giovedì 22 dicembre 2011

Rito di Yule




Procuratevi un sasso non molto grande, 3 foglie di agrifoglio e un recipiente di vetro.
La notte del 20 dicembre riempite il recipiente di vetro d’acqua, dopo averci incollato un’etichetta con la parola di quello che volete ottenere (serenità, abbondanza, salute, etc.), tenete il barattolo un po’ tra le mani pensando a quella parola, poi mettetelo all’aperto tutta la notte per purificarlo fino all’alba, quindi all’alba del 21 dicembre, dopo aver immerso nell’acqua le 3 foglie di agrifoglio, lasciatelo fino al tramonto, quando il sole sta per tramontare togliete le foglie dall’acqua.
L’acqua ottenuta sarà carica delle proprietà magiche dell’agrifoglio.
Versate l’acqua sulla pietra, pensando allo scopo per cui la pietra è lì con voi, lasciate che l’acqua si asciughi o venga assorbita del tutto e posizionatela sull’altare o dove più vi piace.
All’alba del 21 dicembre dopo la meditazione del giorno 0 (http://damadiavalon.blogspot.com/2011/12/il-ciclo-dei-dodici-giorni-di-natale.html), se volete accendete una candela ed un incenso, quindi attendete il sorgere del sole, quando albeggia ripetete con voce vibrante la parola d’ispirazione druidica: Awen Awen Awen… per un po’, magari collegandovi al sito di Glastonbury con la telecamera permanente, (Glastonbury.notlong.com) in modo da essere in sintonia con il sorgere del sole anche in quel luogo sacro.

Quando il sole è sorto dite a voce alta:
Benvenuto Fanciullo Sole, figlio della Dea, che regnerai nella Gioia
donandoci generose stagioni di vita, per la pienezza di tutti.
Onore alla Grande Dea e al Suo nuovo Figliolo splendente!

(Poi volgendovi nelle quattro direzioni):

Spirito dell’Est, casa della Luce, possa la saggezza aprirsi in aurora su di me perché possa vedere tutto con chiarezza.
A me la profonda pace del flusso dell’aria

Spirito del Sud, casa del Sole Eterno, che l’azione corretta mi dia il raccolto perché possa godere i frutti dell’Essere Planetario, concedimi giustizia, appagamento e gioia.
A me la profonda pace delle stelle lucenti

Spirito dell’Ovest, casa della Trasformazione, possa la saggezza trasformarsi in azione corretta perché possa fare ciò che va fatto, concedimi generosità, compassione ed Amore.
A me la profonda pace dello scorrere dell’onda

Spirito del Nord, casa della Notte, che la saggezza maturi dentro di me perché possa conoscere tutto dal di dentro, concedimi salute, solidità ed abbondanza.
A me la profonda pace della terra silenziosa

Quindi, dopo esservi messi nel punto che volete voi:

Spirito dell’Alto, Casa del Cielo dove si riuniscono gli Antenati e
 la Gente delle Stelle, che le benedizioni giungano a me, ora

Spirito del Basso, Casa della Terra, che il battito del cuore di cristallo del pianeta ci benedica con la sua armonia perché possiamo porre fine a tutte le guerre

Spirito del Centro, fonte della Galassia che si trova dappertutto nello stesso tempo, che tutto possa riconoscersi come luce di mutuo Amore!

Che mi sia concessa speranza, realizzazione e crescita spirituale
Che l’alba mi trovi desta e attenta,
pronta ad affrontare la nuova giornata,
con i suoi sogni,
le possibilità e le promesse

Che la sera mi trovi felice ed appagata

Che io possa entrare nella notte beata,
protetta e difesa


Caro Babbo Natale, cara Luna, caro Sole, care Fate, cara Morgana amica mia, cari Gnomi, cari Animali Magici e cara Grande Madre che tutto comprendi e contieni, statemi sempre vicino e non fatemi mai mancare i vostri preziosi consigli.
Che il Sole Sorgente con la sua splendida Rinascita faccia rinascere anche me splendidamente con Lui!
Così sia

Io vi saluto Dio del Sole, Spirito dell’Est, Spirito del Sud, Spirito dell’Ovest, Spirito del Nord, Spirito dell’Alto, Spirito del Basso, Spirito del Centro, Babbo Natale, Dea della Luna, Fate, Morgana, Gnomi, Animali Magici e Grande Madre, potete andare se volete

Il ciclo dei Dodici giorni di Natale - Giorno 0 (meditazione)


Il giorno 25 dicembre è il compleanno di Mitra, Attis, Dioniso, Horus e del Sole Invitto.
Dato che non fa parte dei Dodici Giorni lo conteremo semplicemente come un giorno che prepara i giorni rimanenti.
Lo iniziamo come una meditazione, tieni vicino una penna ed un foglio in modo da annotare ogni nuovo pensiero, immagine, scoperta, riflessione che ne nascerà.
Accendi una candela o entra in stato meditativo, come preferisci, siediti e pensa a quello che il Solstizio significa per te.

Immagina di andare in un boschetto di dodici alberi ampiamente incisi con i simboli del Solstizio.
Mentre ti rilassi vedi un Cervo con belle ed enormi corna rivestite di ramoscelli di vite e muschio. I suoi occhi emanano la Conoscenza del mondo. Il Cervo si volta e tu lo segui, Egli ti conduce dal boschetto nel profondo dei boschi selvaggi, man mano che lo segui i tuoi pensieri si fanno sempre più chiari, aspira il profumo dei boschi, senti lo scricchiolio della neve sotto i piedi, Egli ti conduce nel profondo, arrivi in un altro boschetto di querce antiche e maestose dove ogni albero ti rimanda ad un mese dell’anno.
Nel centro di esso si trova un focolare di pietra colmo di legna e sterpi da bruciare. Mentre il Cervo cammina si trasforma in un uomo al tempo stesso vecchio, giovane. EGLI è ogni uomo, in tutte le fasi della vita. Si ferma accanto al focolare e ti esorta a venire avanti. Mentre vieni avanti una brezza ti porta i suoni dei boschi, ascoltala attentamente: la brezza porta anche un messaggio per te. Cammina all’interno del boschetto di querce e tra le radici ingarbugliate, al di là degli alberi. È inverno, ma all’interno del cerchio degli alberi non c’è neve, non è estate, o primavera o autunno, è un luogo fuori dal tempo.
Lasciati pervadere dalle sensazioni. Avvicinati al Dio, quando si gira, si inginocchia davanti al focolare e accende il fuoco che subito divampa. Quando guardi dentro il fuoco, lo senti dire: “Guarda il fuoco del Solstizio! Guarda la meraviglia del Sole di Mezzo Inverno! Accogli le benedizioni degli Antenati, porta la Luce nel tuo mondo, nei fuochi accesi del tuo cuore!”
Mentre dice queste parole un tepore si diffonde attraverso di te e ti avvolge.
Ora Egli si gira per guardare dietro di te, ti giri anche tu e noti che il cerchio degli alberi diventa più luminoso e più brillante, vedi il Sole sorgere tra i rami, la luce danzare sulla neve, incendiarsi di molti colori come un prisma man mano che si diffonde nel piccolo bosco. Come la luce ti avvolge, accogli il ritorno del Sole Invitto con un grido potente. Senti un’eco di molte voci intorno a te, voci antiche che rispondono al richiamo, tutti quelli che sono passati attraverso i Veli prima che tu dessi il benvenuto al ritorno del Sole. Senti il suo tepore, lascia che i ricordi dei bei momenti passati con il Sole fluiscano in te, abbandonati alla gioia.
Il Dio ti chiama e quando ti volti, lo vedi cambiare e trasformarsi nello Spirito del Natale, diventa il vecchio Babbo Natale, quindi ancora l’antico sciamano con le corna sulla testa, Odino, Santa Klaus… vedi dentro di lui i portatori della Luce della Stagione. Accanto a lui si trova un sacco di pelle, Egli lo apre e ti esorta a guardare dentro, vedi che c’è oscurità, ci infili una mano e senti una magica energia fluire su di essa, è l’energia di un dono, lo tiri fuori. Come ti allontani dal sacco, il Dio ti guarda. I suoi occhi ora sono scintillanti. Mentre sei al cospetto del Dio, questo è il momento di fare domande, se vuoi. Ascolta bene le sue risposte. Dopo che il Dio ha risposto alle tue domande tira fuori dai tuoi vestiti una pietra in offerta, alimenta con questa il fuoco (o più pietre in offerta, una per ogni domanda).
Il Dio ti dice di guardare ai tuoi piedi. Anche lì c’è un sacco, una versione più piccola del SUO, raccoglilo, immagina che diventi del tuo colore preferito, che diventi più piccolo o più grande, semplicemente segui quello che senti.
Dopo che è cambiato, metti dentro il tuo dono.
Quando guardi di nuovo il Dio, lo senti dire: “Hai viaggiato lontano per essere testimone della nascita del Sole Invitto. Assicurati di portare con te nel tuo proprio mondo la Luce gloriosa del Solstizio, ti chiedo di non dimenticare mai il peso del sacco sulla tua schiena, questo è il sacco delle tradizioni, quelle già nate e quelle non ancora nate, che è tuo dovere sacrosanto venerare e rispettare. Perciò ricordati che se si lasciano morire le antiche usanze, un giorno potrebbe succedere che il Sole non sorga in questo Giorno dei Giorni e rimarrà solo l’oscurità. Possa quel giorno non avvenire mai e possiamo noi incontrarci ancora nel centro silenzioso del Solstizio molti giorni ancora.”
Guarda dentro al fuoco nel focolare, cerca tutte le informazioni che puoi per l’anno che verrà o semplicemente goditi il tepore che proviene dal fuoco. Quando ti senti pronto torna indietro per il sentiero fino al margine del boschetto, passa in mezzo agli alberi antichi, sentiti muovere lentamente attraverso il tempo e lo spazio. Lo spazio in mezzo agli alberi è più profondo di quello che pensavi, rientra lentamente dal boschetto dentro al tuo spazio, dentro al tuo corpo e svegliati.
Una volta che sei rientrato completamente nel tuo corpo scrivi tutte le cose che hai notato nella tua visione. Non pensarci molto, semplicemente scrivi, puoi sempre revisionare le tue annotazioni più tardi.

