domenica 29 gennaio 2012

Le Salighe – oro in cambio di latte


Le Vergini Selvatiche amano il latte fresco, l’alimento vitale dei mammiferi che è spesso al centro delle loro relazioni e degli scambi con gli uomini e le donne delle valli.
Il loro nutrirsi di latte è un aspetto del loro rapporto con il femminile, cui appartengono, e le cui sapienza ed energia offrono agli altri. Ma il dono del latte viene anche da loro accolto come un’offerta sacra, un “farsi avanti”, che spinge le Salighe a proporre, a chi l’ha presentata, il profondo processo di realizzazione del femminile.
Come è narrato, attraverso la simbologia alchemica, in questa storia.

Una contadina di Meltina (Moelten) mise una sera una grande scodella piena di latte fresco davanti alla finestra perché durante la notte facesse una buona panna. Quando però la mattina seguente volle riprendersi il latte, trovò al suo posto la scodella piena di sangue. Spaventata corse dai vicini e raccontò loro l’accaduto. Le si consigliò allora di provare ancora una volta a mettere, la notte seguente, la stessa scodella piena di latte davanti alla finestra. La donna così fece, e la mattina, quando guardò cosa ne era stato del latte, la scodella era piena d’oro fino all’orlo.

La Donna Selvatica, la sera prima, aveva accolto la tazza di latte come un’offerta, che aveva bevuto fino in fondo. Poi, al posto del latte, aveva messo il sangue. Un dono-proposta inquietante, destinato a mettere alla prova la capacità della contadina di proseguire nel processo di trasformazione iniziato con la precedente offerta (ancora inconscia) alla Donna Selvatica. Il sangue è, come il latte, un liquido organico, ma di colore rosso e quindi naturalmente in grado di evocare e trasformare emozioni più forti, più adulte, a volte decisamente minacciose, anche se più ricche dal punto di vista energetico. Emozioni che, nel processo alchemico, segnano il passaggio dalla fase di inizio della trasformazione, chiamata albedo (la fase del bianco), alla più ricca e feconda rubedo (la fase del rosso). È proprio in questo passaggio, infatti, che avviene ciò che gli alchimisti chiamano il passaggio decisivo dell’”arrossamento del bianco”. Un transito che è carico di significati, anche nella vita di ogni donna: pensiamo, per esempio, allo sviluppo fisico e sessuale, che è segnato, con l’arrivo del mestruo, dall’”arrossamento del bianco”. L’incontro con il sangue (innanzitutto il proprio), in cui si apre per la donna il rapporto con il lato più forte, e anche torbido, dell’inconscio collettivo femminile, è da lei accolto con terrore, nella saga così come spesso nella realtà. E, come è giusto che accada, lei racconta l’avvenimento, il momento che sta attraversando, alla comunità (come la bimba che annuncia alla madre, o alle donne che ha attorno, il suo menarca). Nella saga la comunità svolge il compito che le compete: rassicura la donna e la invita a persistere nella sua azione, che ora diventa a tutti gli effetti un’offerta consapevole, un sacrificio alla potenza sovrapersonale, misteriosa, femminile, che aveva sostituito il latte con il sangue. A questo punto il processo di sviluppo è decisamente avanzato. Si è ormai passati dall’offerta casuale, inconscia, ancora frammista all’aspettativa di un appagamento sul piano materiale del processo organico (metto il latte e ricevo la panna), al consapevole compimento di un’offerta-sacrificio a un’Entità sovrapersonale, di cui si aspetta la risposta con tremore e devozione. Il sacrificio e la devozione all’Altro, a ciò che sta al di là e al di sopra dell’Io, è appunto ciò che consente di oltrepassare anche la dimensione del sangue, dell’arrossamento del bianco, e che apre il passaggio alla fase ulteriore della trasformazione: quella della luce e dell’oro, della ricchezza assicurata dall’accettare una prospettiva di vita che va al di là della materia, dell’Io e delle sue paure. Ecco quindi che quando la contadina, ormai consapevole di essere entrata in contatto con un potere che la trascende, rimette il latte alla finestra, questo può venire trasformato in oro: perché la devozione alla Donna Selvatica, al femminile transpersonale della Natura, ha consentito il transito dalla materia alla luce.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

