giovedì 31 marzo 2011

Incenso di lavanda e mimosa


La lavanda è legata a riti d’amore, all’elemento Aria e Fuoco, al Pianeta Venere, alla Divinità di Venere e ai Segni Zodiacali dell’Acquario, Gemelli, Bilancia.
La mimosa induce a sogni profetici. Per l'aspetto delicato della pianta che nasconde una grande vitalità riuscendo a sopravvivere anno dopo anno alle escursioni termiche ed emettendo nuovi getti con rami sempre più vigorosi, è stata presa a simbolo dalle donne per esprimere la loro forza e femminilità. Viene associata al rame, quindi ha delle caratteristiche simili: il rame è legato ad Afrodite, Astarte e Ishtar (in genere a tutte le dee dell’amore dei vari pantheon) e all’elemento acqua.
Anticamente questo metallo era portato sotto forma di anello (si dice con all’interno proprio semi di mimosa) a protezione di tutti i mali ed infortuni, soprattutto durante i duelli.
Luce nel numero di Oestara 2009 della rivista Pimalaya consiglia di preparare un incenso con questi due fiori, è molto femminile ed ha un profumo assai dolce. È perciò molto adatto
alle lune.
Si prepara facilmente unendo i fiori di lavanda con quelli di mimosa in proporzione 1:1
(metà lavanda e metà mimosa) facendo bene attenzione ad eliminare tutto il resto (mettere solo i fiori!). Con il mortaio pestare il tutto e riporre in un vasetto coperto da una
stoffa traspirante.
Quando si andrà ad accendere il carboncino sarà sufficiente posizionarvi sopra questo
mix. Non serve perciò aggiungere incenso in grani o altro

La via dello sciamano


I metodi sciamanici richiedono una disciplina rilassata, con concentrazione e scopo. Lo sciamanismo contemporaneo, come quello della maggior parte delle culture tribali,  utilizza tipicamente il suono monotono delle percussioni per entrare in uno stato alterato di coscienza. Questo metodo classico, che non richiede uso di droghe, è straordinariamente sicuro. Se coloro che lo praticano non mantengono concentrazione e disciplina mentale, semplicemente ritornano allo stato mentale, ordinario di coscienza, come tenderebbe ad accadere con droghe psichedeliche.
Allo stesso tempo i classici metodi sciamanici funzionano in modo sorprendentemente rapido, con il risultato che la maggior parte delle persone può ottenere in poche ore esperienze che richiederebbero anni di meditazione silenziosa, preghiere o canti rituali. Anche per questa ragione, lo sciamanismo è idealmente adatto alla vita attiva degli uomini contemporanei così come era adatto, per esempio, alle popolazioni eschimesi Inuit le cui ore diurne erano occupate dai compiti attinenti alla lotta per la sopravvivenza, ma le cui notti potevano essere dedicate allo sciamanismo.
Un altro fattore del ritorno dello sciamanismo è lo sviluppo recente di approcci olistici alla salute, approcci che utilizzano attivamente la mente per aiutare la guarigione e il mantenimento dello stato di benessere. Molte delle pratiche della Nuova Età nel campo della salute olistica rappresentano la riscoperta, attraverso sperimentazione recente, di metodi una volta ampiamente conosciuti nelle pratiche tribali e popolari. Lo sciamanismo, quale sistema che incorpora molte di queste antiche conoscenze, sta guadagnando attenzione crescente da parte di coloro che cercano nuove soluzioni ai problemi di salute, sia fisici che emotivi e mentali. Tecniche specifiche che sono state usate per molto tempo nello sciamanismo, come il cambiamento dello stato di coscienza, riduzione dello stress, visualizzazioni, il pensiero positivo e l’assistenza da fonti non-ordinarie, rappresentano alcuni degli approcci ora ampiamente impiegati nelle pratiche olistiche contemporanee.
Un’altra ragione importante per la quale lo sciamanismo suscita attualmente ampio interesse è che si tratta di un’ecologia spirituale. In questo tempo di crisi mondiale ambientale, lo sciamanismo offre qualcosa che è largamente assente nelle “grandi” religioni antropocentriche: rispetto per e comunicazione con gli altri esseri della Terra e con il Pianeta stesso. Nello sciamanismo questa non è semplice venerazione della Natura, ma una comunicazione spirituale a doppio senso che fa rivivere le connessioni perdute che i nostri progenitori umani avevano con l’imponente potere spirituale e con la bellezza grandiosa del nostro giardino Terra. Come ha dimostrato Mircea Eliade, l’illustre studioso dello sciamanismo e della religione comparata, gli sciamani sono gli ultimi esseri umani capaci di parlare con gli animali. Infatti aggiungerei che sono gli ultimi capaci di parlare con tutta la Natura, incluse le piante, i ruscelli, l’aria e le pietre. I nostri antichi progenitori, che vivevano di caccia e raccolta,  comprendevano che l’ambiente naturale deteneva potere di vita e di morte su di loro e consideravano una tale comunicazione essenziale per la sopravvivenza.
Oggi anche noi incominciamo a riconoscere il potere di vita e di morte che l’ambiente esercita su di noi. Dopo la distruzione incredibilmente spietata e devastante delle altre specie del Pianeta, della qualità dell’aria, dell’acqua e della terra stessa, stiamo ritornando, sebbene lentamente, alla consapevolezza che la sopravvivenza ultima della nostra specie dipende dal rispetto dell’ambiente planetario. Ma il rispetto da solo non è sufficiente. Abbiamo bisogno di comunicare intimamente e con amore con “tutti i nostri parenti”, come direbbero i Lakota, riuscendo a parlare non solo con gli esseri umani ma anche con gli animali e le piante e con tutti gli elementi dell’ambiente, inclusi il suolo, le pietre e l’acqua. Infatti, dal punto di vista degli sciamani, tutto quello che ci circonda non è “ambiente”, ma famiglia.
Seguendo la pratica sciamanica, si è giunti alla conclusione che quello che la maggior parte delle persone descrive come “realtà” sfiora appena la grandiosità, la potenza e il mistero dell’universo. I nuovi sciamani spesso piangono lacrime di estasi quando vivono e raccontano le loro esperienze. Parlano con mutua comprensione con le persone che hanno avuto esperienze di morte apparente e vedono speranza dove altri vedono disperazione.
Essi tendono a sperimentare trasformazioni mentre scoprono la sicurezza e l’amore incredibili dell’universo normalmente nascosto. L’amore cosmico che ripetutamente incontrano nei loro viaggi viene sempre più espresso nella loro vita quotidiana. Non sentono la solitudine anche se sono soli, perché sono arrivati a capire che non siamo mai veramente isolati. Come gli sciamani siberiani, si rendono conto che “Tutto ciò che esiste vive!”. Da ogni parte sono circondati da vita e da familiarità: sono ritornati nell’eterna comunità dello sciamano, non limitata da confini di spazio e di tempo.