NOTA: Non ti ho detto di ringraziare il Dio perché per mia esperienza personale gli Dei vedono questo come un insulto, se li ringrazi è come se li considerassi dei servitori che ti hanno reso un servizio. Io lascio loro un’offerta, ma se pensi che sia giusto farlo, ringraziali pure

(Liberamente tradotto da
 
http://www.youtube.com/watch?v=zoZVeSrkjJw&feature=mfu_in_order&list=UL)

domenica 18 dicembre 2011

I Dodici Giorni di Natale



Il ciclo dei Dodici Giorni di Natale inizia il giorno dopo Natale fino al 6 gennaio, il giorno del compleanno di Aion, il bambino nato da Core, la figlia di Demetra.
Aion o Eone, nella tradizione cosmologica greca, era la personificazione del Tempo, insieme a quella più celebre di
Crono, corrispondente al Saturno latino. Venerato come "Signore della luce", rappresenta l'eternità, il tempo infinito, nonché il susseguirsi delle ere.
Per gli antichi Greci c’erano tre modi per indicare il tempo: aion, kronos e kairos. Aion indicava la suddivisione del tempo in grandi ere; kronos era lo scorrere giornaliero delle ore; kairos era, infine, il momento di grazia, magico ed eccezionale.
Iconograficamente lo troviamo raffigurato come un uomo con la testa leonina, con uno scettro, una chiave ed un fulmine tra le mani, avvolto da un serpente che intorno al suo corpo compie 7 giri e mezzo, corrispondenti alle sfere celesti.
È stato equiparato al dio del tempo persiano Zurvan.
Euripide riporta Aion come figlio di Crono.
In alcuni culti misterici veniva festeggiata ad Alessandria d'Egitto, il 6 gennaio, la sua nascita in una festa presso il santuario di Core. In tale occasione l'immagine di un bambino veniva portata in processione dal tempio al Nilo per raccogliere acqua che poi si sarebbe trasformata in vino.
Eraclito dice: "Lui è un bambino che gioca come un bambino e sposta le figure sul tavoliere. Il regno è di un bambino".
Ritornando ai Dodici Giorni di Natale, essi sono chiamati “intercalari”, cioè giorni non inclusi nel calendario.
Nel 1582 Papa Gregorio XIII cambiò il calendario giuliano nel tentativo di aggiungere i giorni al calendario.
In Gran Bretagna lo cambiarono solo nel 1751 ed il popolo insorse per reclamare i giorni che il governo gli aveva “sottratto”. Questi giorni sono considerati speciali dagli antichi Egizi e in tutto il mondo antico.
I Dodici Giorni rappresentano un giorno per ciascun mese dell’anno a venire e sono impiegati per onorare gli Dei.
Nel 560 d.C. il Concilio di Tours li dichiarò parte delle celebrazioni di Natale e si accesero 12 falò sulle colline.
Fra tutti gli usi rituali e le credenze antiche conservate, il cosiddetto presagio delle calende è quello che mostra una più lunga continuità.
Il termine calende traduce l’equivalente termine latino kalendae, legata al verbo calare, cioè fare l’appello.
Questo presagio, nel periodo bizantino era chiamato dodekaemeròn, cioè i dodici giorni. Esso consiste nel presagire l’andamento meteorologico nel corso dell’anno a partire dall’osservazione delle condizioni meteorologiche dei dodici giorni compresi nel periodo solstiziale. Si fanno corrispondere a questi giorni i mesi dell’anno e si procede per analogia: se la giornata sarà bella, il mese corrispondente sarà caratterizzato da tempo sereno o variabile. A volte invece, il presagio viene trattato in modo inverso: calende chiare mese torbido.
Al conteggio dei giorni segue a volte una verifica: si osservano, per verificare la veridicità del responso ottenuto precedentemente, anche i dodici giorni che seguono le calende. Ad esempio, i giorni che vanno dal 7 al 18 gennaio vengono abbinati ai dodici mesi dell’anno ma in ordine inverso (probabilmente deriva dall’antico uso romano di contare a ritroso i giorni della seconda metà del mese). In caso di concordanza fra il primo e il secondo esito del presagio delle calende, cioè se si verificano le stesse condizioni meteorologiche il 26 dicembre e il 18 gennaio, il 27 dicembre e il 17 gennaio e così via, il presagio sarà confermato, mentre in caso di discordanza il tempo sarà variabile.
Twelve Days of Christmas è una famosa
canzone natalizia in inglese, una delle più popolari.
La musica è di origine ignota, benché presente in area britannica e scandinava già nel XVI secolo.
L'esistenza di versioni francesi ancora più antiche (e il riferimento alla pernice che fu introdotta in Inghilterra solo attorno al 1770) fa però presumere un'origine francese.
All'inizio del
XX secolo, Frederick Austin scrisse un arrangiamento, che è quello usato modernamente, dove inserì una propria melodia dal quinto verso ("golden rings") in poi.
Il testo è una filastrocca infantile pubblicata per la prima volta nel libro Mirth without Mischief (Gioie Innocenti) a Londra nel 1780. Doveva essere recitata da alcuni giocatori in circolo nel corso di un gioco di memoria in cui i giocatori recitavano a turno un verso della filastrocca, in sequenza. Anni dopo, gioco e filastrocca furono riproposti da una collezionista di canzoni popolari, Lady Gomme, come "Un bel divertimento per tutta la famiglia prima della cena della dodicesima notte di Natale."
La canzone ha la struttura cumulativa tipica delle filastrocche; il narratore descrive i doni che gli vengono consegnati dal suo "vero" amore nei dodici giorni di Natale. Ogni strofa elenca tutti i doni delle strofe precedenti, aggiungendone uno.
Una struttura simile si ritrova nel brano Alla fiera dell'est di Angelo Branduardi.

On the first day of Christmas, my true love sent to me a partridge in a pear tree.
On the second day of Christmas, my true love sent to me two turtle doves, and a partridge in a pear tree.
On the third day of Christmas, my true love sent to me three french hens, two turtle doves, and a partridge in a pear tree.


La canzone continua secondo questo schema fino ad arrivare all'ultimo verso:

On the twelfth day of Christmas, my true love gave (sent) to me
Twelve drummers drumming
Eleven pipers piping
Ten lords a-leaping
Nine ladies dancing
Eight maids a-milking
Seven swans a-swimming
Six geese a-laying
Five golden (gold) rings
Four calling (colly) birds
Three french hens
Two turtle doves
And a partridge in a pear tree


I doni, in sequenza, sono:
Una pernice in un pero
2 tortore
3 galline francesi
4 uccelli che richiamano (o neri come il carbone)
5 anelli d'oro
6 oche che covano
7 cigni che nuotano
8 fanciulle che mungono
9 signore che danzano
10 signori che saltano
11 pifferai che suonano
12 tamburini che battono il tamburo

Il pero del primo verso avrebbe potuto essere "une perdrix" (una pernice in francese). Il quarto dono era in origine di quattro "Colly (o collie) birds" cioè uccelli neri come il carbone. Il quinto dono potrebbe riferirsi agli anelli che ornano il collo di alcuni uccelli (ad esempio i fagiani) in coerenza col fatto che i doni da uno a quattro e il sesto si riferiscono ad uccelli. In molte versioni c'è un ordine diverso degli ultimi quattro oggetti. Esistono inoltre innumerevoli versioni modificate e parodie musicali o in prosa.
Pare che la popolare canzone natalizia non sia una banale sequenza di rime prive di senso o una strana lista di regali, ma che nasconda un significato profondo.
In Inghilterra, nel periodo che va dal 1558 al 1829, ai cattolici fu vietato per legge l’esercizio, privato e pubblico, della propria fede. L’opinione più diffusa è che la canzone Twelve Days of Christmas sia un ricordo del periodo in cui il cattolicesimo era illegale: si dice che fu scritta in Inghilterra come esercizio di memoria per aiutare i giovani cattolici a imparare i dogmi della loro fede, ma in realtà, abbiamo visto che è probabile che l’origine della canzone sia francese.
Inoltre, secondo lo storico Gerry Bowler, autore di The Encyclopedia of Christmas, nessuno dei supposti significati segreti è distintamente cattolico. Tutti e dodici i messaggi in codice sarebbero stati considerati dai protestanti che governavano in Inghilterra all’epoca compatibili con la normale ortodossia cristiana, così non ci sarebbe stato alcun bisogno di essere insegnati di nascosto.
Alcuni studiosi, incluso il professor Edward Phinney dell’Università del Massachusetts, sostengono che sia innanzitutto una canzone d’amore e che tutti i doni menzionati in essa siano quelli fatti da un uomo alla propria amata. Alcuni di essi sembrano impossibili da donare, come le otto fanciulle che mungono e le nove signore che danzano, ma sia esse che i suonatori di piffero e di tamburo fanno pensare a un matrimonio.
I doni sono decisamente simboli di fertilità, ad esempio se pensiamo alla pernice nel pero, il pero rappresenta il cuore e la pernice è un famoso afrodisiaco.
E che dire delle sei oche che covano? Sette dei dodici versi della canzone si riferiscono ad uccelli di varie specie, tutti simboli di fertilità.
La canzone sarebbe più appropriata ad una festa di amore e gioia come quella di San Valentino o del Primo Maggio che ad una festa religiosa.
Tutti i riferimenti ornitologici, in realtà, richiamano la Dea-Uccello. La mito-archeologa Marija Gimbutas (scomparsa nel 1994), durante i suoi trent’anni di ricerche sul campo ha notato una stupefacente somiglianza tra le figure della Dea nell’Età della Pietra e diversi animali e uccelli, in particolare quelli acquatici, una Dea creatrice del Paleolitico che formò se stessa e il mondo dall’acqua.
Uno tra i segni più antichi e diffusi rinvenuti sulle statuette delle divinità femminili preistoriche in Europa è il triangolo pubico, allusivo non solo della fecondità in generale ma più specificamente della V formata dal branco di oche in volo.
Oche, gru e cigni s’incontrano in dipinti o graffiti nelle grotte del Paleolitico Superiore o intagliati su oggetti in osso e certe rappresentazioni di uccelli acquatici sono chiaramente antropomorfizzate. La Dea Uccello era la Fonte e la Dispensatrice dell’umidità che dà la vita, come un uccello acquatico congiungeva cielo e terra e forse si riteneva che nella sua dimora terrestre si rispecchiasse un regno acquatico divino; una cosmologia connessa anche alla migrazione annuale: infatti il nuovo inizio della vita in primavera era annunciato dal suo riapparire in Europa.
La migrazione, la deposizione delle uova, la loro cova e il rapporto con l’acqua quale fonte radicale di vita sono i tratti essenziali che produssero nell’infanzia del mondo la correlazione identificativa tra la Dea Madre Rigenerante e l’uccello acquatico. Figure femminili con maschere ornitomorfe od occhi di civetta e tombe dalla forma ovale, in relazione all’idea dell’Uovo Cosmico come grembo in cui si è sviluppato l’universo, le troviamo un po’ in tutta l’Europa antica a testimonianza di un legame inscindibile durato millenni. Inoltre il migrare dei palmipedi con la sua scansione temporale era facilmente collegabile alle “regole” delle donne (le mestruazioni), la cui ritmicità mensile, identica a quella lunare, le rendeva inequivocabili strumenti di misurazione del tempo. Un nesso simbolico e cosmologico che percorre un po’ tutta la mitologia europea – si pensi alle numerose Dee Filatrici, arbitre del Tempo e dei destini – e che forse non è estraneo alla struttura della clessidra, formata appunto da due triangoli/vulve collegati.
Ma la testimonianza più significativa che l’esegesi gimbutiana è fondata e coerente, ci viene dalla sua clamorosa persistenza nell’immaginario collettivo. Il folclore è gremito di donne sovrannaturali che si muovono su zampe d’uccello o si trasformano in oche o cigni e l’uovo ha un potere rinnovatore così consolidato che lo ritroviamo perfino in occasione della Pasqua cristiana, in quanto festa di morte e resurrezione.
Ecco che comincia a delinearsi il “true love”, il vero amore di chi ha composto la canzone!