sabato 28 gennaio 2012

Le Salighe e i fiori


Le Salighe amano i fiori bianchi, che esprimono innocenza di cuore e irradiano la luce, quella diurna come quella notturna, lunare.
Per questo, chi trova i loro rododendri bianchi viene premiato dalle Fanciulle Selvatiche.
Come racconta questa saga.
Sulla malga di Burgeis crescono rododendri bianchi che vengono visti solo dagli uomini innocenti. Chi trova questo fiore lo deve subito coprire e, senza mai distogliere lo sguardo, deve scavare bene sotto la pianta. Lì troverà un grande tesoro.
Più di ogni altro, però, è la stella alpina il fiore preferito delle Salighe, oltre che il simbolo dell’amore verso la loro patria, il Tirolo.
Quando, nelle chiare notti di luna, danzano i loro girotondi sulle rive dei solitari laghetti alpini, una corona di bianchi Edelweiss orna i loro capelli ricciuti. Quella che porta la corona più bella è la regina della danza, e a volte del gruppo.
La stella alpina è il fiore che simboleggia l’elevazione spirituale perché, per arrivarvi, ci si espone al rischio della caduta, del precipitare giù in basso (l’altro volto dell’amore per l’ascensione). Il suo colore bianco rappresenta il colore dell’Anima. E, soprattutto, l’edelweiss ci offre il simbolismo della stella: una totalità, un mandala naturale che possiede un suo centro ben preciso (dunque un’immagine di “centratura”, anche psichica) e che irradia dai suoi petali-raggi una luminosità argentea, lunare. Non stupisce dunque che l’edelweiss sia uno dei doni prediletti delle Salighe. Un dono celebrativo della vita.
Nella valle di Muenster, nell’Engadina, per esempio, le Selvatiche, la sera prima delle nozze, usavano inviare in casa alle spose, almeno a quelle che godevano della loro benevolenza, una corona di stelle alpine e di ruta.
Ma l’edelweiss, con la sua forza simbolica di totalità, è anche in grado di onorare la morte, soprattutto quella delle creature innocenti, la cui Anima ha lo stesso splendore del fiore.
Quando moriva un bambino innocente, infatti, le Salighe si recavano di notte, anche nel più rigido inverno, per ornarne il tumulo ancora fresco con corone di rami d’abete, in mezzo al cui verde scuro brillavano le candide stelle alpine.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono della tessitura e del gomitolo


La Donna Selvatica è anche colei che offre alla donna la possibilità di tessere, mettendole a disposizione i materiali necessari.
Con il dono del materiale di tessitura viene offerta contemporaneamente la materia prima per tessere e, insieme, l’iniziazione al filo e all’ordito, in cui è simboleggiato un tradizionale sapere femminile.
Nella maggior parte delle culture una dea sapiente offre alla donna la tessitura, simbolo della capacità di creare l’ordito della vita, di riunire i fili in un disegno armonioso. In Grecia è Pallade Atena, anch’essa una dea vergine, dunque “intatta”, senza nessuna dipendenza psicologica dell’uomo, che insegna alla donna a tessere, con la sua pazienza e la sua metis (il sapere pratico femminile), la trama della vita. Attraverso la sua capacità di tessere la donna si guadagna, non solo materialmente, l’autonomia: diventa infatti colei che compone la trama della propria storia e, in parte, anche di quella della comunità.
A questo antico tema del sapere femminile della tessitura, della trama, inteso in senso fisico e psicologico, la Donna Selvatica aggiunge però altri due aspetti.
Uno, che incontriamo spesso in queste narrazioni, è ancora una volta quello del segreto: la donna non deve svelare da dove vengono le sue ricchezze, i suoi beni. Il mondo dell’abbondanza femminile, per mantenere tutta la sua energia, deve rimanere tabù, non deve rivelare le proprie fonti.
L’altro, immancabile, è l’allontanamento della riflessione intellettuale negativa e di calcolo: quando finirà?
La domanda sulla fine (figlia della Penuria, vera dea del nostro mondo) esprime sempre la preoccupazione del controllo, che è il contrario dell’affidamento.
Vediamo in queste improvvise interruzioni della ricchezza, provocate appunto dalla domanda sulla quantità del dono, ciò che ogni visione del Sacro ha sempre presentato come necessità dell’affidamento agli dei, o alle forze della Natura Primordiale, il sospetto nei confronti delle quali è già sufficiente ad attenuarne la benevolenza.
Nel cattolicesimo le eterne abbondanze del Sacro compaiono come Divina Provvidenza, spesso rappresentata da immagini di Vergini belle e luminose (suggestiva quella, opulenta, dipinta da Simone di Gaeta e custodita nel Tempio dei Catilinari, dei padri barnabiti, a Roma, cui vengono attribuite proprietà miracolose).
Una versione simbolicamente povera, ridotta a tecnica psicologica, dello stesso concetto di affidamento alla vita e alle sue forze sovrapersonali, è ciò che molta New Age, assieme a diverse correnti psicologiche americane, ha proposto come “pensiero positivo”, o think positive.(Vedi anche: 
http://damadiavalon.blogspot.com/2011/06/le-tessitrici-del-destino.html)

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono vitale: il seme prezioso


Il primo dono della Donna Selvatica è quello che presiede all’origine della vita: il seme. Le Selvatiche hanno in custodia i semi, sanno quando e dove piantarli, nonché come mantenerne la fecondità.