Da: La via dello sciamano di Michael Harner







mercoledì 30 marzo 2011

Vitamine di bellezza


Vitamine per la pelle
La vitamina A contribuisce a mantenere la pelle morbida e giovane e ha un effetto antirughe; le vitamine del complesso B, soprattutto la B2 e la B6, riducono l’untuosità del viso, regolano la produzione delle ghiandole sebacee, combattono l’acne ed esercitano un’azione benefica sulle pelli grasse.
Anche la vitamina C previene l’acne; rende più forti i capillari, aiuta a mantenere un bel colorito e previene le macchie d’età sulla pelle.
La vitamina E migliora la circolazione dei capillari del viso, con un effetto benefico sul tono e sul colore della pelle; accelera la guarigione dei brufoli e coopera con le altre vitamine nella lotta contro i punti neri.

Vitamine per le unghie e i capelli
Le unghie e i capelli sono vivi e hanno bisogno di essere nutriti; ma non bastano le gelatine o gli shampoo, per quanto arricchiti, perché il nutrimento vero è quello che arriva dall’interno. Le vitamine del complesso B sono essenziali per la crescita dei capelli e delle unghie: la vitamina B5 riduce le doppie punte, nutre le unghie e agisce in combinazione con l’acido folico, ritardando la comparsa dei capelli grigi. La biotina (o vitamina H) fortifica la struttura del capello e accelera la crescita delle unghie; la vitamina B6 interviene sulla salute del cuoio capelluto e riduce la forfora.
L’effetto rivitalizzante di tutte queste vitamine è potenziato dalla vitamina A, che rende i capelli più lucenti e aiuta a prevenire lo sfaldamento delle unghie.

Vitamine contro l’invecchiamento
Anche se non possiamo vederlo, le nostre cellule muoiono e rinascono in continuazione; è un processo naturale che coinvolge ogni angolo del corpo. Purtroppo ogni nuova generazione di cellule è meno efficiente della precedente; le cellule un po’ alla volta si deteriorano, e noi invecchiamo.
Le vitamine A, E e C, e un minerale, il selenio, rallentano questo processo naturale. Tutte insieme, queste sostanze ci proteggono dallo stress e dai danni ambientali (come lo smog) e svolgono una potente azione contro i radicali liberi, che distruggono le cellule sane, intaccano il collagene (l’elemento che mantiene in buona salute la pelle) e accelerano l’invecchiamento di tutto l’organismo.
Alimenti particolarmente consigliati sono il prezzemolo, che è una vera bomba vitaminica; l’aglio, la cipolla, il germe di grano, la liquirizia, i semi di soia e le crocifere: crescione, verza, rapa, cime di rapa, broccoli, broccoletti, cavolo e cavolini di Bruxelles.
Tutti questi alimenti, e soprattutto le crocifere, sono anche potentissimi anti-tumorali.
L’effetto benefico sarà completo con l’assunzione di crusca, spinaci, pesce, asparagi, funghi e fiocchi d’avena: tutti cibi ricchi di acidi nucleici (DNA e RNA), essenziali per contrastare il deterioramento anticellulare.
Tanta acqua e tantissimo movimento faranno il resto.

Attenzione: per essere assorbita dall’organismo, la vitamina A ha bisogno di essere accompagnata da sostanze oleose. Mangiare le carote senza un po’ d’olio non serve a nulla.


Vitamine

Indicazioni

Proprietà

A
Pelle secca e sensibile che si desquama con facilità; unghie che si sfaldano; capelli fragili
Favorisce l’abbronzatura; rende la pelle morbida; combatte le rughe; utile per unghie e capelli
E
Caduta e fragilità dei capelli; carnagione pallida; stress
Rinforza i capillari e restituisce colore e luminosità al viso; mantiene sani i tessuti
B1
Capelli spenti e sfibrati; unghie fragili
Rigenera le cellule; rivitalizza unghie e capelli, rendendoli più belli e forti
B2
Pallore; pelle grassa e impura; acne. Unghie e capelli deboli
Rigenera le cellule della pelle; fortifica unghie e capelli; aiuta la B6 a rinforzare il funzionamento delle ghiandole sebacee
B5
Capelli fragili e sfibrati; doppie punte; capelli grigi; danni da esposizione al sole
Fortifica i capelli, riduce le doppie punte, ritarda la decolorazione; ha un buon potere reidratante
B6
Pelle grassa; acne, brufoli; forfora
Interviene nella regolazione delle ghiandole sebacee; previene l’acne e la forfora
Biotina
Capelli fragili; unghie deboli
Fortifica i capelli; accelera la crescita delle unghie
Acido Folico
Invecchiamento precoce dei capelli
Ritarda la comparsa dei capelli grigi
C
Tessuti rilassati; invecchiamento precoce; macchie della pelle; stress atmosferici
Favorisce il rinnovamento cellulare; previene le macchie d’età; combatte i radicali liberi


Da: Guida facile alla cosmesi naturale di Vincenzo Perrone

martedì 29 marzo 2011

Cosmetici naturali - Istruzioni per l'uso


La cosmesi naturale è in genere ben tollerata; ciononostante non si può escludere del tutto la possibilità di intolleranze, reazioni allergiche o altri disturbi.
Sono a rischio le persone soggette ad allergie da polline; se compaiono rossori o pruriti è consigliabile sospendere il trattamento e sciacquare la zona irritata con abbondante acqua tiepida. Se il disturbo persiste, consultare il medico.
Le ricette vanno realizzate e utilizzate seguendo alla lettera sia le quantità che le modalità di applicazione; è importante seguire le avvertenze e attenersi alle dosi e frequenze indicate (un trattamento consigliato solo una volta alla settimana o al mese, potrebbe risultare troppo aggressivo per la pelle in caso di dosi eccessive o ripetizioni troppo frequenti).
Se qualcosa non vi è chiaro, evitate di procedere alla cieca: chiedete consiglio a un esperto di vostra fiducia.
Tutte le ricette consigliate, dove non espressamente indicato, si rivolgono alle persone adulte e in buona salute.

Due parole sugli ingredienti
L’olio di oliva per uso cosmetico deve essere puro, extravergine e spremuto a freddo. Gli oli sottoposti a trattamenti industriali sono impoveriti di alcune sostanze essenziali e possono risultare dannosi se usati per la cosmesi.
Usate miele naturale puro; se è poco liquido, scioglietelo a bagnomaria. Esistono preparati cosmetici a base di miele puro al 75-80%, più cera d’api e oli essenziali. Li trovate nei negozi di prodotti naturali.
Le erbe (e i fiori), dove non diversamente indicato, si intendono secche; se le usate fresche, potete dimezzare le dosi.
Molti ingredienti di uso alimentare, come frutta e verdura, normalmente presenti sui banchi di qualsiasi mercato, vanno lavati bene per rimuovere eventuali residui di pesticidi o di altri trattamenti.
Essenze, oli, erbe ecc. sono facilmente reperibili nei negozi di prodotti naturali, erboristerie e anche in molte farmacie omeopatiche.
Usate argilla fine o ventilata (finissima); bianca per usi cosmetici, verde per usi curativi. L’argilla va lavorata in recipienti di ceramica, terracotta o vetro; evitate la plastica e i metalli, in particolar modo l’alluminio. Se usate un cucchiaio di metallo, non lasciatelo nell’impasto.

