lunedì 5 dicembre 2011

La masca che offre il caffè


Prima di giudicare se è giusto o sbagliato quello che faccio, dovete fare lo sforzo di capire cosa vuol dire vivere da sola in una casa abbandonata, con l’unica consolazione di un vicino un po’ rozzo che si ubriaca di barbera un giorno sì e l’altro pure. Beh, per distrarmi faccio in modo che gli automobilisti che transitano lungo la provinciale a cinquecento metri dal mio ricovero, buchino una gomma e si trovino col motore spento senza capire da cosa è dipeso. Reagiscono tutti allo stesso modo. Scendono brontolando, poi smoccolano qualche bestemmia e, infine, dopo aver tirato in terra tutti i santi del Paradiso, si accingono a cambiare la gomma. E io in quel momento mi aggrappo alla prima nuvola che c’è nei paraggi e faccio piovere. Si alzano, bestemmiano più forte e poi si guardano attorno. Ed è in quel punto che vedono la mia casa. Quelli che hanno solo un’utilitaria cercano di spingerla sotto il portico, gli altri abbandonano i loro macchinoni sulla strada e vengono a cercare soccorso. L’edificio sembra disabitato, il tetto della stalla è sventrato, la vite vergine è cresciuta in modo disordinato e copre quasi completamente la facciata della parte civile, così che a mala pena si individua la porticina in legno. Io lascio che si muovano un po’ a disagio nell’aia, sotto il portico, lascio che gli cresca dentro un po’ di terrore. Poi dirigo i loro occhi su quella parte di scritta che ancora si legge dove l’intonaco non è stato mangiato dall’umidità. In origine la cascina si chiamava mascayla e aveva preso il nome da una famiglia di signorotti con casaforte a Bra. La caduta dell’intonaco ha cancellato le ultime tre lettere. Solo i più forti di spirito rimangono, gli altri scappano sullo stradone, si bagnano, tornano a piedi da dove sono arrivati. Per quelli che restano, che continuano a chiamare “eih di casa, c’è nessuno?”, sono piena di premure. Arrivo alle spalle, con la mia voce un po’ affettata: “Poveretto! Si è tutto bagnato!”. Si girano di scatto e mi squadrano come fossi un marziano. Poi si rassicurano. Sono una vecchietta piccola, minuta, con i capelli bianchissimi, vestita di scuro come quasi tutte le vecchie contadine della collina. Il viso è buono, rugoso, sereno, gli occhi sorridono. Li invito a prendere un caffè e mentre glielo preparo li faccio parlare del più e del meno, del tempo, del lavoro, della famiglia. Poi verso il caffè e nel movimento metto bene in mostra il rosario che porto al collo, il medaglione con la figura del diavolo. Cominciano a genarsi, si fanno inquieti, insicuri. Io suggerisco di telefonare al meccanico del paese, porgo un biglietto con un numero scritto sopra, allungo la cornetta del telefono. Il meccanico ne ha piene le scatole di questa storia, ogni volta risponde in maniera più  maleducata. “Dov’è che dovrei venire? Alla casa delle masche? Ma la volete smettere con questi scherzi idioti, come se non sapessi che è più di trent’anni che la casa è disabitata”. A quel punto il colpo di scena, io sparisco, il telefono si smaterializza, le luci si spengono

Da: Langa magica di Donato Bosca

Nessun commento:

Posta un commento