Come racconta questa storia.
Una vecchia e povera donnetta (tutti i suoi averi erano qualche capra e un piccolo campo) pascolava i suoi animali su un terreno assolato, sui rudi pendii rocciosi della Montagna del Sole, la Sonnenberg di Naturno (Naturns).
Da quelle parti c’era una volta il castello dei giganti, ora scomparso, che comunicava con il castello Juval attraverso un ponte di cuoio. È proprio in quella zona che si alza verso il cielo una parete rocciosa rossa, visibile da ogni parte, la Rotwand. Proprio in quel luogo si trovava, da tempi lontanissimi, il regno delle Donne Selvatiche, che amavano le creature umane, le attiravano e le consigliavano bene.
Indebolita dal calore del pieno sole, la vecchia pastora si lasciò cadere su un masso roccioso, che già scottava. Un profondo sospiro uscì dal suo petto; quello era stato proprio un anno malriuscito, durante il quale erano andati distrutti tutti i frutti del campo e l’erba. Le capre, di solito schizzinose, quell’anno dovevano accontentarsi di cardi e spine disseccate, se volevano mangiare almeno qualcosa. La vecchia donna pensava con timore alla carestia che si avvicinava, afflitta per i suoi cari e per sé. Intanto si era lievemente addormentata, per la fame e la debolezza. Di colpo si svegliò e si spaventò enormemente quando si vide circondata da una schiera di donne belle e alte, con capelli lunghi e morbidi, in bianchi vestiti. Erano le Salighe. Una di queste le porse con grazia un cestino pieno di chicchi neri, incoraggiandola ad allontanare paura e preoccupazione e seminare questi chicchi nel suo campo. Da ogni seme sarebbe cresciuto un furto centuplicato e, fino a che fosse stato coltivato bene, alla sua gente non sarebbe mai più mancato il cibo. Così disse e svanì, con le sue compagne, come un raggio di sole. La donnetta sbalordita non ebbe neanche il tempo di ringraziare la bella Selvatica. Portò il cestino con i semi a lei sconosciuti giù nella valle e seminò questi chicchi che non finivano mai non solo nel suo campetto, ma anche nei campi dei contadini nel paese e dintorni. Quando poi le piantine erano cresciute fino alle ginocchia formarono un mare di fiori rosa, dai quali le api prendevano il miele. Prima ancora che le bufere autunnali rumoreggiassero sopra i campi, i cassoni, vuoti di grano e farina, erano ormai pieni di quel buon frutto: il grano saraceno.

Affidati alla Natura, pianta il seme sconosciuto, frutto della terra primordiale, che ti do in mano, caccia il timore della penuria, abbi fiducia nella ricchezza della vita, accolta e coltivata come si deve. Questo il semplice, positivo messaggio della Selvatica. Elementare e insieme fortissimo.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – i loro doni


Con l’arrivo della Donna Selvatica (come pure dell’Uomo Selvatico), compare nella vita dell’individuo e della comunità la dimensione del dono, della gratuità, del libero dispendio di sé.
Le Fanciulle del Bosco sono quelle che donano perché posseggono le energie degli dei, le forze inesauribili del Sacro Naturale.
Così le vede, per esempio, Goethe:

Voi che abitate rocce e alberi
o ninfe salutari
date a ciascuno volentieri, ciò che in silenzio desidera!
[…]
Perché a voi
gli dei hanno dato,
ciò che agli uomini hanno negato,
esseri caritatevoli e consolanti,
con chi si fida di voi. (J.W. Goethe, Solitudine)

Il dono è, infatti, il modo di esprimersi dell’energia delle forze primordiali e naturali, che l’uomo ha sempre vissuto come sacre (tranne in Occidente, negli ultimi duecento anni). E la Natura, come tutto il Sacro si esprime donando, perché possiede energie in eccesso. Come ha osservato lo studioso del Sacro Rudolf Otto: “Il Sacro in semitico, greco, latino e in altre antiche lingue veniva definito solo come eccesso, eccedente, troppo, e non ci si occupava dell’aspetto morale”.
Il mondo delle forze della Natura, del Sacro, è dunque il mondo delle eccedenze, delle abbondanze.
Il mondo del pensiero razionale è invece in gran parte il mondo del calcolo, della misura e del controllo.
La differenza, energetica e psicologica, tra questi due ambienti appare evidente se osserviamo una foresta e una fabbrica. L’organizzazione industriale, infatti, si limita a elaborare, spesso in modo geniale, materie prime o fabbricate dall’uomo. Nell’intervento naturale invece l’aspetto di sovrappiù, di eccedenza rispetto a quanto l’uomo vi mette è assolutamente evidente.
Nel grembo della terra avviene un processo creativo paragonabile, per ricchezza di risultato, soltanto a quanto avviene nel corpo umano, che infatti della Natura fa parte. Il mondo della Natura Primordiale è quindi, innanzitutto, il mondo dell’eccedenza, del sovrappiù, della dismisura tra quanto mette l’uomo (il piccolo seme) e quanto le forze naturali trasformano (il campo, l’albero, la foresta) e aggiungono. Così come possono anche togliere, senza preavviso: è l’aspetto distruttivo del Sacro naturale.
La Natura incontaminata, la Wildins, rappresenta quindi la situazione opposta a quella in cui vive l’individuo della modernità: che è, in fondo, una condizione di penuria, anche se la chiamano di solito ricchezza. L’uomo e la donna della modernità pensano infatti di poter ottenere solo nella misura in cui continuamente investono e calcolano: nulla è dato loro gratuitamente. L’affidamento alla vita – che noi chiamiamo “fatalismo” – è condannato come irresponsabilità: non hai nulla se non con lo sforzo, e non lo mantieni che con un ossessivo controllo della situazione.
Il linguaggio e il comportamento della Donna Selvatica, rappresentante del mondo naturale delle abbondanze, è invece quello del darsi. È attraverso questa donazione che si manifestano le sue energie, le sue possibilità di intervento nella vita degli uomini.
Per la Selvatica è invece tabù, grave violazione al suo carattere sacro, il modo dello scambio mercantile. Il pagamento, i beni che le vengono dati non come offerta sacrificale a una potenza sovrapersonale, ma come compenso personale, utilitaristico do ut des, “do per avere”, la offendono, e provocano subito il suo ritorno nella foresta, nella Wildnis.
La Donna Selvatica rappresenta un femminile non certo fastoso, anzi in genere essenziale, ma che dà, offre in continuazione: lavoro, cose preziose, materie prime naturali. Il suo insegnamento è che sul mondo naturale, di cui lei è espressione, si può contare all’infinito, a condizione di rispettarlo e onorarlo. Essa non può accettare il compenso, che la degraderebbe da rappresentante della Natura Primordiale a interessata prestatrice d’opera. Il pagamento in denaro è ancora più offensivo del dono, che di solito viene accolto con umorismo, come una stupidaggine, anche se fa fuggire le Selvatiche