Da: Guida facile alla cosmesi naturale di Vincenzo Perrone

La tradizione orale celtica



In una certa parrocchia di Galway ci sono i più bravi narratori di tutta l’Europa occidentale. Almeno secondo quanto ha affermato di recente un esperto di folklore irlandese, riferendosi all’arte del raccontare storie tradizionali. In effetti sembra proprio che le remote regioni d’Irlanda e le isole occidentali della Scozia rappresentino l’ultimo rifugio di quest’arte antica in tutta l’Europa occidentale. In questi luoghi è ancora possibile imbattersi in un vecchio o un’anziana donna che sono in grado di raccontare decine, o addirittura centinaia, di “c’era una volta” o “tanto tempo fa”, e in alcune zone la gente si riunisce ancora nelle case per ascoltare tali racconti. Questi narratori sono persone che fin dalla loro giovinezza hanno sfruttato ogni occasione per arricchire il proprio repertorio e per perfezionare la loro maniera di porgerlo. Molti di coloro che si riuniscono davanti al focolare per ascoltarli hanno già sentito quelle storie prima. Alcuni le conoscono perfino a memoria, anche se non oserebbero mai recitarle davanti a un pubblico. Ma questa mancanza di novità non arreca alcun detrimento al piacere di ascoltare quelle storie ancora una volta.
Una breve descrizione di tale riunioni nella casa di un narratore ci è stata fornita da Alexander Carmichael alla fine del 1800.
Apprendiamo quindi che al centro della casa era acceso un fuoco di torba; che la casa era piena di gente, con le ragazze accoccolate tra le ginocchia dei propri padri, fratelli o amici, e i ragazzi appollaiati un po’ dappertutto; che il padrone di casa e la sua famiglia e i vicini erano impegnati in faccende quali intrecciare rametti di erica per fabbricare funi per i tetti di paglia o per fare cestini, filare la lana, intagliare il legno, lavorare a maglia, cucire, e che tutti conversavano abilmente. Con “la gentilezza propria di quella gente” lo straniero era invitato a farsi avanti per occupare la sedia libera lasciata apposta per lui accanto al padrone di casa, al quale doveva chiedere debitamente di raccontare una storia:

“Che il padrone di casa racconti per primo
e poi l’ospite fino al mattino”.

Questa narrazione era ricca di “avventure, azione e pathos” ed era raccontata “in maniera semplice seppur vivace, a volte drammatica, catturando la totale attenzione degli ascoltatori”.
Ecco che nelle memorie e sulle labbra di questa gente di campagna sopravvivono le tradizioni .
Nel piccolo villaggio montano di Cìllrialaig, nell’angolo sud occidentale della contea di Kerry, J.H. Delargy, Direttore Onorario della Commissione per il Folklore Irlandese, incontrò nel 1923 “l’uomo nei cui racconti ho trovato l’ispirazione per raccogliere, per quanto mi è stato possibile, le tradizioni non scritte della gente d’Irlanda”. Si trattava di Seán O’ Conaill, un pescatore-contadino, allora settantenne. Vale la pena citare almeno in parte l’ampia descrizione che il professor Delargy fece della sua storia e della sua arte.
“La sua famiglia aveva vissuto nello stesso posto per almeno cinque generazioni… Egli non aveva mai lasciato la sua regione natìa tranne che in quella memorabile occasione in cui si era recato in treno alla famosa fiera di Killorglin ed era tornato a casa a piedi! Non era mai andato a scuola e, secondo la mentalità ristretta dei funzionari del censimento, era un analfabeta. Non parlava e non capiva l’inglese, ma era uno degli uomini più istruiti in materia di letteratura orale che abbia mai conosciuto, la sua mente era una miniera di tradizioni di ogni tipo, annedoti succosi, racconti eroici dal complicato intreccio, e proverbi, rime e indovinelli, e altri aspetti della ricca tradizione orale comune a tutta l’Irlanda di tre secoli fa. Egli era cosciente della propria capacità letteraria e provava un grande piacere nel narrare le sue storie; Il suo linguaggio era chiaro e incisivo, e racchiudeva in sé la sostanza della letteratura.
Era mia abitudine andarlo a trovare  tre sere a settimana durante le mie vacanze in quella località. La sua casa era un cottage di due stanze dal tetto di paglia, una stanza era la cucina dove si svolgevano tutte le attività domestiche, l’altra era la stanza da letto. In questa c’era un soppalco dove c’era un letto, l’attrezzatura da pesca, un filatoio e del  legname proveniente da una vecchia fattoria.
Nel caminetto della cucina era acceso un fuoco di torba e ai due lati del focolare c’erano dei sedili di pietra dai quali si poteva scorgere il comignolo coperto di fuliggine e le stelle brillanti nel cielo. Alla destra del focolare c’era un tavolo di abete ben pulito e nell’angolo un sacco di sale per conservare il pesce. Di solito mi sedevo su questo sacco, tirando il tavolo verso di me, e su di esso a più riprese ho scritto, sotto la dettatura del mio amico, circa 200 brani di narrativa. Prima di cominciare a lavorare, aiutavo Seán e la sua vecchia moglie a riassettare la casa: spazzavo il pavimento, spargevo sabbia pulita, portavo dentro la torba e accendevo la lampada ad olio. Uno dei miei compiti consisteva nello scacciare le galline che si intrufolavano nella mezza-porta. Dal vano della porta aperta si poteva vedere il mare e il lontano fragore delle onde entrava nella cucina ed era il costante sottofondo alla narrazione delle storie.
Mentre scrivevo sotto la dettatura di Seán, arrivavano i vicini di casa, uno a uno, o in piccoli gruppi, e si mettevano ad ascoltare fino all’ultima parola messa per iscritto. Poi il vecchio narratore prendeva un tizzone ardente dal fuoco, lo premeva con il pollice incallito sul tabacco della sua pipa, allungava la schiena sulla sedia impagliata e si godeva le congratulazioni degli ascoltatori che, sebbene avessero già sentito quel racconto, erano lieti di riascoltarlo ancora. I loro consensi si mescolavano gradualmente ai pettegolezzi, in cui si discutevano gli eventi accaduti nel villaggio. Poi, dopo un po’, qualcuno chiedeva al “padrone di casa” di raccontare un’altra storia, e per circa un’ora o quasi venivamo nuovamente trasportati nella terra dove i sogni diventano realtà. Le persone ascoltavano in silenzio, scoppiando in sonore risate per la sconfitta del cattivo o per qualche parentesi umoristica introdotta nel racconto; a volte sottolineavano con un applauso il valore dell’eroe che combatteva in circostanze impossibili contro i giganti dalle sette teste o i mostri venuti dal mare, o le file serrate delle armate del re dell’Oriente”.
Queste storie venivano raccontate intorno al fuoco durante le lunghe serate invernali e i vecchi affermano che c’erano dei narratori che potevano recitare una storia diversa ogni sera per tutto l’inverno, ma che portava sfortuna raccontare tali eroiche gesta di giorno. Oltre a questa regolare attività nella stagione invernale, i narratori svolgevano un ruolo riconosciuto in determinate occasioni cerimoniali: durante le veglie notturne presso i pozzi sacri, dopo le “stazioni” e i servizi religiosi tenuti in case private, alle veglie funebri e ai battesimi, mentre i pescatori spesso ascoltavano storie narrate di notte in attesa di ritirare le reti. I racconti in prosa non erano le uniche forme tradizionali che si narravano durante queste riunioni; c’erano anche rime, indovinelli, canzoni, preghiere, proverbi, tradizioni genealogiche e locali. Ma il posto d’onore era dato ai racconti di eroi e di prodigi, la maggior parte dei quali richiedevano un’ora per essere narrati, anche se ce n’erano alcuni lunghi sei ore o più. Per le donne era considerato disdicevole narrare storie di eroi tradizionali. Inoltre, nessun uomo avrebbe mai raccontato una storia in presenza del padre o di un fratello maggiore, ed erano proprio i giovani che nelle serate d’inverno frequentavano regolarmente le case dove venivano raccontate queste vicende.
I narratori non si vantano di essere gli autori delle loro storie. Infatti, spesso concludono i loro racconti più estesi con il tradizionale finale: “Questa è la mia storia! Se c’è una menzogna, così sia! Non sono io quello che l’ha inventata”. Probabilmente hanno appreso le storie ascoltando altri narratori più anziani, magari membri della loro stessa famiglia, oppure vicini di casa, “viaggiatori”, o mendicanti, e si può tracciare l’iter di certi particolari racconti risalendo da un narratore all’altro per diverse generazioni fin ad arrivare, anche se in casi molto rari, ai primi anni del XVIII secolo. La capacità di memoria di queste persone illetterate è davvero sorprendente per gente come noi abituata a testimonianze scritte e stampate. Di un narratore di Benbecula, morto nel 1954, si diceva che se sentiva una sola volta un racconto e poi lo narrava lui stesso una volta,  era in grado di ricordarlo per tutta la vita. Perciò a volte recitava storie che aveva sentito una sola volta, cinquant’anni prima. Un pescatore-fittavolo di Barra sosteneva che da giovane si era recato ad ascoltare lo stesso narratore praticamente ogni sera d’inverno per quindici anni e che raramente aveva sentito la stessa storia due volte.
Un aspetto interessante dell’arte del narratore, e che testimonia la sua antichità, è l’uso che si fa di brani descrittivi stereotipati o “sequenze” retoriche. Arcaiche e oscure nella pronuncia, vengono introdotte quando occorre descrivere un eroe che si prepara per un’avventura, una battaglia che sta per essere combattuta, o altre scene ugualmente note. Servono ad abbellire la storia e a impressionare l’uditorio mentre offrono al narratore l’opportunità di prepararsi al passo successivo nella vicenda. Quanti di questi racconti appartengano all’antica tradizione celtica non si può stabilire con certezza, ma possiamo affermare che per quanto riguarda la forma, i personaggi e gli argomenti, essi hanno molto in comune con quei racconti dei manoscritti medievali che costituiscono il vanto e l’orgoglio della letteratura irlandese.