Da: I 7 veli di Iside di Selene Ballerini
www.pesariis.it/associagiovani/azioni/.../calendario_4_trimestre.pdf

http://www.youtube.com/watch?v=zoZVeSrkjJw&feature=mfu_in_order&list=UL
http://it.wikipedia.org/wiki/Twelve_Days_of_Christmas
http://urbanlegends.about.com/od/christmaslore/a/12_days_of_christmas_meaning_2.htm

lunedì 12 dicembre 2011

Le anguane



Chi sono le anguane? Sono delle figure mitiche femminili e soprannaturali, che si incontrano nel folklore popolare di tutta l’Italia settentrionale, e in particolare nel Veneto, in Friuli e nel Trentino, giù fino al Po, con diramazioni e riferimenti perfino nelle tradizioni popolari dell’Europa dell’Est (Slovenia, Bosnia, Albania).
Il nome delle anguane doveva essere antico poiché se ne trovano tracce anche nel passato: presso la Basilica di San Vincenzo a Galliano di Cantù, in provincia di Como, venne ritrovata un’ara di epoca romana con una epigrafe indicante una dedica indirizzata alle “Matronis et Adganae” (entità d’acqua pagane di probabile origine celtica chiamate contemporaneamente col nome latino “matronis” e con quello celtico “adganae”). Non a caso nella cripta della basilica è ancora presente un pozzo, dove una volta sgorgava l’acqua, posto sotto un dipinto raffigurante la “Madonna che allatta”. Tutto questo può stare ad indicare la presenza di un antico culto legato alle acque risemantizzato in chiave cristiana. Altro indizio interessante è il toponimo “Naquane” o “Aquane”, nome della località nei pressi di Capo di Ponte, in Val Camonica, dove sono presenti la maggior parte delle famosi incisioni rupestri locali. È ipotizzabile che anche questo nome di luogo dove si trovano le tracce di un luogo sacro preistorico, possa derivare dal nome di queste entità/divinità. Giova ricordare che i Camuni erano considerati un popolo retico come retiche erano quelle popolazioni alpine che formarono l’antico e originario sostrato etnico e culturale dal quale si formerà nei secoli successivi l’identità ladina.
Secondo alcune interpretazioni il termine anguanes deriverebbe dalla parola latina aquana derivante a sua volta da “aqua”, acqua (infatti si tratta di entità soprannaturali d’acqua), ma la similitudine con la parola “aqua” probabilmente venne accentuata dopo la latinizzazione. Se prendiamo il nome prima citato “Adganae” troviamo il suffisso “gan”, che nelle lingue celtiche corrisponde ai nomi delle entità fatate. Troviamo infatti la Morrigan in Irlanda e le Korrigans in Bretagna; la stessa fata Morgana dei cicli arturiani porta nel nome la stessa particella. Qualcosa di molto simile troviamo anche in Sardegna dove, nella lingua locale, le fate si chiamano janas. Probabilmente questo nome o suffisso legato alle fate ha origini indoeuropee arcaiche forse risalenti addirittura all’Età del Bronzo. Questa stessa parola (sempre usata per indicare fate d’acqua) la ritroviamo nel vocabolo ladino Gana. Anche questo nome come toponimo si trova in altre parti del mondo alpino e prealpino. È a questo proposito emblematico il sito della Val Ganna in provincia di Varese. Qui, proprio in località Ganna, è presente la Fonte di San Gemolo, ancora oggi oggetto di devozione popolare: non è un caso che questo toponimo sia legato alla funzione sacrale dell’acqua.
Accanto alle anguane, potremmo ricordare ancora le fate serpentiformi della tradizione medievale, come la Ponzela Gaia, la donna-vipera del Bel Inconnu o la Sibilla di cui ci parlano Antoine de La Salle o il Guerrin Meschino; o ancora le moltissime fate-serpenti della tradizione folklorica, come quelle di cui ci parlano certi racconti siriani. Ad esempio in Fiabe siriane, Il pastore ed il serpente, in cui un pastore accoglie le profferte nuziali di una donna, che tra l’altro si vanta di aver molto denaro, incontrata in un pascolo remoto. La donna si tramuta in una serpe, il pastore la porta in un sacco a casa sua, e sebbene abbia promesso di non tradire il suo segreto, non resiste alla tentazione di esibire il serpente ai conoscenti. Il giorno dopo il pastore riporta la serpe in montagna e la fata, riassunte forme umane, gli comunica che, essendo stata umiliata davanti a tutti, non vuole più sposarlo. Il pastore da allora evita quel luogo. La categoria fu riconosciuta e studiata come tale da Ulrico Molitor nel suo De Pythonicis mulieribus et lamiis, pubblicato a Colonia nel 1489; ma già nella tradizione antica affiorano di quando in quando degli esseri femminili serpentiformi e amorosi che ricordano da vicino questa diffusissima tipologia di fate.
Le anguane sono probabilmente imparentate con le ninfe greche e latine, con le ondine delle saghe germaniche, con le samodive o samovile balcaniche, con le sibille dei Monti Appennini, con le driadi greche e con molte altre entità fatate dei boschi e delle acque. Esse sono conosciute sotto nomi diversi aquane, gane, vivane, langane ecc., (che appaiono tuttavia semplici variazioni locali, per esempio vivana o vivena in val di Fassa, ma pantegana in Badia, langana in Cadore... ).
Possono manifestarsi come donne giovani e bellissime con lunghissimi capelli biondi o rossi e con sensuali abiti bianchi velati o come vecchie megere vestite di stracci neri o multicolori.
Nella prima forma seducevano i viandanti portandoli via per un periodo o per sempre, nella seconda forma predicevano il futuro, lanciavano maledizioni o usavano il loro potere per curare.
Nelle Dolomiti bellunesi, quando si manifestano come vecchie, dotate di poteri sciamanici e curativi, a volte esercitano pure la magia nera e vengono chiamate Bregostene.
Le anguane della Montagna Spaccata sono le più aggressive e le più pericolose. Sono anguane guerriere. Vivono nelle profondità della montagna, da cui escono cavalcando selvaggiamente diabolici destrieri neri. Vestono principalmente di nero ed hanno il coltello facile. Per tale motivo, sono chiamate comunemente Anguane Nere. Sotto i loro abiti, nascondono abitualmente armi bianche, e hanno l’abitudine di rapire spesso i bei giovanotti che sorprendono a girovagare solitari, per sedurli e lasciarli ritornare alle loro case. A volte, però, i rapiti non fanno ritorno e si dice che queste anguane, belle e seducenti, a volte si nutrano di sangue umano.
Di solito le anguane di entrambi gli aspetti avevano un piede od entrambi malformati o ritorti all’indietro o zoccoli caprini al posto dei piedi, o ancora piedi palmati come le oche.
Alcune leggende le descrivono addirittura con zoccoli ed arti inferiori caprini, e pelose dal ventre in giù, altre le descrivono con corpo di serpente dalla vita in giù.
Si trasformavano molto velocemente in grossi serpenti, spesso neri, ma assumevano anche l’aspetto di lontra, gatto o salamandra.
È del tutto plausibile che, nel corso dei secoli, delle figure mitiche originariamente ben distinte, ma con qualche caratteristica affine, possano essere state confuse e lentamente assimilate alle anguane, "importandovi" così delle connotazioni che esse originariamente non avevano affatto.
In effetti nella raccolta di Karl Felix Wolff (giornalista e scrittore nato in Croazia da padre austriaco e da madre originaria della Val di Non, che non cessò mai di percorrere le Dolomiti, taccuino alla mano, interrogando i popolani, in modo particolare gli anziani) si ritrovano le mjanines e le jarines, anche queste probabilmente solo due varianti dello stesso nome. Si tratta di un collettivo di eteree, semiliquide figure dalle fattezze femminili che vivono dentro i corsi d'acqua ed i laghi, dai quali non escono se non in via eccezionale. Anche quando lo fanno, restano sempre rigorosamente prive di individualità e di consistenza corporea, e ben difficilmente potrebbero essere scambiate per delle donne "umane", come invece avviene per le anguane; nella storia di Albolina esse si descrivono esplicitamente come "spiriti delle acque", un concetto di trasparente origine animistica.
Le anguane, oltre ad essere ciò che rimane di antiche divinità e/o sacerdotesse di culti dedicati alla Dea Madre, presentano chiari ed evidenti caratteri sciamanici.
Hanno molto in comune con il mito di Melusina e della Bean Nighe, la Lavandaia dei Guadi, la versione scozzese della Banshee, che lava i panni nei ruscelli e ai guadi dei fiumi, in genere gli indumenti sporchi di sangue degli eroi e dei guerrieri prossimi a morire in combattimento, predicendone la morte. Anche la dea irlandese Morrigan, come la Bean Nighe è una Lavandaia al Guado, e  predice la morte dei guerrieri lavandone le armi e le armature, oltre che i panni insanguinati.
Le tradizioni e le leggende popolari attribuiscono numerose qualità e caratteristiche alle Anguane:

1. Eccellono in tutto; tutto quello che fanno riesce loro straordinariamente bene
2. Hanno il dono della magia e della profezia
3. Hanno insegnato a lavorare il latte e a fare il formaggio agli uomini, e a lavorare la lana alle donne
4. Conoscono le proprietà magiche e curative di piante ed erbe e sono ottime guaritrici
5. Se vengono insultate, portano sfortuna per tutta la vita
6. Sono abili commercianti e sanno gestire bene il denaro
7. Sono sottoposte ad un “divieto magico” (geis) a cui non possono sottrarsi, come gli eroi e le divinità della mitologia celtica
8. I loro abiti sono indossati in base al simbolismo magico dei colori
9. Sono accomunate, in alcune leggende, alle Fate; in latino Fatae è il nome delle Parche, cioè delle dee che presiedono al Fato (in latino Fatum, destino)
10. Partecipano della natura del serpente, e quindi per estensione anche di quella del Drago, che altro non è che un grosso serpente magico, con zampe ed ali; posseggono quindi il potere magico e rigenerativo del Serpente e del Drago, e sono quindi in simbiosi con le “linee del Drago”, le ley-lines, che attraversano e caratterizzano i Luoghi di Potere
11. Sono le custodi delle Fontane del Latte e delle Grotte Lattifere, che, secondo la tradizione, avrebbero assicurato alle donne che avessero bevuto acqua di quelle fontane, o stillante in quelle grotte, un’abbondante produzione di latte dal loro seno
12. A volte sono descritte come esseri mostruosi, ma dal cuore grande con chi sa dare amore
13. Possono dare il dono della fertilità dei campi, alle bestie, agli uomini
14. Sono ottime sarte, ricamatrici e tessitrici
15. Possono mandare sogni premonitori e sciamanici
16. Sono “dee” delle acque e dei boschi
17. Capiscono il linguaggio degli animali
18. Conoscono i tempi giusti per tutte le operazioni agricole
19. Cantano in modo meraviglioso ed incantatore; chi le ascolta viene ammaliato dal loro canto e le raggiunge nel folto del bosco o nelle profondità delle acque
20. Vivranno finché vivrà il mondo
21. Escono dall’acqua in forma umana, e camminano e danzano su di essa
22. Si vestono di abiti bianchi lunghi e trasparenti, meno spesso di abiti verdi, secondo l’usanza magica
23. Sono bellissime e dai corpi sinuosi, eterei e quasi trasparenti
24. Alcune abitano nei boschi, presso fonti e ruscelli
25. Altre vivono nell’acqua, sul fondo di fiumi e laghi, in caverne sotterranee
26. Altre vivono in profondissime grotte e fenditure nella roccia (còvoli), in zone solitarie, impervie ed irraggiungibili
27. Fanno un bucato bianchissimo, che stendono ad asciugare sulle rocce delle montagne più alte
28. A volte chiedono del cibo agli uomini
29. Talvolta vanno a servizio dei contadini e ci restano qualche anno
33. Può succedere che si uniscano in matrimonio con gli uomini, ma più tardi scompaiono per non tornare mai più, vengono richiamate nella foresta o sono costrette ad andarsene piangendo quando si pronuncia il loro nome, o quando si viola qualche altro tabù, più o meno esplicitato in precedenza
34. Dell’equivalente maschile delle anguane (“anguano” o “vivano”) si sa molto poco, o niente; esso in pratica non viene mai citato nelle leggende e nei racconti
35. Nelle sere d’estate, dai “luoghi d’acqua”, si odono salire meravigliose melodie magiche, intonate dalle anguane
36. Oltre che con l’acqua, alcune anguane sono in rapporto anche con il sole; salutano il suo sorgere tutte le mattine, circondate dalle marmotte che si radunano attorno a loro
37. Le ire delle anguane, così come nel Trentino e nel bellunese quelle delle Salinghe, delle longane e delle anguane lavatrici, potevano essere terribili o addirittura letali se un mortale, per rabbia o per scherzo, scompaginava, sporcava o rubava il loro bucato steso ad asciugare
38. Talvolta erano raffigurate sotto l’aspetto di creature benefiche, talaltra malvagie, come donne bellicose, streghe brutte e pelose, dal gelido fiato nauseante, capre dai piedi al ventre
39. Per sfuggire alle persecuzioni, si trasformano in draghi o serpenti acquatici (montoànes), oppure in lontre (loudres)
40. Sono Signore della seduzione, che le donne del popolo temevano, vedendo in loro delle concorrenti nel gioco dei corteggiamenti; ancora oggi, nell’alto vicentino, il termine “anguana” indica una donna seduttrice di mariti altrui
41. Sanno badare al bestiame
42. Allevano molto bene i bambini
43. A volte entrano nelle osterie e ballano con i giovanotti
43. Evolvono con il tempo e si modernizzano nello stile di vita e nelle loro capacità fantastiche

Da: Per le vie dell’altro mondo: l’animale guida e il mito del viaggio di Carlo Donà
Identità e integrazione: passato e presente delle minoranze nell'Europa mediterranea di autori vari
Storie di Anguane di Anguanamadre

http://www.ilregnodeifanes.it/italiano/temi1.htm

giovedì 8 dicembre 2011

La masca delle luci che si muovono


In pianura mi chiamano ‘l culest, non ho mai capito il perché. La mia specializzazione consiste nel far apparire all’improvviso delle luci, poi farle muovere velocemente da una posizione all’altra. Una volta ad un poveretto per poco non gli facevo prendere un infarto. Era uscito a bagnare i campi di notte e io mi sono fatta trovare su di un albero, mi accendevo e mi spegnevo, come una lampadina ad intermittenza. Quel buon uomo si è fermato, si è fatto il segno della croce, ha mormorato qualche giaculatoria, sudava freddo. Ho fatto uno sforzo di concentrazione e la campana di una cappella poco distante si è messa a suonare. Poi mi sono messa a correre lungo un campo di meliga ed il mais al mio passaggio si muoveva come per un colpo di vento. Mi sono divertita anche con i Badellino di Trezzo d’Adda. Appena dopo mezzanotte sotto forma di fiammella un po’ irrequieta a meno di un chilometro dalla loro abitazione, più o meno nei pressi della cisterna. Loro si affacciavano alla finestra, vedevano un chiarore che oscillava al buio come se ubbidisse alle cadenze di una danza, si interrogavano su cosa potesse essere, poi tutti insieme, il nonno, i tre figli, i quattro nipoti maschi si armavano di rastrelli, forconi, fucili e zappe e venivano verso di noi. Trovavano una candela sistemata sul piedistallo di un mezzo guscio d’uovo e si disperavano. Poi, una bella volta, sono venuti con dell’acqua benedetta, hanno innaffiato ben bene la candela e io ho dovuto mostrarmi loro come madre natura mi ha fatto. Che brutto quarto d’ora ho passato. Gli è presa una voglia nel vedermi nuda e giovane com’ero allora che hanno preso la decisione di saltarmi addosso, tutti insieme, simultaneamente. Io ho approfittato del patatrac che c’è stato per scappare via il più veloce possibile. Il numero che mi riesce meglio è quello del circo illuminato. Faccio apparire un tendone sollevato sopra un palchetto a legno di quelli larghi con luci tutt’attorno, sfavillanti, e coppie di mini ballerini che piroettano al suono di un’orchestra comandata nel bel mezzo dal Nuto pavesiano, il suonatore di clarino con gli occhi di gatto descritto nel romanzo La luna e i falò. I giovani si incantano, perdono la cognizione. Per tardi che sia nel cuore della notte, questo mio parco divertimenti li attira, si fermano, si avvicinano, si mettono a ballare tra loro anche se sono maschi, mano nella mano, completamente storditi dalla musica e dalle luci