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

venerdì 27 gennaio 2012

Le salighe e gli animali


È ancora l’amore per la vita che spinge queste belle Fanciulle del Bosco e della Montagna a proteggere la selvaggina, e ad adirarsi con i cacciatori che uccidono a sangue freddo gli animali. Sono molte le storie che raccontano come, quando un capriolo e una camoscia erano già sotto tiro, dal bosco o dalla montagna la Selvatica lanciasse improvvisamente un grido acuto, mettendo in fuga le vittime predestinate e lasciando di stucco il cacciatore.
La stretta relazione tra le Selvatiche e gli animali, e la protezione che esse accordano loro, esprime bene la loro funzione di rappresentanti delle forze del femminile naturale, a cominciare da quelle della vita, e degli istinti, di cui gli animali sono la personificazione vivente. Anche oggi riavvicinarsi alle forze del femminile originario, della Selva, della vita primordiale, richiede l’amicizia e la conoscenza con il mondo degli animali.
L’animale è un testimone della pura forza dell’istinto vitale.
Per questo la Selvatica lo protegge.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe - le loro abitazioni


La dimora della Donna Selvatica si trova di solito in zone profonde, all’interno delle rocce o nella terra. “Abitare nella grotta significa condurre una meditazione terrestre, significa partecipare alla vita della terra nel seno stesso della Terra materna”. (G. Bachelard, La terra e il riposo).
Perché le Selvatiche stanno nelle caverne? Innanzitutto perché grotte e caverne sono i luoghi più carichi di Mana, della forza del Sacro, categoria cui le Salighe appartengono. Che sottoterra ci sia più energia che fuori, le culture tradizionali da cui queste saghe sono nate lo hanno sempre saputo. Non a caso nelle grotte nascono profeti o figure divine, a cominciare da Gesù, e nelle grotte si ritirano a vivere grandi visionari (come il discepolo Giovanni, autore dell’Apocalisse), che proprio da quei luoghi chiusi, e grazie al raccoglimento che inducono, possono avere ampie visioni sul mondo.
La Donna Selvatica, impenetrabile se non quando lo desidera, penetra invece il mondo con il suo sguardo, che si spinge fuori dal buco della caverna, anche quando lei vi si è ritirata.
La grotta, e quella delle Selvatiche in particolare, è il luogo del riposo, della tranquillità, della protezione, il luogo che ripete la sicurezza profonda del grembo. Quando vi entrano il disordine, la disperazione, la protesta, la rivendicazione del possesso, la tranquillità ne è cacciata, e il luogo ne risulta profanato. Esso perde il suo Mana, la sua energia, che è quella del rifugio, della protezione e, appunto, dell’integrità, del pieno possesso di sé. Un mondo di energie che per mantenersi ha bisogno del rispetto per il segreto.