Da: L’eredità celtica. Antiche tradizioni d’Irlanda e del Galles, di  Alwyn D. Rees e Brinley Rees

venerdì 25 marzo 2011

Massimo Scaligero

“Il 26 gennaio 1980 “alle prime luci dell’alba”, mentre attendeva al lavoro con la sua abituale solerzia, Massimo Scaligero penetrava cosciente in quel mistero che già piú volte aveva indicato come l’unica realtà, con cui ha a che fare l’operatore dello spirito”. Con queste parole io annunciavo la scomparsa di un Amico e di un Maestro insuperabile, uno di quei testimoni dello Spirito che compaiono sulla scena del mondo forse solamente ogni cinquecent’anni.
In quella tristissima circostanza mi ricordai di una pia narrazione che correva fra gli Ebrei ortodossi, gli Hassidim, secondo la quale nella comune Umanità è sempre presente, inconosciuto da tutti, un Uomo Giusto, uno teodéo, che a cagione della sua rettitudine, misteriosamente sopporta il peso dei peccati, delle speranze e delle attese di tutta la sua generazione, finché stremato da tale immane fatica non soccombe, per venire sostituito da un altro Uomo Giusto che ne eredita le funzioni, e cosí avanti nei secoli fino alla redenzione finale. I Mussulmani parlano, invece, di un Polo, o di un Asse del Mondo, al-Qutb, qualità alla quale assurge un derviscio a cagione della sua virtú, che, però, dopo un giorno di tale fatica, muore ed è sostituito da un altro suo simile. Orbene, questo è stato il mio pensiero quando Egli scomparve. Soltanto che un altro Uomo Giusto non venne a riempire il suo posto, poiché egli era l’epigono di una generazione di ricercatori dello spirito che da noi si incarnarono in Giovanni Colazza, Evola, Colonna di Cesarò, Arturo Onofri e, fuori d’Italia, in Guénon, Râmana Mahárshi, Shrî Aurobindo e qualcun altro. Massimo, lo sconosciuto, era il punto finale di un ciclo, la cui caratteristica fondamentale era l’esercizio di quell’Arte Regale che risolve il mistero della Materia nell’esperienza di una spissitudo spiritualis, in cui questa si svincola come pensiero puro. L’abituale opacità minerale del mondo che ci circonda essendo determinata non da una realtà obiettiva bensí da un pensiero – il nostro – paralizzato nella sua funzione riflessa, cerebrale, che tale se la rappresenta. Ma, a parte il necessario supporto filosofico, tutta la sua vita fu caratterizzata da un’incessante azione di ricerca e didisciplina interiore: il suo insegnamento, consegnato in una ventina di opere, è un energico stimolante del metafisico. Suscita come in nessun altro l’esigenza della correlazione dell’Io con Sé, su cui – fra l’altro – è basata la conoscenza, come rapporto fra Io e Altro, fra Atman e Brahman, come direbbe un Indiano. «L’unità dell’Io con il mondo è già realizzata nel percepire – dice Massimo – ma rispetto ad essa la coscienza ordinaria è in stato di sonno, onde la potenza magica dell’atto percettivo le sfugge».
Importantissima fu la sua interpretazione dello Yoga e di altri movimenti spirituali dell’Asia, di cui Evola fu il banditore nel suo Uomo come potenza.
Tutta la sua opera, e in particolare Dallo Yoga alla Rosacroce, quest’ultima un’autobiografia spirituale, volge ad una reinterpretazione dello Yoga, di cui riconosce i limiti, dovuti soprattutto alla diversa costituzione interiore dell’antico yogin, e in generale del pensiero orientale, rispetto all’uomo di occidente, assiato sulla funzione autocosciente del pensare, a cui paradossalmente non attribuisce importanza primaria nella sua Via interiore, pur vivendo in funzione di un mondo percepito nella sua modalità materiale, che è bensí il figlio del pensiero astratto, logico-discorsivo. Questa interpretazione, da Lui rigorosamente sperimentata sulla guida della Scienza dello Spirito, implica anche una esegesi delle modalità fisico-eteriche su cui opera lo Yoga classico. Dice, in particolare: «Le vie allo Yoga oggi non portano allo Spirito, bensí al corpo (qui tratta del prãnãyãma, la Scienza del Respiro) perché non muovono piú dallo Spirito, bensí dal corpo. Non è lo Yoga che va ritrovato, bensí lo Spirito: del quale lo yogi non aveva da preoccuparsi, perché lo aveva già: doveva solo giungere a servirsene».
Sua opera fondamentale, non solo per sé, ma per l’Umanità avvenire, fu l’aver tracciato una “Via rosicruciana” di cui, date le regole per la sua attuazione, ne afferma la connessione con «il Mistero cosmico del Cristo», «ossia con ciò che il Cristo è, oltre ogni rappresentazione o sentimento umano: il senso ultimo della Iniziazione solare» ...«la meditazione rosicruciana, come la piú alta che operi sulla terra, porta il discepolo a scoprire che, non nell’anima, ma nell’intimo Io, egli reca il Principio che vince i due Ostacolatori», cioè quelli denominati: Lucifero – vettore delle forze di entusiasmo, ma anche di orgoglio, vanità e presunzione – e Ahrimane – il “Satana” della tradizione persiana, quello che induce all’illusione materialistica e meccanicistica del mondo, che conducono alla paralisi delle forze pensanti ed all’esaustionedi quelle viventi.
Il Rosicruciano, piú che combatterle, deve saper utilizzare queste forze cosmiche e trasformarle in strumenti dello Spirito, perché tale è la loro funzione mediatrice. Il punto dipartenza per lo Scaligero resta sempre l’ascesi del pensiero, tramite le discipline della concentrazione e della meditazione, sí da ricondurlo alla sua primordiale natura di Verbo, essenziata di “volontà di essere”. Da questo momento in poi inizia la Operatio Solis, volta a riconquistare la verticalità operante dell’Io, di là dai poteri dell’anima, vincolati ad un’esperienza sensibile del mondo materiale. E la restituzione di quest’ultimo alla sua primordiale dimensione di luce, che è il fine della Grande Opera alchemica, a cui Massimo si era dedicato sin dall’adolescenza.