Da: Langa magica di Donato Bosca

I fuochi fatui


I fuochi fatui nei racconti reiterati erano perlopiù fiammelle che si muovevano infestando le vicinanze dei cimiteri, oppure che inseguivano i malcapitati viaggiatori notturni tra le paludi e gli acquitrini, fino a portarli a morte certa.
Il loro comportamento bizzarro faceva presupporre una qualche intelligenza perversa, attribuita ai folletti o alle anime dei morti (dannate a un purgatorio in Terra, che stava a cavallo tra il mondo pagano e quello in via di cristianizzazione).
A seconda delle regioni in cui si manifestava o in cui se ne raccontava, questo spirito, anzi, sarebbe più corretto dire questi spiriti, perché si manifestavano in tante forme diverse, sono conosciuti con molti nomi: Billy-wi’-t’-wisp, Hobbledy’s-lantern (un boggart, cioè un brownie, uno spirito dispettoso, che si comporta come un poltergeist), Hobby-lantern, Jenny-burnt-tail, Jenny-wi’-t’-lantern, Kit with the canstick (o candlestick), Jacky Lantern e Joan the wad (vecchi spiriti rugosi che inducono i viaggiatori a smarrirsi, ma che probabilmente, se adeguatamente invocati, possono guidarli per la giusta via), Kit-in-the-candlestick, Kitty-candlestick, Kitty-wi’-the-wisp, The Lantern Man, Peg-a-lantern, Will o’ the Wykes. Come si vede, sono tutti nomi che si riferiscono a qualcuno che porta un lume o una lanterna. In ogni modo, il nome più diffuso di questi spiriti nella tradizione inglese sono Will o’ the Wisp, abbreviazione del ben più antico Will of the Wisp, e Jack-o’-Lantern. Il primo, tipico delle zone centrali dello Shropshire, nasce grazie ad una vicenda narrata da K. M. Briggs nel suo libro Un dizionario di Fate. Questo racconto narra la vita del malvagio fabbro Will che, giunto alla fine dei suoi giorni, ricevette una possibilità di redenzione da San Pietro, alle porte del Paradiso. Ma essendo una persona talmente malvagia da essere incapace di porre rimedio ai propri errori, per punirlo delle sue ripetute malefatte venne condannato a vagare per sempre sulla Terra, con l’unico conforto di un misero pezzo di carbone luminoso, che gli avrebbe permesso di scaldarsi e, al tempo stesso, cercare la via della redenzione. Ma Will, crudele in morte tanto quanto lo era stato in vita, avrebbe usato quello stesso pezzo di carbone per attirare le sue vittime in fittissime foreste e maleodoranti paludi, conducendole alla morte per puro divertimento.
Una versione irlandese della stessa storia, invece, narra le vicende di un certo Jack – da cui il secondo nome di questa creatura – un ubriacone che tentò con successo di ingannare il diavolo, per saldare un suo enorme debito in un locale e che, a causa dei suoi comportamenti a dir poco discutibili, venne bandito sia dal Paradiso che dall’Inferno, costretto quindi a vagare per l’eternità tra gli uomini con l’unico conforto della luce di una lanterna.
A queste storie, se ne affiancano altre un po' meno conosciute: troviamo dunque Peg-a-Lantern in Lancashire, Jenny-with-the-Lantern in Northumbria e nello Yorkshire, Spunki in Scozia e Hobby Lantern in Hertfordshire, nel Warwickshire e in Gloucestershire.
Nel folklore gallese, addirittura, non si tratta nemmeno di una vera e propria creatura, ma soltanto di una luce chiamata "fuoco fatato", trasportato dal folletto Pwca, che lo utilizzava per condurre i viandanti in mezzo alla nebbia e alle paludi e lì abbandonarli, condannandoli a vagare in eterno senza alcuna possibilità di ritrovare la strada di casa.
Come è evidente, quindi, in ogni zona dell’Inghilterra, qualunque nome gli venga attribuito, questa è una creatura malvagia o dannata, il cui principale passatempo è far perdere la gente in territori ostili, condannando quindi chiunque ad una morte quasi certa e, in molti casi, generando così un nuovo fuoco fatuo che accompagnerà il primo nelle sue malefatte, rendendolo sempre più potente e temibile col passare del tempo.
Secondo la cultura folkloristica dell’Inghilterra sud-occidentale, questi esseri prendono il nome di Hinkypunk e altro non sono che gli spiriti dei morti deceduti per cause "soprannaturali", intendendo con questo termine qualunque dipartita, fosse per omicidio, suicidio o banale malattia, di cui non si fosse riuscita a capire la causa.
Eppure, non per tutte le popolazioni vale la stessa cosa, in Danimarca, Finlandia, Svezia, Lituania ed Estonia, a questa creatura viene dato il particolarissimo nome di Lygtemænd (letteralmente uomo-lanterna) e, contrariamente alle tradizioni anglosassoni, si tratta soltanto di un piccolo folletto che, nei periodi autunnali, si diverte a sotterrare grandissimi tesori, in zone paludose o persino sul fondo dei laghi, accendendo poi una fiamma sopra il luogo prescelto e dando così la possibilità ad un fortunato passante di arricchirsi oltre ogni immaginazione.
In Guernsey, un’isola davanti alla costa francese, invece, il fuoco fatuo prende il nome di Feu Boulanger. Si tratterebbe, in questo caso, di un’anima perduta, probabilmente appartenuta a persone, in particolar modo infanti, morte senza aver ricevuto il Battesimo e costrette quindi ad un'esistenza priva di pace sulla terra. Si racconta che due siano i metodi per poter donare un po' di requie a questi esseri sventurati: il primo consiste nel rivoltare il proprio cappello o il proprio mantello, in modo da far perdere l'anima al suo interno. Il secondo, forse più crudele ma sicuramente definitivo, impone di piantare nel terreno un coltello, con la lama all'infuori, in modo che il Feu possa suicidarsi e liberarsi così per sempre dalla sua maledizione.
Persino in Giappone, si parla di questo strano fenomeno, chiamato generalmente Hitodama (sfera umana) e legato molto spesso al mito del Kitsune. Questi piccoli globi luminosi sembrano essere simboli di estrema sfortuna, e chiunque dovesse vederli sarebbe condannato a morire, o a perdere qualcuno di estremamente caro, nell'arco di brevissimo tempo.
Le origini cinesi del fuoco fatuo, invece, sembrano essere di natura meno fantasiosa e molto più realistica. Alcuni documenti, infatti, sostengono che il sangue sparso sul terreno durante le battaglie assuma un intenso colore fosforescente, dando quindi l’impressione di piccole luci sparse nell’aria. Il più grande sostenitore di questa teoria è Wang Ch’ung, uomo che, non essendo minimamente superstizioso, spiega nel suo libro Lun-heng come questo fenomeno fosse dovuto al processo di decomposizione dei cadaveri.
Anche in Italia ci sono tante antiche tradizioni e leggende associate ai fuochi fatui.
Nella prima metà del ‘700 lo studioso bolognese Iacopo Bartolomeo Beccari, professore di fisica all'Istituto di Scienze ed Arti di Bologna, si aggirava nelle campagne a caccia di fuochi fatui che in quei luoghi venivano comunemente chiamati cularsi. Già allora l'origine di quel nome si era persa: a suo parere si trattava dello stesso nome dato ad una specie di uccelli.
Con molta probabilità invece l'origine di questo termine è da ricercarsi in tempi più lontani e nell'ambito del folklore gallo-celtico.
Infatti i cularsi hanno nomi abbastanza simili un po’ in tutta l'Italia del nord (Culés, Culéis, Cúarz, Cúas, Cúlas, Cúlaz, e Cúlarz) e soprattutto in diverse regioni della Francia (Culards, Culots, Culâ, Cubâ).
E questo per restare solo ad uno dei tanti nomi popolari dei fuochi fatui, poiché ne esistono molti altri, in tutto e per tutto intercambiabili, nelle stesse regioni: Lümera, Lumazza, in Italia, Sotré, Lumerette o Lanternotte, in Francia.
Le piccole luci colorate, a volte simili a lucciole, erano chiamate Lusuri, e si racconta fossero delle trasformazioni di entità fatate. Si credeva infatti che gli abitanti dei mondi sottili sapessero trasformarsi in luci e che, in tali sembianze, andassero a visitare quegli umani che, per qualche motivo, erano ritenuti interessanti.
A volte erano le persone buffe o maldestre che, proprio grazie a queste qualità, divertivano a tal punto i Lusuri che li si poteva vedere muoversi all'impazzata come se fossero scossi da risa irrefrenabili; altre volte erano le persone particolarmente sensibili che ricevevano, da queste visite, fortuna e gioia.
Ancora oggi, può accadere che gli esseri fatati si manifestino in forma di piccole o grandi luci, a volte bianche ed a volte colorate, nel mondo degli uomini, i quali però non sono più in grado di conoscere o riconoscere la causa di tali manifestazioni, dandone una spiegazione scientifica.
Vengono talvolta chiamati Folletti del Lanternino gli spiriti collegati al fenomeno dei fuochi fatui o, molto raramente, al fuoco di Sant'Elmo (fuoco che scaturisce da strutture alte e appuntite, come alberi maestri, guglie, ciminiere, e che prende il nome da Sant'Erasmo di Formia, detto anche Sant'Elmo, patrono dei naviganti). Sono detti anche: Spiriti del Lanternino, Nani del Lanternino, Omini del Lanternino, Fiammette, Fiammella sacra ecc.
Nelle Valli di Lanzo (in provincia di Torino) numerosi sono i piloni e le nicchie eretti sui sentieri, soprattutto in Val di Viù, a ricordo di persone scomparse misteriosamente oppure di fatti strani accaduti agli abitanti della valle. I piloni sono considerati anche luoghi magici o di potere, infatti alcuni studiosi sostengono che al di sotto di queste costruzioni ci siano falde acquifere ed incroci di vie d'acqua. Uno di questi piloni è quello dedicato a San Martino (Mezzenile, TO), situato vicino al Camposanto e dal quale si dice partisse il "corso dei morti" e proseguisse fino al torrente Stura. Del "corso dei morti" parlano i fratelli Milone, che raccolsero notizie su ciò che accadeva nelle Valli di Lanzo. Sotto forma di fiammelle, le anime purganti "nel cuore della notte compivano lunghi giri sui pendii dei monti, si fermavano ai piloni, entravano nelle cappelle e ritornavano perlopiù nel cimitero, donde erano uscite" (G.e P. Milone, Notizie delle Valli di Lanzo, 1911).


In Trentino, una bella leggenda accompagna Piubago, un paese perso nel tempo e pur tuttavia mai dimenticato.
Tra Tonadico e Siror, in località Falzeni, nella Valle di Primiero, sorgeva un tempo
Piubago, piccolo paesino che secondo la tradizione è il più antico della valle. Tra il 1114 e il 1117 un terremoto e un'inondazione del torrente Làzer portarono morte e distruzione. Di Piubago non rimane nulla.
Dopo la distruzione del paesino, la popolazione superstite si sarebbe trasferita nella zona in cui oggi sorge Tonadico, ma girovagando di notte nei luoghi in cui sembra sia esistito il paese, si dice sia possibile scorgere dei lumicini che vagano senza meta per le campagne che hanno preso il posto dell'antico paese.
Fantasmi? fuochi fatui?
La leggenda dice che quei lumicini altro non sono che gli spiriti senza pace dei tanti annegati, che da secoli vagano nella notte alla ricerca della chiesetta di San Giacomo, unico edificio che resistette alla furia distruttiva dell'acqua, che ancor oggi si può vedere e le cui mura perimetrali vennero riportate alla luce nel 1983.
Secondo altre testimonianze, invece si tratterebbe dei defunti di Piubago che, già morti, avrebbero interrotto il loro sonno eterno e da allora continuerebbero, senza sosta, a cercare le tombe nelle quali riposavano prima che gli eventi naturali li disturbassero.
Si dice che Piubago non sia mai esistito, eppure uno studioso di storia trentina è certo che nella campagna che unisce Siror e Tonadico furono trovate rovine di case, vari utensili e una campana che recava l'iscrizione "Anno Domini VVV", che si ritiene significhi M (anno mille).
La campana fu custodita per molto tempo nel palazzo Scopoli, a Tonadico, e quindi fusa per ricavare la campana maggiore della chiesa di Fiera di Primiero; tutt'oggi compare nello stemma del comune di Siror