A volte l’intrusione maschile nel mondo delle Donne Selvatiche è motivata dall’intenzione di rubare le loro ricchezze. Queste fanciulle, come spesso i personaggi che rappresentano la Natura Primordiale, sono infatti custodi di tesori.
L’abitazione ctonia delle Selvatiche, situata cioè nel profondo della terra, i cui elementi caratteristici sono il sottosuolo e le pietre circostanti, è a volte circondata da un ricco mondo vegetativo.
Le loro abitazioni sono austere e profonde, ma il loro mondo è costellato da segni di bellezza, benessere e ricchezza particolari. Non solo per i tesori che a volte custodiscono, per le mandrie di animali radunate nelle loro caverne, per i giardini paradisiaci che le circondano, ma perché nel loro mondo di terra e pietra abbondano i cristalli e le gemme.
Così nella zona al piede del passo del Rombo (Timmelsjoch), che attraversa le Alpi fino a Corvara (Rabenstein) in Val Passiria, tutto brilla di micascisto, una pietra che contiene tanti cristalli di granato rosso. Di questa pietra si dice che è il selciato della Salighe, come si legge nei versi: “Dal passo del Rombo a Corvara, la Selvatica ha messo il suo selciato”.
Anche questa pietra ci aiuta a entrare nel mondo della luce, che è quello delle Salighe, della natura radiosa di energie. Le pietre mandano e riflettono la luce; ma il granato sa anche trattenerla (tanto che un poeta, Remi Belleau, lo definisce “vigliaccamente ombroso”, in confronto all’”impazienza di brillare” del diamante). Qui, le Selvatiche camminano su una pista “di luce ombrosa”, di luce trattenuta. Anzi, la loro capacità di trattenere la luce, senza irradiarla platealmente, anche se la posseggono e vi sono fortemente legate, è parte integrante dell’energia femminile espressa dalla Donna dei Boschi.
La casa delle Donne Selvatiche ci parla di profondità, di relazione con la terra e con la solidità eterna della pietra. Relazione con la ricchezza della vegetazione naturale che le circonda e protegge, e attraverso la quale esse esprimono la loro visione della vita. Riservatezza nelle loro comunicazioni con il mondo esterno. Ferma determinazione a custodire il segreto sul proprio mondo interiore, che può essere mostrato solo a pochi, dopo una precisa iniziazione, e non deve mai essere accessibile a chi vi si rivolge dominato dalla curiosità o dall’invidia.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe - il loro aspetto