§ § § § §

In una splendida giornata di primavera, immaginiamo di avventurarci in aperta campagna: in lontananza, i profili dei monti si innalzano fino al cielo, immersi in un mare di luce.
Ovunque un calore vitale si riversa dall'alto verso il basso.
Chiniamo il nostro sguardo per contemplare il verde manto vegetale: teneri boccioli si aprono ai raggi del Sole, robusti alberi affondano le loro radici nella terra per strapparne gli umori e trasformarli - in virtù di una segreta alchimia - in linfa vitale.
Nell'erba, piccole creature si muovono e riposano. La lucertola orienta la sua testa con rapidi scatti; i suoi sensi sono fini e sempre vigili, perché troppi esseri sono in agguato in un luogo che solo sulle tele dei pittori può sembrare idilliaco.
Quando al tramonto abbandoniamo questo paesaggio che abbiamo evocato con l'immaginazione e ci ritroviamo sulle strade asfaltate della nostra città, che ne è di tale mondo meraviglioso?
Qualcuno potrebbe dire che esso è ormai "dietro" di noi, qualcun altro forse più saggio potrebbe osservare che è "dentro" di noi.
Anche in una stanza buia, chiusi tra quattro mura, noi portiamo la "natura" dentro di noi.
Ognuno tocchi con l'indice e il pollice il proprio polso: sentiremo la durezza dell'osso - è la durezza di un minerale.
Nella durezza e nella freddezza del nostro scheletro noi portiamo il regno minerale, quello che non ancora conosce la vita.
Ma di una ragazza graziosa, di una bionda ragazza che con la sua bellezza rallegri la vista si dice: "è una ragazza in fiore", è un fiore di ragazza.
Giustamente. Perchè le forze eteriche che "fuori" fanno germogliare i fiori e fruttificare gli alberi, sono le stesse forze che fanno crescere e maturare gli esseri umani. "E' bella come un fiore", "E' robusto come una quercia": la floridezza di un corpo umano sano istintivamente evoca il confronto con il regno vegetale.
Per descrivere il carattere di un individuo ci rivolgeremo però ad un altro mondo per trarre ispirazione. Un mondo che alla "vita" aggiunge "l'anima": il regno animale.
Di una persona coraggiosa si potrà affermare che ha un "cuor di leone", di un'altra più pavida che è un "coniglio".
Di un uomo dall'intelligenza acuta, facilmente si noterà lo sguardo e il profilo aquilino. Come gli animali, anche l'uomo ha brame, impulsi interiori e una particolare sensibilità al piacere e al dolore.
Vi è però nell'uomo un nucleo interiore che non trova riscontri nella natura manifesta. L'uomo parla, pensa. E non vi è altro essere che in natura sia capace di articolare pensieri.
Grazie alla forza creatrice del pensare gli uomini della nostra civiltà hanno costruito computer, satelliti artificiali, aerei.
Osservare le creazioni della moderna civiltà tecnologica riempie i nostri cuori di legittimo orgoglio: vedere un aereo che si innalza verso il cielo, col suo ventre metallico costellato diluci ad intermittenza, suscita anche un senso di bellezza: evoca quella bellezza metallica che il Novecento ha saputo produrre e che già i Futuristi cantavano all'inizio del secolo.
E tuttavia cos'è un aereo dinanzi al più gracile degli uccelli, a un colibrì? Nulla in quanto a complessità, a scioltezza, a grazia, ad efficacia nel volo. Un aereo sta ad un volatile come lo scarabocchio di un bambino sta alla Cappella Sistina.
"Dietro" un aereo sta, dietro qualsivoglia invenzione vi è l'intuizione delle menti più geniali del nostro tempo, cos'è infatti un aereo se non un "pensiero" impresso nel metallo?
Ma dietro un essere vivente vi è un pensiero superiore, il progetto di una intelligenza superiore; ecco perchè il confronto tra creazioni tecnologiche e realtà viventi è improponibile.
L'uccello che vola, il fiore che sboccia sono i "pensieri pensati dagli dei", si potrebbe dire usando una espressione "poetica".
Il pensiero umano è una scintilla di quella immensa intelligenza che dietro ogni forma della natura continuamente tesse e crea.
La ragione - il "logos" - che nell'interiorità dell'uomo è identica, consustanziale all'intelligenza cosmica che è la dimensione interiore (la "prima dimensione") di tutta la realtà visibile.
Ma se ogni uomo custodisce questa scintilla del Divino come è possibile che molti conducano una esistenza sotto tono ed alcuni addirittura si abbandonino alla disperazione?
Vi è chi, pensando male, giunge alla infelicità esistenziale. Vi è chi si ammala, a causa di un uso sbagliato del pensiero.
Il nodo della questione è proprio qui, l'uomo ha ricevuto in dono una mente consapevole ed un pensiero lucido; perchè egli è ben desto sulla terra, a seconda dell'uso che fa del proprio pensiero egli determina il proprio destino, fausto o infausto.
In un epoca che ha corrotto in una maniera del tutto singolare la forza del pensare, MassimoScaligero è venuto come un medico, come un terapeuta per guarire l'uomo, guardandone il pensiero malato.
Se il nostro pensiero non fosse malato, se esso non necessitasse di quella purificazione che per gli antichi medici greci era la premessa di ogni guarigione, cadrebbe fin d'adesso il velo che oscura l'identità del nostro spirito con lo spirito universale.
Scaligero ha voluto affidare il messaggio del suo Yoga del Pensiero Puro a libri che possiedono una chiarezza geometrica.
Si legga il primo capitolo del "Manuale pratico della meditazione", sembrerà quasi di leggere le prime pagine degli Elementi di Euclide.
Il più grave fraintendimento dell'opera di Scaligero consiste nel considerarla fredda, intellettualistica, proprio perché incentrata sulla necessità di coltivare il pensiero.
In realtà Massimo insegna che il pensiero liberato agisce nell'uomo come nella pianta agisce quella misteriosa forza che trasforma la zolla bruna in verde linfa vitale.
Scaligero ha mostrato che tra un uomo che pensa e un fiore che sboccia vi è uno stretto legame. E ancor più stretto è il legame tra la mente dell'uomo e il pensiero universale che tesse negli spazi cosmici.
A questo si riferiva Giovanni quando nel prologo del suo Vangelo parlava del "Logos" che è in Principio. Ma ad esso si riferiva anche Eraclito quando diceva: "Per quanto tu vada e per quanto tu cerchi, mai giungerai ai confini dell'anima".
A tal punto è profondo il suo "Logos".