Da:
http://www.croponline.org/bbforum/viewtopic.php?p=27777&sid=09ff77988658f80bf06190a42815dba7
http://www.settimatorre.com/page.php?pagina=articoli&sezione=leggi&idMat=251
http://www.itacomm.net/PH/2008_Conti.pdf

martedì 6 dicembre 2011

La masca della Valle Stura


A costo di ripetermi con alcune di voi devo spiegare chiaro e tondo che sulle masche della Valle Stura sono state scritte e propalate un sacco di inesattezze. Quegli ultimi della scuola media col loro Demonte ieri ed oggi ci hanno reso un pessimo servizio. Prima di tutto noi non adoriamo nessun Dio Nero danzandogli attorno con le nostre scope. Non è neppure vero che abbiamo il diavolo in corpo e che siamo contrarie in assoluto alle storie d’amore, anzi ci capita di commuoverci quando vediamo due giovani innamorati che si destreggiano a toccarsi sul qualche balour solitario. Vero, invece, che per spostarci dalla Sella del Bab sopra Ferriere, al Bal del Bram nel Vallone di San Giacomo di Demonte, i posti dove facciamo i nostri raduni, abbiamo sempre usato il carro dell’oste di Pontebernardo. Lui era uno di quelli ambiziosi, sempre a lavare e strofinare le macchine e noi, per dileggio, glielo lasciavamo infangato e puzzolente. Farlo funzionare era facile, persino divertente: “oh carro, parti per sei” e il carro prendeva il volo. Che spavento quella notte che se n’è rimasto fermo, come inchiodato al terreno. Come potevamo sapere che c’era il garzone del panettiere nascosto dentro? Abbiamo urlato che se non voleva partire per sei, poteva partire per sette e subito si è alzato nell’aria. Quel ragazzino ha voluto fare il furbo, ma gli abbiamo fatto abbassare la cresta. Anzi al ritorno dal viaggio, dopo essere stato costretto a soddisfare tutti i nostri capricci, la cresta non gliela si vedeva quasi più e camminava mogio, con la coda tra le gambe, come un torello castrato. La verità è che su in montagna tutti i giovani, femmine e maschi, hanno il fuoco nei pantaloni. Ricordo come fosse ieri quando mi sono travestita da uomo e mi sono messa a dormire sopra un lenzuolo bianco nelle vicinanze del Pilone di Sant’Anna di Rialpo. Passa una ragazza e si ferma a guardarmi di sott’occhi per capire se ero giovane o vecchio. “Se cerchi un regalo è tempo perso, lo hanno solo quelli che non hanno paura a coricarsi vicino a me, ma senza guardarmi in faccia”.
Non stava nella pelle, quattro passi avanti, quattro passi indietro, e il regalo non sapeva cosa fosse. Appena fu sul lenzuolo con le mani cercò di farmi girare per vedermi bene in faccia, ma io la immobilizzai e ne diventai il padrone ed il regalo se lo portò nella pancia per nove mesi. Proprio così, hanno il sangue caldo, non sanno controllarsi. I due fidanzati di Trinità di Demonte erano diventati uno scandalo. Sempre a sbaciucchiarsi, a rotolare giù insieme dal bricchetto, sempre a dare ascolto all’istinto del godere. Una buona volta mi sono stufata e a lui che tornava a casa di notte gli ho fatto l’incantesimo. Era stato a casa della fidanzata ed aveva commesso lo sbaglio di aspettare la mezzanotte per ritirarsi. Sulla strada dei Colli di Moiola gli ho fatto comparire davanti una bella gallinella col suo coccodè che sembrava appena uscita dal pollaio. Prima ha cercato di allontanarla a calci e di spaventarla con un bastone, poi ha pensato che non era male portarsela a casa e tenerla per le uova. La mattina seguente la madre andò a svegliarlo e gli disse di andare nella stalla dove c’era la sua fidanzata in una gabbia. Il ragazzo guardò sua madre come se desse i numeri e si rigirò dall’altra parte dicendo che nella gabbia lui aveva chiuso solo un’innocente gallina novella. Invece non erano traveggole quelle della donna, la fidanzata c’era davvero, nuda come madre natura l’aveva creata. Le diedero dei vestiti e la rispedirono dai genitori. Il fidanzamento fu rotto e io ci ho ricavato la mia piccola soddisfazione.

Da: Langa magica di Donato Bosca

La masca dei gatti



Sono stata io a capire che il gatto era l’animale adatto per evocare inquietanti proiezioni e fantasticherie. Mi è bastato osservarlo per un po’ di tempo. I suoi occhi che cambiano colore, luminosi al buio, il suo modo di camminare furtivo, così silenzioso che te lo trovi davanti come un’apparizione, il suo pelo che quando l’animale è inquieto si drizza come uno scudo di aculei, e certe volte sembra incendiarsi in fosforescenze elettriche. Poi mi sono documentata, ho letto libri di storia, ho imparato quello che mi interessava conoscere. In Germania, e nelle Fiandre, era d’uso catturare per le feste paesane i gatti randagi, per ucciderli a bastonate o per seppellirli vivi. Nei Vosgi e nell’Alsazia li condannavano a perire tra le fiamme proprio il giorno di Pasqua, mentre nelle Ardenne, legati ad uno spiedo, erano fatti morire a fuoco lento. Qui in Piemonte nell’antichità era diffusa abitudine murare vivo in qualche nicchia un gatto di colore scuro quando si costruiva una casa nuova. Nelle Langhe i gatti li hanno sempre mangiati in autunno ed in inverno, preparando grandi polente e invitando gli amici. Dicevano che erano conigli selvatici e tutti ci credevano o facevano finta di crederci. La prima volta che mi sono cambiata in gatto non mi è andata bene. Sono andata in una cascina dove facevano la lesia, tre, quattro donne insieme. Mentre la lesia bolliva parlavano di masche, dicevano quel che bisognava fare per segnarci e tenerci lontane. Io mi sono avvicinata cambiata da gatto per sentire i loro discorsi e fargli anche prendere qualche bello spavento. Solo che una di loro, la più giovane, la più maleducata, mi ha tirato addosso un mestolo di liscivia bollente e sono dovuta scappare, urlando per il dolore. Sono rimasta a letto tutta ustionata per tre o quattro giorni. Quello che non posso tollerare è che mi si attribuiscano delitti che non ho mai commesso. Io amo i bambini, ci gioco volentieri assieme, da gatto lascio che mi tirino la coda, ch mi facciano le fusa. Quando leggo che di notte ho l’abitudine di trasformarmi in un gattone dal pelo color neve e che giro le case per soffocare nelle culle i neonati ci resto male, mi deprimo. Purtroppo anche noi siamo vittime di certi pregiudizi e a me è bastato, in gioventù, di transitare per una stalla dove una coppia di sposi molto prolifica che aveva sette figli e due li aveva seppelliti per la spagnola teneva una culla con dentro un bimbo di otto mesi. Morivo dalla curiosità di fare un sorriso a quella creatura, ma ero ben lontana dall’immaginare che il padre fosse nascosto nella greppia a fare la guardia. Come faccio per spiccare il salto verso la culla un bastone è vibrato nell’aria e mi finisce in modo violento sopra la zampa destra. Che iella! Per due mesi sono andata in giro con un braccio al collo

Da: Langa magica di Donato Bosca

lunedì 5 dicembre 2011

La masca che offre il caffè


Prima di giudicare se è giusto o sbagliato quello che faccio, dovete fare lo sforzo di capire cosa vuol dire vivere da sola in una casa abbandonata, con l’unica consolazione di un vicino un po’ rozzo che si ubriaca di barbera un giorno sì e l’altro pure. Beh, per distrarmi faccio in modo che gli automobilisti che transitano lungo la provinciale a cinquecento metri dal mio ricovero, buchino una gomma e si trovino col motore spento senza capire da cosa è dipeso. Reagiscono tutti allo stesso modo. Scendono brontolando, poi smoccolano qualche bestemmia e, infine, dopo aver tirato in terra tutti i santi del Paradiso, si accingono a cambiare la gomma. E io in quel momento mi aggrappo alla prima nuvola che c’è nei paraggi e faccio piovere. Si alzano, bestemmiano più forte e poi si guardano attorno. Ed è in quel punto che vedono la mia casa. Quelli che hanno solo un’utilitaria cercano di spingerla sotto il portico, gli altri abbandonano i loro macchinoni sulla strada e vengono a cercare soccorso. L’edificio sembra disabitato, il tetto della stalla è sventrato, la vite vergine è cresciuta in modo disordinato e copre quasi completamente la facciata della parte civile, così che a mala pena si individua la porticina in legno. Io lascio che si muovano un po’ a disagio nell’aia, sotto il portico, lascio che gli cresca dentro un po’ di terrore. Poi dirigo i loro occhi su quella parte di scritta che ancora si legge dove l’intonaco non è stato mangiato dall’umidità. In origine la cascina si chiamava mascayla e aveva preso il nome da una famiglia di signorotti con casaforte a Bra. La caduta dell’intonaco ha cancellato le ultime tre lettere. Solo i più forti di spirito rimangono, gli altri scappano sullo stradone, si bagnano, tornano a piedi da dove sono arrivati. Per quelli che restano, che continuano a chiamare “eih di casa, c’è nessuno?”, sono piena di premure. Arrivo alle spalle, con la mia voce un po’ affettata: “Poveretto! Si è tutto bagnato!”. Si girano di scatto e mi squadrano come fossi un marziano. Poi si rassicurano. Sono una vecchietta piccola, minuta, con i capelli bianchissimi, vestita di scuro come quasi tutte le vecchie contadine della collina. Il viso è buono, rugoso, sereno, gli occhi sorridono. Li invito a prendere un caffè e mentre glielo preparo li faccio parlare del più e del meno, del tempo, del lavoro, della famiglia. Poi verso il caffè e nel movimento metto bene in mostra il rosario che porto al collo, il medaglione con la figura del diavolo. Cominciano a genarsi, si fanno inquieti, insicuri. Io suggerisco di telefonare al meccanico del paese, porgo un biglietto con un numero scritto sopra, allungo la cornetta del telefono. Il meccanico ne ha piene le scatole di questa storia, ogni volta risponde in maniera più  maleducata. “Dov’è che dovrei venire? Alla casa delle masche? Ma la volete smettere con questi scherzi idioti, come se non sapessi che è più di trent’anni che la casa è disabitata”. A quel punto il colpo di scena, io sparisco, il telefono si smaterializza, le luci si spengono