A Campitello abitava un contadino che andava a far il fieno nell’alta Val Duron.
Una volta, mentre era seduto all’ombra a riposare, vide un gruppo di bellissime fanciulle che scendevano dal Passo e si fermavano a raccogliere erbe e fiori, proprio sul suo prato. La cosa più fantastica era che queste ragazze sembravano essere fatte di vetro, tanto erano trasparenti.
I raggi di sole passavano attraverso di loro senza fermarsi, così che le fanciulle non avevano ombra.
Talora, invece le Selvatiche indossano un vestito bianco, come in questa storia.
Nel Bosco Bacher, vicino a Novaponente (Deutschnofen), si vedeva a volte una minuscola ragazzina, con una veste bianca come la neve. Chi meno se lo aspettava se la trovava proprio davanti agli occhi, a camminare lungo la via del bosco, di giorno come di notte, leggera, a passare sopra i ruscelli senza che il suo piede avesse bisogno di cercare un punto d’appoggio.
A volte, invece le Donne Selvatiche portano anche vestiti neri; spesso indossano per anni gli stessi stracci. Per esempio, non lontano dal castel Ehrenburg, c’è una roccia che ha una caverna, nella quale abitano tre vergini vestite di nero.
Secondo una saga di una zona di confine, un contadino di bosco di Hohenhart, nell’Engadina, aveva preso ai suoi servizi una bella ragazza bionda. Questa ragazza viveva solo di latte fresco e aveva mani così delicate che non la si poteva usare per nessun altro lavoro che per filare il lino.
In questo loro filare e tessere teli di lino, le Selvatiche a volte li buttano in aria e li appendono sui raggi del sole, per renderli più chiari. Spesso si vede la loro conocchia splendere fino giù, nella valle, e a volte i loro lini bianchi, appesi nell’aria, volano sulla testa dei contadini di sotto.
Sul Collio, una zona collinare vicino a Gorizia, di notte spesso si alza un vento che preannuncia la venuta di queste fanciulle speciali. È allora che, nel buio, scendono a valle le Vile, le Selvatiche che stanno da quelle parti.
I loro vestiti trasparenti scintillano come diamanti. Sul fondo del prato si danno la mano e prendono a danzare un girotondo. Poi, al sorgere del sole, perdono i loro gioielli; le pietre preziose si staccano dai veli ondeggianti e diventano allora la brina del prato.
Alcune caverne del Carso portano nomi come “Vila” e “Vilenica” presso Corgnole; pare che lì, appunto, vivano le Vile. Fra gli slavi del Sud si pensa che le Vile siano anime mature di un albero, che possono esteriorizzarsi al di fuori di esso; allora vanno ad abitare in caverne di montagna o di roccia. J.N. Ritter von Alpenburg descrive le Vile slave con occhi neri, disposte a incontrarsi volentieri con i guerrieri e vendicative. Al contrario delle Salighe, che hanno occhi azzurri, incontrano pastori e contadini e sono pazienti.
Ecco già, da questi racconti, delinearsi alcuni tratti delle Donne Selvatiche.
Luminosità, leggerezza, relazione con i colori chiari: il lino viene appeso ai raggi del sole perché diventi più bianco.
Trasparenza, luce, luna, danza. E il cerchio, la totalità femminile.
Non la competizione fra donne, per la carriera o l’immagine, ma il girotondo, danzato in fondo al prato, nella notte rischiarata dalla luna. Tutte forme di bellezza, splendore, forza, allegria, armonia, che la Bella Selvatica, raccontata in queste storie, può offrire a quelle donne, e a quegli uomini, che oggi si sentono lontani da queste energie.
Nelle saghe loro dedicate si ricorda spesso che “le Donne Selvatiche ballano e cantano volentieri”. Zone in cui le Salighe ballavano frequentemente erano quelle sul Muehlegg (angolo del mulino) e nel Taufnerbruennel (accanto alla Val Sugana).
Erano vestite in modo splendido, e partecipavano alla danza con perfetta armonia di movimenti ed espressione. I ragazzi che vedevano questo spettacolo avrebbero dato qualsiasi cosa per ballare con loro, ma solo quelli davvero molto bravi avevano la fortuna di poter partecipare alle danze.
Spesso il canto è la forza che stabilisce il contatto profondo tra le Selvatiche e gli uomini. È ancora il canto, e la musica, che le richiama alla natura, e alla compagnia delle altre Donne Selvatiche.
L’intervento delle Selvatiche sul mondo si può vedere, secondo Marius Schneider, ne Il significato della musica, come la manifestazione successiva di tre potenze. “La prima è la potenza della voce (il canto, la parola); la seconda è la trasformazione e la materializzazione di tale forza cantata in energie di nutrizione; la terza costituisce facoltà di procreazione.”
Dunque: cantare, mangiare e procreare (rispettivamente: la vita spirituale, vegetativa e sessuale), sono tre aspetti di una stessa forza creatrice elementare. Queste donne, prima cantano, quindi si occupano della nutrizione, fisica e spirituale, degli uomini, e infine si riproducono, per poi tornare alla forza creatrice elementare da cui provengono.
Tutto, però, comincia dal canto. Come ricorda D.H. Lawrence. “Ears can hear deeper than eyes can see” (L’orecchio può sentire più profondamente di quanto gli occhi possano vedere).
Incontrare la Donna Selvatica, fuori e dentro di noi, è anche questione di aprire bene le orecchie e saper ascoltare.
Le Donne Selvatiche vengono spesso chiamate Vergini, Vergini Beate, Vergini Felici.
Nelle culture tradizionali, come quella alpina cui queste saghe appartengono, è frequente la credenza che la vergine possegga qualcosa di misterioso, che eserciti la sua potenza sugli avvenimenti e le cose della terra. L’antica cultura delle valli alpine, come tutta la cultura tradizionale germanica, non si riferisce però alla verginità fisica, sessuale. La Selvatica è vergine perché è colei che sa serbarsi, che è capace di riservatezza e di segreto, che custodisce qualcosa che sta crescendo e divenendo. È la donna che porta in sé il futuro, in quanto giovane e psicologicamente intatta, quindi in grado di “essere una con se stessa” (vedi anche http://damadiavalon.blogspot.com/2011/07/le-vergini-antiche.html).
La stessa concezione la troviamo nelle saghe germaniche narrate nell’Edda, il grande poema mitico dell’antica cultura tedesca. Anche la potenza delle Valchirie, definite “vergini”, non è affatto legata alla verginità fisica. Ciò che invece conta nel mondo germanico, e in genere nordico, è l’innocenza (Unschuldig), il non essere stati “toccati” dal male, non provarne piacere: un’integrità morale, non necessariamente fisica. Questa innocenza è, nella credenza popolare tedesca, portatrice di una particolare forza: l’innocente sa fare più di altri, può difendersi dal male, e anche risolvere situazioni compromesse, sciogliendole. Viene richiesta la forza dell’innocente per liberare una vergine intatta o per avere un tesoro.
Nel Parzival l’eroe sposato amministra il santuario del Graal con le “vergini” portatrici della Coppa, e la più influente di esse è chiamata la “Dispensatrice di gioia” (Repense de joie). Questo atteggiamento di apprezzamento per la giovane psicologicamente “vergine” rappresenta la giusta devozione davanti a ciò che sta crescendo, alle forze non ancora liberate della gioventù, e in particolare del femminile che si dischiude. Un campo di energie che si esprime anche nelle tradizioni popolari dei riti di fertilità, molti dei quali sono continuati nelle Alpi anche sotto forme cristiane.
L’energia magica e apportatrice di fortuna della “vergine” selvatica” la troviamo nelle immagini, più volte riproposte in questi racconti, delle vergini bianche, delle beate fanciulle, delle vergini che ballano e cantano, che aiutano,che curano, che avvertono, che donano, che amano.
Perfino dee materne, come Nerthus-Frea-Frigg, diventano aiutanti virginali. Come del resto, nella mitologia greca, è materna, e insieme vergine, la fanciulla dei boschi Artemide, figura psicologicamente molto vicina alla Donna Selvatica. Persino la dea più materna, il Sole, che nella mitologia tedesca è di genere femminile, diventa una vergine: potente e intatta.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