giovedì 24 marzo 2011

Il bosco di primavera


Il bosco di primavera dopo le ultime nevi del disgelo riprende forza, ma prima di riprendere la forza e la linfa vitale, si stiracchia, sbadiglia, fa scricchiolare le ossa, si sveglia dopo un lungo sonno e si guarda attorno attonito. A primavera il bosco è sbalordito, è sorpreso da questo letargo che ha avuto, questo sonno, questa neve che lo calcava giù, lo spingeva. E a un certo punto il tepore lo sveglia, però il bosco a primavera, appena sveglio, è debole, è come un bambino, non puoi caricarlo di nessun peso, è fragilissimo, quindi guai a tagliare piante per qualsiasi uso a primavera, per lavoro, per il fuoco, si può solo trapiantare qualche albero in luna calante perché attecchisca meglio e questa linfa che comincia a correre è come il sangue. Se noi tagliamo un albero a primavera, vedete che il ceppo continuerà a buttare acqua in maniera abbondante, puoi metterci sotto un bicchiere e riempirlo in nemmeno un’ora e quindi non servono a fare nulla gli alberi a primavera, perché devono prendere forza, devono riallenarsi, devono riscoprire la gioia del vivere dopo questo lungo sonno che li ha fermati lì durante tutto l’inverno. Il bosco a primavera si sorprende anche perché viene visitato da tutti gli animali che a loro volta cominciano a rivivere, gli uccelli cominciano a fare i nidi e cantano in modo diverso che in autunno, non tutti gli uccelli fanno il nido sugli stessi alberi, ad esempio i tordi amano fare i nidi sui pini, sugli abeti, i ciuffolotti, i pettirossi sui cespugli... e quindi i boschi vengono visitati dagli animali e dagli uccelli, quello che non succede poi in estate che se ne vanno in alto perché c’è più frescura, quello che non succede d’autunno quando le foglie cadono. È tutto un rivivere, è tutto un darsi da fare, come i contadini che si mettono a lavorare nei campi, è tutto un brulichìo, il sottosuolo si rianima, escono insetti, formiche che cominciano a scalare le piante, è una meraviglia di vita, ma una vita quieta, passando con le automobili non ci si accorge, bisogna starci dentro qualche giorno, qualche ora, anche 5-6 ore, e si capisce che si muove il bosco. Puoi vedere un ramo che dopo un inverno si alza di colpo e ti sembra che qualcuno lo spinge e invece no, ha deciso di metter fuori questi rami che aveva tenuto bassi per non farseli spaccare dall’inverno. È una cosa dolce il bosco a primavera perché è fragile, è vulnerabile, anche un albero enorme a primavera è fragile, lo puoi quasi sgraffiare con le dita perché è tenero, è un germoglio, non è l’età dell’albero che gli dà la forza a primavera… È il risveglio e quando uno è appena sveglio deve concentrarsi per capire qualcosa, intanto è vulnerabile. Uno appena sveglio, un uomo, una donna, una persona si alza, cammina e tentenna in qua e in là, anche il bosco è quasi “fuori equilibrio” a primavera, poi piano piano, a fine maggio, giugno, luglio, riprende la forza e allora diventa il bosco forte, a volte anche troppo forte, troppo eclatante, troppo pieno di sé, troppo che si fa vedere… adesso per il bosco è la stagione più bella perché è vulnerabile, è debole, quindi ha una dolcezza sua e si capisce che se lo tocchi gli fai male.
Le uniche cose che gli artigiani, che ora sono quasi scomparsi, tagliavano a primavera, erano i virgulti, i ramoscelli per fare le gerle, le ceste, le culle, che diventavano come corde e si potevano attorcigliare in ogni modo e non si rompevano, ed erano eccezionali per intrecciare questi oggetti, questi manufatti… se tagliati in novembre sono già irrigiditi, non si riescono più a piegare e a torcere come in primavera, allora gli artigiani, siccome la primavera non è che durasse molto, preparavano grandi fasci di questi legnetti da lavoro e li mettevano nell’acqua di un ruscello, li lasciavano quindici giorni e poi ne toglievano un po’, di modo che arrivavano a novembre e a dicembre avendo sempre materiale da lavoro tenero e malleabilissimo che si incurvava come volevano loro.
A primavera il bosco prepara tane, mette nascondigli, diventa protezione…  perché gli uccelli o gli animali non nascono a marzo e nascono a maggio? Perché sono protetti appunto dall’esplodere del bosco e quindi di foglie, di erba, gli uccelli fanno i nidi tra i rami protetti dalle foglie, le bisce escono. I caprioli e i camosci fanno i piccoli e si nascondono nell’erba, se li facessero prima la volpe li vedrebbe e se li prenderebbe. Quindi a primavera il bosco è protezione per gli animali, però bisogna stare attenti quando si cammina perché si svegliano le bisce e le vipere. Può capitare di imbattersi nell’erba di primavera in un cucciolo di capriolo, guai a toccarlo perché se poi noi lo tocchiamo la mamma sente che l’ha toccato un estraneo, non gli dà più il latte e se ne scappa via. State attenti alle vipere che si svegliano, anche loro si sitiracchiano e vanno in giro tra l’erba e tra i sassi, bisogna fare attenzione a dove camminare, farlo sempre con un bastone e guardare per terra, spostare l’erba. Ci sono uccelli che fanno i nidi tra l’erba, quindi quando si cammina in un bosco a primavera e senti un uccello che fa un verso strano, come da impaurito… bisogna o cambiare direzione o stare attenti dove si mettono i piedi.
Il bosco a primavera è un abbraccio, è un augurio, una pacca sulle spalle e una spinta e ti dice: “Vai, affronta il lavoro, affronta la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno”.