Da: Langa magica di Donato Bosca

La masca Micilina


Ci fu un tempo, quando ancora eravamo ragazzi, in cui ognuno di noi conosceva le storie, le leggende e le tradizioni che i vecchi si erano tramandati l'un l'altro per lunghi anni. Poi venne la guerra con gli sconvolgimenti che le sono propri. Tutto fu messo sottosopra. Famiglie di regioni diverse cambiarono sede di residenza. Nel dopoguerra massicce immigrazioni da luoghi anche lontanissimi stravolsero le componenti locali e se, quarant'anni or sono, da noi si sentiva comunemente parlare piemontese, in breve volger di tempo si inserirono nella nostra regione idiomi disparati tra loro con una netta prevalenza di parlate ad accento meridionale. La televisione, con i suoi annunciatori ed intrattenitori romaneschi, valse a compiere il resto. Le famiglie cittadine presero a parlare ai loro figli esclusivamente in italiano e tutta una tradizione locale plurisecolare in pochi anni andò a farsi benedire.
Con la perdita del dialetto andò pure scomparendo la tradizione delle memorie tramandatesi per tanto tempo. La televisione casalinga, serpente a sonagli nelle nostre dimore, sostituì alle belle storie di un tempo coi loro protagonisti gentili o misteriosi tutta una serie di orribili scimmiottature pseudoumane delle quali per anni fu principe l'orrido Mazinga. Ed i bambini furono conquistati dai nuovi personaggi. Fu questa la seconda ondata, ben più distruttrice della prima che aveva scelto a suoi protagonisti i pistoleri americani.
Oggi, tra i giovani, pochissimi, credo, sanno ancora di masche, di spiriti, di maghi come noi sapevamo ed è per questo che mi chiedo se la masca Micilina, che settimanalmente firma messaggi su questo giornale, pensi che tra i giovani ci sia qualcuno che sappia veramente chi essa sia stata in vita. Forse ciò può ancora verificarsi, per qualche giovane delle campagne, dove la tradizione è più restia ad essere sopraffatta: nella città credo che ben pochi sappiano qualcosa di lei e soprattutto che è veramente esistita nelle nostre terre, con altre molte, come lei in genere destinate ad una miseranda fine.
La nostra masca, quella che scrive sul giornale per intenderci, parla sempre del futuro, eccezionalmente del presente; del passato, e particolarmente del suo passato, dice ben poco. È per questo che provo a tracciarne un breve compendio, così come risulta dalla tradizione locale che pure trae i suoi spunti da una realtà vissuta circa tre secoli addietro.
Personalmente ho incontrato alcune volte la masca Micilina nella mia vita. La prima fu all'età di cinque anni allorché la maestra di mia madre suor Ernestina, che insegnava nelle scuole elementari di via Mendicità, nel mese di luglio di un anno ormai lontano, organizzò con un'altra suora e le sue scolare una gita, come allora usava, a piedi a Pocapaglia. Vi venni invitato e mia madre fu ben felice di affidarmi per un giorno alle ampie gonne della suora maestra.
Raggiungemmo Pocapaglia dopo non so quante ore di cammino e c'era là ad attenderci un'ex allieva della maestra che ci condusse ad ammirare le cose notevoli del paese, prime fra tutte le famose rocche. E qui un’illustrazione dei misfatti della masca Micilina fu d'obbligo. Dopo averci indicato il picco rossastro che nel bruno dei suoi colori ricorderebbe il sangue della strega, ci tracciò tutto il curriculum delle miserande azioni della povera megera: dai primi malefici all'uccisione, per interposta magia del demonio, del marito che, caduto per arti misteriose da un gelso, si ruppe la testa.
Restai vivamente colpito dalla narrazione e l'orrore mi fu ravvivato pochi anni dopo allorché, trascorrendo durante le vacanze estive un mese di ferie non sull'Adriatico come oggi usa ma ben più modestamente sulla collina di Montepulciano sovrastante la valle di Fey presso un mio lontano, vecchio cugino, una sera, con altre storie di streghe e di fantasmi, mi fu nuovamente propinata la storia della masca Micilina con tutte le opportune varianti inseritevi dal narratore.
L’esistenza della masca, ormai acquisita come certa tramite i vari racconti che me ne erano stati offerti, mi venne storicamente confermata allorché, ormai adulto, parecchi anni dopo conobbi Euclide Milano che molto si era interessato al folclore ed alle leggende locali. Egli era convinto che del processo alla strega esistesse l'incartamento originale e si intestardì a ricercarlo invano nell'archivio della parrocchia del paesello dei Roeri. E, non avendolo rinvenuto, accusò, anche in una sua pubblicazione, il parroco del tempo di non averglielo voluto dare in visione per un malcelato timore da parte di colui di nuocere, aprendogli del tutto gli archivi parrocchiali, alla chiesa.
L'accusa era ingiustificata come ebbi poi, di recente, a dover personalmente constatare. Dovendo controllare l'esistenza di certi documenti secenteschi, anch'io dovetti consultare lo stesso archivio e, nell'occasione, l'attuale parroco don Aldo Molinaris fu verso di me di una cortesia difficilmente talvolta riscontrabile. Non solo mi aprì l'archivio ma mi permise ogni tipo di ricerca tra i documenti nello stesso conservati. Mentre passavo da antichi inventari a redazioni statutarie del quattrocento, mi tornò in mente l'affermazione di Milano e così, per mia curiosità, rovistai in lungo e in largo nell'ampia serie dei documenti. Passai di scoperta in scoperta con documentazioni di ogni tempo e sui più svariati argomenti, ma della masca trovai assolutamente nulla. Probabilmente il Milano non aveva posto mente che, essendo stata interrogata dall’inquisitore del tribunale di Savigliano e dal giudice di Cherasco, gli atti eventuali, seppur vennero stesi, furono in una di quelle città traslati.
La storia della masca, precisa nei particolari, ci è stata comunque tramandata grazie ad un lungo manoscritto della metà del settecento che è tutt’ora conservato presso il museo di Bra.
Micilina dunque, il cui nome di battesimo, così storpiato nella parlata locale, era Michelina, era originaria di Barolo. Andata sposa ad un contadino di Pocapaglia, qui venne ad abitare e per certe sue stranezze, già guardata con sospetto perché forestiera, cominciò a destare la curiosità dei vicini specie per certi inaspettati suoi atteggiamenti.
A porla in cattiva luce fu anche il marito che, convinto di sposarsi per avere una donna da far lavorare mane e sera, presto si accorse che la sposa poco era propensa ad ubbidire a tutti i suoi comandi. Lui la chiamava per mandarla nell'orto o nei campi e lei si nascondeva evitando di farsi trovare. Lui s'infuriava e, quando gli veniva a tiro, la pestava di santa ragione. Allorché della moglie parlava con i conoscenti si lamentava per il suo comportamento e per la sua poca voglia di lavorare affermando di non aver sposato una donna ma una masca che gli sfuggiva di sotto gli occhi e gli ricompariva davanti quando meno se lo aspettava. Ed in un'epoca in cui erano facili i soprannomi, quello di "masca" fu tosto appioppato a Micilina che, peraltro, se ne faceva beffe.
Successe un giorno che una bambina stava tornando dai campi, poco fuori del paese, con un cestello di frutta. Incontrò Micilina che le chiese uno di questi frutti. La bambina glielo diede e Micilina, nel ringraziarla, le pose una mano sulla spalla. Tornata a casa la bimba si piegò tutta da un lato e così rimase. Alle insistenti domande dei parenti per sapere cosa le fosse successo, la bimba raccontò dell'avvenuto incontro. Fu facile per alcuni affermare che si trattava di stregoneria, di malocchio trasmesso dalla fattucchiera all'innocente fanciulla.
Il convincimento raddoppiò allorché una giovane madre, allontanatasi per breve tempo dalla stanza nella quale riposava nella culla la sua creatura, tornatavi la trovò in preda alle convulsioni. Fu sufficiente che costei affermasse di aver visto nei paraggi Micilina perché i due fatti fossero tra di loro connessi e ne nascesse quindi un subbuglio che portò ben presto un nutrito gruppo di abitanti del borgo dal castellano reclamando che prendesse i provvedimenti del caso onde non insorgessero altre disgrazie tra la popolazione a causa dell'ignobile fattucchiera.
Il destino volle che proprio in quel frattempo suo marito, da un gelso sul quale era salito per raccogliere foglie da dare ai bachi da seta, cadesse fratturandosi l'osso del collo. Micilina fu chiaramente individuata come autrice del misfatto e, davanti all'ira popolare, il castellano fu costretto a farla imprigionare rinchiudendola nelle carceri del castello. Si interpellò sul caso il tribunale dell'inquisizione che aveva allora una sua sede a Savigliano. Fu inviato per appurare la verità un padre inquisitore affiancato dal giudice di Cherasco. Costoro, giunti a Pocapaglia, si accinsero all'interrogatorio che, secondo le consuetudini del tempo, per i casi di stregoneria contemplava l'impiego obbligatorio della tortura. Così avvenne per Micilina che, impossibilitata a sopportare i tratti di corda e le tenaglie arroventate che le venivano applicate sulle gambe e sulle braccia, confessò tutto quello che le si chiese di confessare: che aveva storpiato le due bambine, che aveva procurato la morte del marito e molti altri misfatti che andava via via inventandosi pur di porre fine alle sue sofferenze.
L'inquisizione era esigente per tal genere di testimonianze: le furono richiesti i nomi delle altre megere che, trasformatesi nottetempo in gatti e cani, vagavano per i boschi e le rocche portando nelle case isolate i loro malefici. Lei indicò nomi e cognomi. Molti corrispondevano a donne della natia Barolo dove aveva trascorso gli anni della giovinezza ed i cui abitanti meglio conosceva. Erano tutte donne innocenti che si trovarono in tal modo scaraventate, loro malgrado ed a loro insaputa, nel bel mezzo dell'indagine. Circa la morte del marito, interrogata sui particolari che l'avevano occasionata, disse che, a causa delle sue lamentele verso di lui che la faceva lavorare troppo, le era apparso tra i boschi, paludato da avvocato, ricoperto dalla toga nera, il demonio che, lodandola per l'amore che aveva per lui e la sua corte aveva tracciato con un bastone un cerchio intorno ai suoi piedi dicendole che, quando avesse oltrepassato tale cerchio magico, suo marito avrebbe avuto la giusta punizione. Nell’istante in cui il demonio si allontanò il marito cadde dal gelso e si fratturò la cervice.
Dopo le più ampie confessioni ed il riferimento ai più minuti particolari su tali avvenimenti, finalmente dopo più e più giorni, l'interrogatorio ebbe termine. Fu chiesto a Micilina se si pentiva dei suoi misfatti e lei rispose affermativamente. Cos'altro poteva dire? Il padre inquisitore le somministrò la pena spirituale: sarebbe dovuta andare scalza per tutta la vita e digiunare a pane e acqua per quaranta giorni consecutivi. Dopodiché la passò al braccio secolare perché questo emettesse la sua sentenza.
Il giudice di Cherasco affermò che, pur tenendo conto che spiritualmente la masca mostrava segni di ravvedimento, non se la sentiva di correre il rischio che nel futuro potesse tornare alle sue ignobili pratiche. Decretò pertanto che per il suo bene e affinché non ricadesse nelle mani del demonio, fosse sospesa per la gola finché l'anima non si fosse separata dal corpo, quindi abbruciata e le sue ceneri sparse al vento tra le rocche di Pocapaglia dove si era nottetempo intrattenuta in carnale commercio, come lei stessa aveva confessato, con Satana più volte apparsale sotto l'aspetto talora di un gatto, tal'altra di un caprone.
E così si fece. Preceduta dai confratelli della Misericordia incappucciati di nero e seguita da tutto il popolo, la triste processione, al canto del Miserere, si avviò verso le rocche.
Raccontarono poi parecchi dei presenti che, lungo il tragitto mostruosi ragni cercavano dalle ripe scoscese di lanciare lunghi fili di seta a Micilina urlandole, tra i paurosi sibili che mettevano, di aggrapparvisi. Se ciò fosse potuto avvenire Micilina certamente, per arti magiche, si sarebbe salvata. Ma la poveretta procedeva con le mani legate dietro la schiena e, davanti a lei, il parroco aspergeva con l'acqua benedetta il cammino per cui i fili di seta, al contatto con essa, si raggrinzivano e scomparivano del tutto. Si giunse infine sul luogo del supplizio e gli armigeri del castellano provvidero a compiere quanto era stato loro ordinato. Dopo l'impiccagione, il falò illuminò di cupi bagliori rossastri le forre e gli anfratti di quei tristi luoghi e di Micilina non rimase che un mucchio di cenere presto dispersa al vento.
Tutto ciò avvenne circa trecento anni or sono. Ora il nome della masca Micilina è tornato sulle colonne di questo giornale e la stessa masca ci intrattiene coi suoi discorsi economici-finanziari. Sarà questa la nuova fattucchiera dei tempi moderni? Ed allora, i grandi masconi che un tempo avevano imperio sulle meno importanti piccole masche locali, saranno forse oggi i grandi banchieri o i ministri del tesoro? Chissà!

