircania), è abitata da centinaia di tribù di popoli barbari in costante guerra tra loro, collettivamente denominati Sarmati, ma in realtà formati da innumerevoli etnie diverse. Troppo occupati a combattersi tra loro, i Sarmati non hanno mai costituito una minaccia né per la Federazione delle Libere Nazioni a  occidente, né per l’Impero Ellenico a meridione, né tantomeno per la Repubblica Romana, la quale non confina con i loro territori. Oltre agli Urali, nessuno sa cosa ci sia.
Nella direzione opposta, a occidente, l’Oceano (Atlantico) costituisce con le sue acque tempestose una barriera tuttora inviolabile.
Ai limiti meridionali della Repubblica Romana e dell’Impero Ellenico si trova un’immensa distesa di sabbie e rocce infuocate, del tutto disabitata, finora mai attraversata, oppure, se qualcuno l’ha fatto, non è mai tornato a raccontare cos’abbia trovato più in là; mentre l’espansione ellenica verso sud-est si è infranta contro l’invalicabile muraglia della catena montuosa più alta mai vista da occhi umani e contro le aggressive e ferocissime popolazioni guerriere che all’epoca abitavano i territori oltre l’Indo, da esso chiamate Indiane, le quali avevano a disposizione terrificanti quadrupedi dalla mole immensa, chiamati elefanti, assolutamente irresistibili in battaglia, come ben avrebbe dimostrato più tardi anche Annibale. Ora queste popolazioni hanno placato la loro bellicosità e stretto accordi commerciali con l’Impero Ellenico, il quale in tal modo detiene l’esclusiva del commercio della seta e delle spezie.
Per finire, a settentrione tanto le terre della Federazione delle Libere Nazioni che quelle dei Sarmati finiscono nel Mare di Ghiaccio (Mar di Barents).
I rapporti politici fra le tre grandi potenze che si suddividono Europa e Asia Minore sono abbastanza cordiali, dato che ciascuna di esse ha sfere d’influenza e risorse economiche diverse; il commercio è assai vivace, e merci d’ogni genere viaggiano per terra e per mare anche per migliaia di chilometri, come ad esempio legnami pregiati, seta e spezie dall’oriente attraverso l’Impero Ellenico, vino, olio, sale e grano dalla Repubblica Romana; ambra, salgemma, piombo, ferro, rame, oro, argento della Federazione delle Libere Nazioni.
Innumerevoli sono i nomi con cui gli esseri umani onorano il Principio Divino, consci che, qualsiasi sia l’aspetto che di esso hanno scelto di venerare, maschile o femminile, luminoso od oscuro, questo in realtà è uno solo, ma che per la nostra limitatezza umana mai potremo vedere nella sua interezza. E poco conta che un nume venga chiamato con appellativi differenti in luoghi differenti: si tratta dello stesso nume, ed è una parte del Principio Divino.
Tuttavia, ci sono alcune divinità che sono più venerate di altre, e tra esse forse la più importante  è Reitia, la Grande Madre, dea dei Veneti; l’origine del Suo culto si perde nella notte dei tempi ed è diffuso ovunque i Veneti si sono stanziati. La fama di Reitia ha travalicato confini etnici e geografici soprattutto per merito delle Sue sacerdotesse itineranti; esse hanno due specializzazioni: sono delle formidabile guerriere oppure delle eccezionali guaritrici, ed offrono la propria assistenza a chiunque ne abbia bisogno, re o contadini, ricchi o miserabili, in cambio di nulla più di ciò che ciascuno può dare. Il loro intento è quello di portare compassione, giustizia ed equità nel mondo, e godono di una reputazione altissima, tanto che i loro ausili, così come i consigli, sono molto ricercati a ogni livello sociale, dal capo di stato al più umile dei pastori, dall’alto magistrato alla semplice massaia. I druidi celti, gli sciamani norreni, i sacerdoti romani, i gerofanti greci, i prelati egizi, finanche i bramini indiani le tengono in grandissima considerazione, sebbene non esistano templi immensi dedicati alla loro divinità ad impressionare le folle, perché si afferma che Reitia, in quanto Madre del mondo e quindi della natura, apprezzi sopra ogni cosa i luoghi aperti. Stimate e rispettate praticamente ovunque, tanto nella Federazione delle Libere Nazioni che nella Repubblica Romana e nell’Impero Ellenico, le Sacerdotesse di Reitia sono anche temute, perché chi fa loro un torto, invariabilmente subisce pesanti punizioni. Donde queste punizioni arrivino, se direttamente dalla loro Dea o dalla stessa sacerdotessa o dalle sue compagne, molto spesso è un mistero. C’è chi dice che in molte di esse scorra il sangue delle Anguane, creature fatate che popolano soprattutto i luoghi legati all’acqua, e sono conosciute in tutto il mondo con mille nomi diversi. Di certo, le Anguane abitano le profondità del lago chiamato Specchio di Reitia, al centro del quale, su un’isola verdeggiante, sorge la Casa Capitolare dell’Ordine di Reitia. Questo lago è situato tra le città di Vicesa, Patavia ed Atese, nel territorio chiamato Veneto, il quale è considerato la patria dei Veneti anche se non è il loro luogo d’origine – diversi territori si contendono tale onore, ma la verità si è perduta nelle brume del Tempo – ubicato nella grande pianura generata dal fiume Pado, che discende dalle alte vette delle Alpi per sfociare con un grande delta, alcune centinaia di chilometri dopo, in quella parte del Mediterraneo chiamata Mar Adriatico