giovedì 26 gennaio 2012

Le Salighe - etimologia



Le Salighe, note in tutto il Tirolo, originariamente venivano chiamate Selige, ma nella letteratura moderna vengono introdotte come Salige. La parola può rimandare sia a Seele, Anima, sia, come viene comunemente più ritenuto, a un fascio di parole delle lingue indoeuropee che rinviano all’idea di sacro, dallo slavo celu (salvo, in buona salute: per il mondo slavo-germanico la salvezza spirituale coincideva con la forza fisica), al gotico saljan, offrire in sacrificio, al latino sanctus. Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1977. Tra queste parole, di particolare rilievo è il tedesco selig, che significa: molto felice, benedetto da Dio, buono, saggio, ricco (Cfr. W. Pfeifer, Ethimologisches Woerterbuch des Deutschen, Berlino 1993), e che rimanda, tra l’altro, al latino salvus.
Le Salighe del Sud Tirolo e delle zone alpine e dolomitiche si chiamano anche Selige Fraeulein = signorine beate; Heilige = santa; Heilige Leute = gente santa; Selige Leute = gente beata; Sealige Gitsch = ragazza beata; Jungfrau = Vergine; Hohle Leute = gente graziosa; Englische Leute = gente angelica; Weisse Frau = Donna Bianca; Wilde Fraeulein = signorine selvatiche; Wilde Frauen = Donne Selvatiche; Wadlfrauen = donne del bosco; Wilde Bergfrauen = donne selvatiche della montagna; Schneefraeulein = signorine della neve; Unbekannte Frau = donna sconosciuta. In Val Badia e Ampezzo vengono chiamate Gannes; nella Val Gardena e Val di Fassa Vivane; nella Val di Non Anguane; nella Val Sugana Eguane; nella Valle dei Moccheni Bilje Baibar = Donne Selvatiche; nella Val Lagarina Waldwilde Weiber = donne selvatiche del bosco; dai Cimbri Sealiga Baibern = donne beate ; nei Grigioni Waldfanken; nella Bassa Engadina Diale; nell’Oberinntal nel Tirolo Fanngen; Hole Leute nel Virgental, nel Tirolo orientale; nella Carinzia Hadachweiber; nell’austriaco Burgunderland e nel Carso: Vile.
Fuori dall’arco alpino ci sono altre Donne Selvatiche; le più simili alle Salighe sono le Holz-und Moosweibchen, le donnette del legno e del muschio nella Germania centrale; le Dive Zeny, Donne Selvatiche nella Boemia; il Buschweibchen = Donnetta della Macchia della Westfalia; le Wilde Fraeulein = signorine selvatiche dell’Assia, Renania e Baden, e nella Stiria; le Skogsnufva della Svezia.
La rassegna più completa e approfondita di queste figure femminili, presenti nell’inconscio collettivo, è l’impareggiabile H.P. Duerr, Sedna oder Die Liebe zum Leben, Francoforte 1984.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

mercoledì 25 gennaio 2012

L'ascolto


Vi siete mai seduti in silenzio senza fermare l'attenzione su una cosa qualsiasi, senza fare il minimo sforzo per concentrarvi, con una mente davvero calma? Se lo fate, potete ascoltare i rumori lontani e quelli vicinissimi a voi: siete in contatto coi suoni.
Allora state veramente ascoltando. La vostra mente non si limita a funzionare attraverso un solo insufficiente canale. Quando ascoltate in questo modo, con grande tranquillità, senza sforzo, scoprite che dentro di voi avviene un cambiamento straordinario, un cambiamento che non dipende dalla vostra volontà e che si produce senza che voi lo chiediate; è un cambiamento che porta
con sé l'immensa bellezza di una percezione
profonda.

Jiddu Krishnamurti

Il Viaggio



Faremo piuttosto un viaggio insieme. Un viaggio di scoperta negli angoli più segreti della nostra mente.
E per intraprendere un viaggio del genere bisogna viaggiare con poco bagaglio, non possiamo essere appesantiti da opinioni, pregiudizi e conclusioni, tutto quel vecchio bagaglio che abbiamo messo insieme negli ultimi duemila anni e più.
Dimenticate tutto quello che sapete su voi stessi, dimenticate tutto quello che avete pensato di voi; cominceremo come se non sapessimo niente.

Jiddu Krishnamurti


Natura


Quando si perde il profondo rapporto intimo con la Natura, i templi, moschee e chiese diventano importanti

Jiddu Krishnamurti

Paragoni con gli altri


Facciamo sempre paragoni tra quello che siamo e quello che dovremmo essere.

Questo continuo paragonarci a qualcosa o a qualcuno è la causa primaria dei nostri conflitti.
Perché vi paragonate ad altri?
Se non vi paragonate a nessuno sarete quel che realmente siete

Jiddu Krishnamurti


Tu e il mondo


Ciò che tu sei, il mondo è. E senza la tua trasformazione, non può avvenire nessuna trasformazione nel mondo.