Da: La vera storia della Masca (Articolo in due parti scritto dal Prof. Edoardo Mosca e pubblicato sul settimanale Basette il 24 e 31 ottobre 1986)

domenica 4 dicembre 2011

L'antro dei bardi



I miei pensieri scivolano veloci,
sulla lieve poesia dei Bardi di Britannia.
Essi ridicolizzano se stessi
con uno sfoggio eccessivo.

Il martello è necessario al fabbro.
Io chiedo un bastone
per conservare la scienza dei Bardi.
Chi non conosce l'Antro dei Bardi?

Io sono abile compositore, limpido cantore,
Io sono acciaio, Io sono Druido,
sono architetto, sono uomo di scienza,
Io sono serpente, sono amore e presiedo ai banchetti.
Io non sono un Bardo confuso e svampito.
Quando un maestro canta un'ode di memoria,
non ricerca esotiche meraviglie.

Possa io accoglierli
come si sprofonda in un lago
senza barca.

Rimanga al suo posto la roccia avvolta dalle onde,
stagliando il suo profilo nell'aurora,
la roccia del Maestro Supremo, un Capo sereno.

L'abuso di idromele ci forza a parlare.
Io sono un otre vuoto, Io sono un crepaccio,
Io sono un toro sacro, depositario del canto,
Io sono uomo di lettere, sono risposta al mistero.
Amo gli alti alberi che mi proteggono,
amo il Bardo che non compone invano,
ma disprezzo colui che si crogiola nella discordia

Taliesin

sabato 3 dicembre 2011

Le masche


La masca è un termine piemontese, molto diffuso nel Roero, nelle Langhe, nel Biellese e nel Canavese e un po' in tutto il Piemonte, la cui etimologia è incerta. Il termine sta prevalentemente ad indicare una strega o fattucchiera.
La parola probabilmente trae origine dal longobardo maska, che indica l'anima di un morto (da cui anche il significato meno comune di "spirito soprannaturale"), o dall'antico provenzale mascar, borbottare, nel senso di borbottare incantesimi.
Le masche sono una figura di rilievo nel folklore e nella credenza popolare piemontese, che attribuiscono ad esse facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia o da nonna in nipote. Secondo la tradizione, oltre ai poteri, la masca eredita anche il Libro del Comando, un testo contenente le varie formule e incantesimi della strega.
Il loro aspetto fisico, come quello delle altre streghe, era di donne anziane dall'aspetto sgradevole, ma a volte si trattava anche di donne dall'aspetto normale e talvolta di giovani attraenti, ma dotate di poteri sovrumani.
Nel passato gli agricoltori e i montanari usavano attribuire ad esse la responsabilità di avvenimenti negativi o inspiegabili. Le donne accusate di essere masche venivano perseguitate e spesso processate e condannate al rogo dal tribunale dell'Inquisizione.
Ancor oggi è di uso comune in Piemonte commentare scherzosamente la caduta "soprannaturale" (accidentale) di oggetti (ad esempio una forchetta che cade dalla tavola) con l'espressione "Ai sun le masche" ("Ci sono le masche").
Donato Bosca, dirigente dell' istituto scolastico “Beppe Fenoglio”» di Neive e presidente dell' associazione culturale L'Arvangia, da oltre 20 anni è impegnato a raccogliere le testimonianze dei più anziani sulle imprese criminose e magiche delle fattucchiere, togliendo il velo su un materiale ricchissimo che mescola religione, paura, contrasti familiari e comunitari e consente un'ampia indagine psicologica del mondo contadino.
“La masca - dice - era una persona dalla doppia vita, in genere una donna in grado di compiere una metamorfosi. Durante il giorno vestiva i panni dell'innocua pensionata o della casalinga e di notte si trasformava in una creatura diabolica, che usciva di casa per compiere la vita agli altri. Si presentava sotto forma di gatto nero, pipistrello, capra o biscia e aveva il compito di seminare zizzania, di riscattarsi da un destino umile con infinite rivincite nei confronti di parenti, vicini e viandanti”.
Ma esistono ancora le masche? “Oggi sembra che tutto ciò che riguarda il contrasto delle masche sia scomparso. Non ci sono più i buoi a trascinare i carri, i gatti neri non fanno più paura e nessuno si avventura in un bosco di notte senza pila, telefonino e scarpe da trekking. Il condizionamento culturale di un tempo è difficile da comprendere, ora l'istruzione media spazza via gran parte del discorso”.
Nonostante ciò, ancora oggi qualcosa nelle credenze è rimasto. “Spiegare i tanti racconti di masche con l'ignoranza di altri tempi significa non tener conto della realtà attuale popolata di cartomanti, veggenti e ufo. Di settimini e guaritori sono ancora pieni i paesi, con lunghe file di persone che si rivolgono a loro con fiducia”. In Liguria le chiamano “bazure”, nelle vallate cuneesi si trasformano in “sarvanot”, una specie di folletto che vive nei boschi e si prende gioco delle persone. In alcune zone queste tradizioni sono rimaste più in ombra, in altre sono risalite a galla “Oggi siamo in molti ad occuparci di questi argomenti. Perfino alla facoltà di architettura di Torino il professor Borghini, studioso del paesaggio, ha commissionato una tesi di laurea sulle dimore delle masche nell' immaginario collettivo”. Donato Bosca ha iniziato a parlar di masche nel '79: “In quei tempi la gente aveva paura a sbottonarsi, si temeva ancora il loro influsso malefico. Oggi è tutto diverso e a Paroldo, in Alta Langa, c'è addirittura un ristorante con il menù delle masche. Mi sento in parte complice della trasformazione, di questa forma di riscatto. Da persecutrici evitate da tutti, le masche sono diventate motivo di attrazione e di suggestione bonaria”. Grazie alla magia bianca del folklore, del turismo e del teatro.
Le masche di Pocapaglia si ritrovano due volte all'anno in primavera ed in autunno verso la mezzanotte di un giovedì del mese di aprile e un giovedì del mese di novembre, sotto il Bric dove venne bruciata la Masca Micilina in località San Sebastiano sulla strada che da Pocapaglia conduce alla frazione di Saliceto; come riconoscere il giovedì giusto è molto semplice, perché durante quella notte nei dintorni di San Sebastiano e per tutto il tratto di strada che conduce a Saliceto si potranno incontrare gatti con occhi particolarmente luminosi, si potranno sentire rami scricchiolare, la luna si presenterà con colori mai visti durante tutto l’anno, ma soprattutto ombre di vecchiette si aggireranno nervosamente attorno al Bric della Masca Micilina.
Viene consigliato a chi volesse provare queste indimenticabili emozioni, di riunirsi in un gruppo formato da almeno e non meno di undici persone per fare una passeggiata notturna nelle notti di aprile e di novembre fino al Bric della Masca Micilina accompagnati dal suono di una fisarmonica, guidati dalla luce delle fiaccole e sorseggiando di tanto in tanto un buon vino caldo.

Il libro del comando
Il Libro del comando è l'archetipo simbolico da cui traeva il suo potere la "strega" pedemontana. Il libro, rappresenta il "negativo" e l'archetipo "controreligioso" dei breviari sacerdotali, non ha nulla a che vedere con pseudo-alchimisti teutonici se non una omonimia derivata dalla traduzione....
Si narra che il libro, le cui dimensioni erano 18 cm di altezza, 15 cm di larghezza e 3 cm di spessore, avesse sulla prima pagina l'effigie del demonio, poi 3 pagine vuote e di seguito una pagina con su scritto solamente “comando, comando, comando”, dopo di che vi erano vergate tutte le formule la cui conoscenza era indispensabile alla masca per compiere le sue oscure gesta.
Le masche ricevevano il libro direttamente dal diavolo, che si incontrava con loro in un bosco o presso un quadrivio (sempre, comunque, nei paraggi di un bosco), spesso vicino ad un grosso albero, sovente un noce, colpito dal fulmine.
Che i libri del comando siano realmente esistiti lo danno per sicuro parecchi anziani residenti in Piemonte; un ottuagenario piemontese racconta di aver partecipato, assieme al fratello settimino ad un rito di “abbruciamento” dei libri del male officiato dall’allora vescovo di Fossano. Quando la masca moriva doveva lasciare il “maleficio” a qualcuno, ma sempre ad una sola persona e di sesso femminile.
Per trasmettere questo potere per alcuni si riteneva necessario il passaggio di proprietà del libro del comando, mentre per altri era sufficiente toccare la persona prescelta.
Se la masca non avesse trasmesso il suo potere, la sua morte sarebbe stata orrenda, tra tormenti ed ossessioni diaboliche; e vi è anche chi ritiene che, senza la trasmissione del potere, la masca addirittura non potesse morire


Da: http://misteri.altervista.org/leggende_piemontesi/masche_return.htm
http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20070926072207AAihAkO
http://www.asfodelopocapaglia.it/le-masche.htm