Trascrizione di Il bosco di primavera con Mauro Corona, puntata di Geo&Geo del 21/3/2011


Celebrare l’Equinozio di Primavera


L’Equinozio di Primavera è il momento del risveglio della Natura, in cui si manifesta pienamente il seme di luce germogliato a Imbolc.
Fisicamente è tempo di uscire all’aria aperta, di fare movimento, di andare per prati e per boschi. Gli equinozi sono un periodo di equilibrio e al tempo stesso di instabilità, di nervosismo. Giovano molto quindi le cure disintossicanti e ricostituenti, specie se effettuate con metodi naturali (Fiori di Bach, ecc..). La nostra irrequietezza è inoltre facilmente superabile con una maggiore attività fisica: tra l’altro è tempo di iniziare a lavorare sulla terra per tutte le colture che in breve tempo fioriranno e fruttificheranno. Se abbiamo un orto o un giardino possiamo dedicare ad essi un po’ del nostro tempo, altrimenti possiamo piantare o seminare qualche piantina in un vaso per sistemarla in casa. Psicologicamente è tempo di iniziare nuovi progetti, magari le cose che abbiamo sognato o immaginato durante l’inverno: un nuovo hobby, uno sport o una qualche attività fisica. È infatti tempo di mettere in pratica le lezioni che abbiamo imparato dalle nostre riflessioni invernali, dalle profonde visioni interiori e dalla espansione della coscienza, tempo di portare quella conoscenza nel mondo esterno, uscendo dalla introversione invernale. Per manifestare in maniera ancor più concreta i mutamenti di questo momento di passaggio potremmo compiere qualche piccolo rito propiziatorio. Siccome l’uovo è un simbolo primario di Ostara e della rinascita (sia del Dio della Vegetazione, sia dell’anno) possiamo quindi usarlo per rappresentare questa rinascita, come pure la nostra rinascita interiore in questo periodo dell’anno, quando il clima si riscalda e i nostri orizzonti si espandono. L’uovo riflette il nostro potenziale interiore, già nato a Imbolc ma in attesa della sua schiusa. Così possiamo dipingere (con colori non tossici!) il guscio di uova sode da consumare nel nostro pranzo equinoziale o da regalare agli amici. Anche se non siamo artisti possiamo decorarle con semplici disegni, ispirati al simbolismo stagionale: il sole, il trifoglio, il coniglio e i fiori di primavera. L’uovo sta a simboleggiare le nostre speranze spirituali nel ciclo annuale, quindi dipingendo le uova possiamo formulare i nostri desideri per i prossimi mesi. Per celebrare la giovinezza dell’anno e la nostra crescita interiore possiamo anche piantare dei semi, dopo averli presentati al Sole e alla Terra e aver chiesto la loro benedizione. Se si desidera compiere qualcosa di più complesso, si può celebrare un piccolo rito all’aperto, in un prato o nel proprio giardino. Su una grossa pietra o un grosso ceppo di legno si accendano candele gialle (colore della luce e del sole) e/o verdi (la nuova crescita della vegetazione). Si salutino le potenze divine nel loro aspetto di giovinezza:“Benvenuto Giovane Dio Sole”, (oppure Giovane Dio della Vegetazione, se si vuole mettere l’accento sui cambiamenti della Natura) e “Benvenuta Giovane Dea della Terra”. Ovviamente si possono pronunciare formule di saluto più elaborate... Se lo si desidera, si può avere un piatto di semi o di piantine (da piantare nel nostro giardino o da regalare ai nostri amici) sui quali si visualizza discendere la benedizione delle forze cosmiche. Possiamo pensare ai semi e alle piantine come ai nostri nuovi progetti da concretizzare, così quando li pianteremo legheremo le nostre azioni ai grandi cicli cosmici e stagionali armonizzandole con la Natura. Meditiamo sul mistero della rinascita della Natura e sentiamo la fresca energia degli inizi che pervade il nostro corpo. Si può bere vino (o succhi di frutta) e mangiare dolci,ricordando di lasciare qualche goccia e qualche briciola da versare sulla terra,come nostra offerta di ringraziamento

Da Feste pagane di Roberto Fattore

martedì 22 marzo 2011

Simboli di Oestara


A Eostre era sacra la lepre, simbolo di fertilità, il cui comportamento in mano si dice assomigli a quello di una congrega di streghe danzanti (la famosa lepre marzolina di “Alice nel paese delle meraviglie”...). Questo totem animale della dea fu infatti in seguito considerato lo “spirito familiare” delle streghe, ma in realtà era un animale sacro in molte tradizioni. Gli antichi Britanni associavano le lepri alle divinità della luna e della caccia: ucciderle e mangiare la loro carne era tabù. Fino a tempi recenti la lepre non veniva mangiata nella regione del Kerry, dal momento che si diceva che mangiare una lepre equivaleva a mangiare la propria nonna! I Celti abolivano temporaneamente il tabù all’equinozio primaverile o a Beltane: si trattava di un pasto rituale in cui il corpo dell’ animale totemico veniva consumato per partecipare della sua fertilità. I Celti inoltre consideravano la lepre un animale divinatorio e dal modo in cui correva traevano presagi. Anche gli Anglo-Sassoni veneravano la lepre e una caratteristica delle feste primaverili in onore di Eostre era appunto una caccia rituale a questo animale. Nel folklore delle Isole Britanniche ancora esistono sopravvivenze di questi rituali. Così ad esempio la Contesa del Pasticcio di Lepre nel villaggio di Hallaton, dove un grande pasticcio di carne di lepre viene conteso dagli abitanti del villaggio, (sebbene in tempi recenti esso venga tranquillamente servito nei piatti dal vicario). Fino alla fine del’700, vicino Leicester aveva luogo ogni Lunedì di Pasqua una caccia alla lepre nelle colline circostanti. Si dice che i disegni sulla superficie della luna piena raffigurino una lepre, ricordo questo dell’associazione dell’animale con divinità lunari. Questa raffigurazione della “lepre nella luna” appare nelle tradizioni cinesi, europee, africane e indiane. Nella tradizione buddista le leggende narrano di come una lepre si sacrificasse per nutrire il Buddha affamato, balzando nel fuoco. In segno di gratitudine il Buddha impresse l’immagine dell’animale sulla luna. Questa leggenda riecheggia tradizioni ancora più antiche del Buddismo: in Cina la lepre lunare ha un pestello ed un mortaio con cui prepara un elisir di immortalità e figure di lepri e conigli vengono costruite in occasioni delle feste lunari. La lepre è considerata un animale Yin che viene dal Polo Nord recando il saluto della Dea della Luna. Amuleti di giada verde raffiguranti la lepre sono costruiti e regalati per augurare la buona fortuna.


Nelle tradizioni dei Nativi Americani la Grande Lepre è l’eroe dell’alba, il salvatore, creatore e trasformatore, padrone dei venti e fratello della neve. È il Grande Imbroglione, simbolo della mente veloce che supera in astuzia la forza fisica. Gli Indiani Algonchini adoravano la Grande Lepre che si diceva avesse creato la Terra.
Pe
r gli antichi Egizi la lepre era un animale lunare ma anche collegato all’alba, all’est. Osiride risorto è simboleggiato dalla lepre in quanto divinità solare, come pure Thoth, Ermes e Mercurio quali divinità messaggere, dal momento che l’est è il luogo da cui provengono gli dei portatori di luce.
Nell’antica Europa i Norvegesi rappresentavano le Divinità lunari accompagnate da una processione di lepri che portano lanterne. Anche la Dea Freya aveva come inservienti delle lepri e la stessa Dea Eostre era raffigurata con una testa di lepre.