Da: Sul sentiero di Reitia di Mariangela Mariga

mercoledì 2 novembre 2011

Il Cavaliere senza Testa


Penso proprio che Samhain sia, tra le altre cose, la festa delle teste mozzate e la candela nella zucca di Jack’O’Lantern può essere assimilata all’anima che risiede nella testa, secondo la credenza dei Celti. La decollazione ha un forte significato simbolico, di morte e poi di rinascita. Staccare il capo dal corpo ovvero lo spirito dal corpo, dalla componente materiale, liberarlo dalla materia, non a caso è decollare, etimologicamente far volare.
Un film che ci cala perfettamente nell’atmosfera di questo periodo è I
l mistero di Sleepy Hollow,  tratto dal racconto La leggenda della valle addormentata di Washington Irving, in cui viene narrata la vicenda dell’inquietante Cavaliere senza Testa, un mercenario dell'Assia dalla crudeltà inaudita, che aveva la macabra abitudine di mozzare le teste dei suoi nemici e che fu scoperto grazie a due ragazzine e decapitato a sua volta sotto lo sguardo sconvolto delle due. Il cavaliere risorge dalla tomba per vendicarsi e uccide gli abitanti del villaggio di Sleepy Hollow, decapitandoli. Le vittime vengono tutte ritrovate senza testa.
Forse il film si ispira a una leggenda scozzese tramandata oralmente su di un principe chiamato Samhain, proprio come la festa del 31 Ottobre, ma che è da considerare il Signore della morte e non il nome di una festa.

Samhain nella leggenda correva per le brughiere con un cavallo imbizzarrito, armato di spada, a staccare la testa a coloro che non rendevano omaggio al suo passaggio.
Una tradizione delle Highlands vuole che giovani uomini camminassero ai confini delle fattorie con delle torce per proteggere la propria casa dagli spiriti dei morti e dal passaggio di Samhain, al quale dovevano fare delle offerte. Dovevano lasciargli qualcosa che era morto o con cui si voleva chiudere un ciclo, perché lo portasse via.
Nella notte dell'Equinozio d’Autunno vennero ritrovati molti corpi privi di testa nei boschi attorno alla contea di Ayr e in seguito ogni anno alla stessa data in diversi luoghi in Scozia e in Galles.
Il Principe Samhain può essere assimilato al Capo della Caccia Selvaggia.
Secondo una leggenda del Trentino la Caccia era guidata da un gigantesco cavaliere con un occhio solo, seguito da una scia luminosa, soprattutto nelle notti di fine anno.
Si dice anche che il Cavaliere Guercio cavalcasse un destriero senza testa, o, altre volte, che cavalcasse con la testa sotto al braccio.
In occasione dell'ultima visita che Eugenio IV fece a Firenze fu visto uno stuolo di cani, si dice addirittura quattromila, correre velocissimamente verso Nord; dietro di loro moltissimi animali e, dopo ancora, uomini armati, a piedi o a cavallo, uomini senza testa, alcuni quasi invisibili, e per ultimo un gigantesco guerriero circondato anch’esso da un'enorme quantità di animali.
Gli uomini senza testa che cavalcano nella Caccia Selvaggia sono assimilabili ai corpi di uomini senza testa che venivano trovati nel giorno dell'Equinozio d'Autunno,
inoltre il guerriero della leggenda trentina che cavalca un destriero senza testa, oppure che cavalca tenendo la propria testa sotto al braccio, richiama non solo i Capi della Caccia Selvaggia e Signori dell’Annwn delle leggende celtiche, come Arawn o Gwyn ap Nudd, ma anche e soprattutto il misterioso Principe Samhain, che si aggirava a mozzare la testa a chiunque incontrasse e il Cavaliere senza Testa de Il mistero di Sleepy Hollow!
Tutto ritorna, i miti non muoiono mai, nell’eterno ciclo di nascita-morte-rinascita che ha inizio e fine a Samhain