Nel folklore europeo la lepre è stata associata allo spirito del grano, siccome ha l’abitudine di nascondersi nei campi di grano fino alla mietitura, tanto che l’ultimo covone veniva chiamato, tra gli altri nomi, “la lepre”. Ma la lepre è stata collegata anche alla fertilità e alla sessualità vigorosa, essendo una generatrice veloce e prolifica. I Greci la consideravano sacra ad Afrodite e a suo figlio Eros. Filostrato diceva che il sacrificio più adatto per Afrodite era la lepre in quanto essa possiede il suo dono di fecondità in un un grado superlativo. Come molti animali sacri dell’antichità, anche la lepre subì nel Medio Evo un processo di demonizzazione e venne ritenuta animale di cattivo auspicio, in cui le streghe si trasformavano. Si pensava che una lepre bianca fosse presagio di morte e abbondarono le storie di ferite inflitte a lepri, ferite rinvenute il giorno dopo su qualche donna. In Cornovaglia si raccontava che le ragazze morte dopo essere state abbandonate dai loro innamorati si trasformavano in lepri bianche per perseguitare i loro amanti infedeli!
Ma l’immagine della lepre fortunatamente ha incontrato un destino meno lugubre: la lepre di Eostre che deponeva l’uovo della nuova vita per annunciare la rinascita dell’anno è diventata l’odierno coniglio di Pasqua che porta in dono le uova, altro simbolo di fertilità. Al giorno d’oggi la ricorrenza della Pasqua ci ripropone ogni anno il tradizionale consumo e dono di uova, da quelle di cioccolato con la sorpresa a quelle naturali decorate a mano (che raggiungono livelli artistici nei “pysanky” dell’Ucraina) alle numerose ricette tipiche di frittate e dolci. Ma che cosa rappresenta l’uovo e perché gioca un ruolo così importante nelle tradizioni pasquali? In realtà l’attuale uovo di Pasqua ha origini pre-cristiane, essendo un antichissimo simbolo di vita, di creazione e di rinascita.







Come simbolo di iniziazione l’uovo simboleggia il due-volte-nato, la sua deposizione essendo una prima nascita e la schiusa la seconda.
La nascita del mondo da un uovo cosmico è un’idea universalmente diffusa,e non a caso veniva celebrata presso molte civiltà alla festa equinoziale di primavera, quando la Natura risorge e le ore di luce iniziano a prevalere su quelle notturne. In numerose mitologie un uovo primordiale, embrione e germe di vita, è il primo essere ad emergere dal Caos. Non sinonimo di confusione o distruzione, bensì di condizione primordiale che contiene la potenzialità di tutte le cose esistenti, il Caos è la forza vitale generatrice di tutto ciò che esiste. È l’”Uovo del mondo” covato da una Grande Dea e dischiuso dal Dio Sole. L’uovo è il principio da cui nascono tutte le cose, portando in manifestazione ciò che prima era solo allo stato potenziale. Nell’alchimia l’uovo è il vaso mistico in cui si compie la trasmutazione, un modello della creazione in scala ridotta.
Un mito dell’India narra che nella notte dei tempi tutto era immerso nelle tenebre e sepolto in un sonno profondo. L’Assoluto volle creare il cosmo dalla propria sostanza: così creò le acque e vi depose a galleggiare un uovo splendente il quale generò al proprio interno Brahma il Creatore, che divise poi l’uovo stesso in due parti, formando la terra e il cielo. In Cina era il tuorlo dell’uovo a rappresentare il cielo mentre l’albume era la terra.
In altre tradizioni il tuorlo è il dio Sole e il guscio la Dea: l’uovo del mondo deposto da una Dea veniva infatti dischiuso dal calore del Sole, come si è detto. In molte leggende egizie, l’Oca del Nilo, la Grande Dea,deponeva un uovo da cui nasceva Ra, il Sole. Un mito orfico greco narra che in principio esisteva la Notte, la dea uccello dalle nere ali la quale, fecondata dal Vento del Nord, depose un uovo d’argento nel grembo dell’oscurità. L’uovo era la Luna e da esso balzò Eros, il dio della vita dalle ali dorate che portò alla luce l’intero cosmo.
Ma in Grecia esisteva un mito più antico: Eurinome, Dea di Tutte le Cose,cioè il Caos primigenio, per scaldarsi si mise a danzare nuda sulle onde delle acque primordiali e poi strofinò tra le proprie mani il Vento del Nord. Da tale gesto nacque un serpente, Ofione, che si accoppiò con la grande Dea. Eurinome per accoppiarsi con Ofione si tramutò in colomba e dopo l’amplesso depose l’uovo universale. Anche gli antichi popoli medio-orientali, come Babilonesi e Sumeri, credevano alla mitica colomba che sorvolava le acque primordiali del Caos. Una colomba.., non suggerisce nulla quest’immagine? E la colomba in questi stessi miti viene’ associata ad un animale che tradizioni più tarde avrebbero considerato con orrore. Infatti l’originale uovo primordiale era un uovo di serpente.
Nel mondo celtico i Druidi chiamavano l’uovo cosmico “uovo del serpente” e custodivano talismani fatti a sua immagine, forse ricci di mare fossili, che si diceva possedessero qualità miracolose.
Una leggenda egizia narra come Kneph, il serpente primordiale produsse l’uovo cosmico dalla propria bocca. Sempre l’orfismo greco, quella straordinaria fucina di miti, considerando l’uovo il mistero della vita e della creazione, Io raffigurò spesso circondato dall’Ouroboros, il mitico serpente circolare che si morde la coda, quasi a rappresentare il tempo ciclico nel suo eterno ritorno. Ma il serpente disteso è il tempo lineare della storia, e così anche l’uovo con la propria forma simboleggia contemporaneamente il tempo cosmico, circolare e ciclico, e quello storico e lineare. Del resto il serpente rappresenta in molte tradizioni la rinascita, come l’uovo...
Osservando da vicino i simboli ci si accorge come essi in realtà si rispecchino l ’uno nell’altro, si generino l’uno dall’altro in un gioco infinito e universale. È nato prima l’uovo o la gallina? O il serpente? O la colomba? Domande che rivelano tutti i limiti della nostra logica razionale e meccanicistica...



La pianta sacra dell’Equinozio di Primavera è il trifoglio. Pianta simbolo dell’Irlanda, della quale si dice che San Patrizio, evangelizzatore dell’isola se ne usasse per spiegare la Trinità cristiana (incidentalmente la festa di San Patrizio ricorre il 17 marzo, in prossimità dell’equinozio). In realtà si tratta di una tradizione tarda risalente al 18° secolo e il trifoglio non era altro che la triskele, la ruota solare a tre bracci, mentre la varietà a quattro foglie rappresentava la croce celtica, la ruota solare, il cerchio magico delle quattro direzioni: tutti simboli molto più antichi del Cristianesimo

I fiori bianchi del trifoglio come quelli  che Olwen lasciava al suo passaggio nell'antico racconto gallese Culhwch e Olwen

Da Feste Pagane di Roberto Fattore