Ciò che siete dentro è stato proiettato all'esterno, sul mondo; ciò che siete, ciò che pensate e sentite, ciò che fate nella vostra esistenza quotidiana, viene proiettato fuori di voi e va a costituire il mondo

Jiddu Krishnamurti

Imparare


Sai cosa significa imparare? Quando impari veramente, impari dalla vita; non c’è un insegnante particolare da cui imparare. Tutto ti è di insegnamento: una foglia morta, un uccello in volo, un profumo, una lacrima, il ricco e il povero, coloro che piangono, il sorriso di una donna, l’alterigia di un uomo. Impari da ogni cosa, quindi non hai bisogno di guide spirituali, di filosofi, di guru. La vita stessa ti è maestra, e tu sei in uno stato di costante apprendimento

Jiddu Krishnamurti

domenica 22 gennaio 2012

La felicità


La felicità è il più grande paradosso dell’esistenza. Può crescere ovunque e in ogni condizione, sfidando l’ambiente. Viene da dentro: è la rivelazione della profondità della vita interiore come la luce e il calore sono la rivelazione del sole che li irradia. La felicità non consiste nell’avere ma nell’essere, non nel possedere ma nel godere. Un martire sul rogo può avere una felicità che un re sul trono invidierebbe. L’uomo è l’artefice della sua felicità, che è il piacere di una vita vissuta in armonia con nobili ideali. Si può dipendere dagli altri per ciò che si ha, ma ciò che si è dipende solo da noi stessi. La felicità è la gioia dell’anima che possiede l’intangibile. È l’ardore di un cuore in pace con sé stesso.

Da: La bottega dei desideri di Karen Weinreb

sabato 21 gennaio 2012

Le Owens


Per più di duecento anni le donne di casa Owens sono state incolpate di tutto quello che andava storto in città. Se arrivava una primavera piovosa, se il latte delle mucche al pascolo era striato di sangue, se una colica uccideva un puledro o nasceva un bambino con una voglia rossa stampata sulla guancia, erano tutti convinti che fossero state quelle donne di Magnolia Street a forzare, almeno in parte, la mano del destino. Non aveva importanza quale fosse il problema, il fulmine, le cavallette o la morte per annegamento. Non aveva importanza che la situazione avesse una spiegazione logica o scientifica, o che fosse imputabile alla semplice malasorte. Bastavano un guaio lontanamente in vista o una minima circostanza sfortunata perché subito tutti puntassero il dito e sapessero chi incolpare. In men che non si dica si erano già convinti che passare a piedi davanti a casa Owens con il buio non fosse sicuro, e soltanto i vicini più avventati osavano sbirciare oltre la cancellata di ferro battuto nero che circondava il giardino come un serpente.
Dentro casa non c’erano né orologi né specchi, ma tre serrature su ciascuna porta. Sotto le assi del pavimento e nei muri abitavano topi, e spesso se ne trovavano anche nel cassettone, dove rosicchiavano le tovaglie ricamate e gli orli di pizzo delle tovagliette all’americana in puro lino.
Per i sedili vicino alle finestre e le mensole dei camini erano stati usati quindici legni diversi, tra i quali la quercia dorata, l’argenteo frassino e una qualità di ciliegio particolarmente fragrante che rilasciava un profumo di frutti maturi anche nel cuore dell’inverno, quando fuori gli altri alberi non erano che scheletri neri senza foglie. Per quanto polveroso fosse il resto della casa, le parti in legno non avevano mai bisogno di essere lucidate. Se socchiudevi gli occhi, potevi vedere il tuo riflesso nel rivestimento di assi nella sala da pranzo e persino nel corrimano al quale ti aggrappavi nel precipitarti giù per le scale. Non c’era una sola stanza in cui non fosse sempre buio, anche a mezzogiorno, e nella quale non ci fosse anche un bel fresco anche nella canicola di luglio. Chiunque avesse osato arrivare fino al portico, dove cresceva selvatica l’edera, avrebbe potuto cercare di guardare attraverso le finestre per ore senza vedere niente. Lo stesso valeva per chi guardava fuori: i vetri verdi delle finestre erano così vecchi e così spessi che le cose dall’altra parte sembravano viste in sogno, compresi il cielo e gli alberi.

Le donne Owens ignoravano le convenzioni sociali, erano testarde e volitive e ci tenevano a essere tali. Le cugine che avevano preso marito avevano sempre insistito per conservare il cognome di famiglia e anche le loro figlie si chiamavano Owens. La madre di Gillian e Sally, Regina, era stata un elemento particolarmente difficile da controllare. Quando ripensavano a Regina che camminava sulla balaustra del portico con solo le calze ai piedi e le braccia in fuori per mantenere l’equilibrio, nelle sere in cui aveva bevuto un po’ troppo whisky, le zie dovevano ricacciare indietro le lacrime. Forse Regina era una sventata, ma sapeva divertirsi, una capacità di cui le donne Owens andavano fiere. Gillian aveva ereditato la vena selvaggia di sua madre, ma Sally non avrebbe saputo riconoscere un divertimento neppure se l’avesse aggredita e morsicata.

Le zie tenevano ancora sui loro cassettoni le fotografie dei giovani che un tempo avevano amato, due fratelli troppo orgogliosi per cercare riparo durante un temporale che aveva interrotto il loro picnic. Erano stati colpiti in pieno dal fulmine nel parco cittadino, dov’erano poi stati sepolti sotto una pietra tonda e liscia sulla quale all’alba e al crepuscolo si radunavano a tubare le zenaidure. Ogni mese d’agosto il fulmine colpiva ancora quello stesso punto, e ogni volta che comparivano cupe nubi temporalesche gli innamorati si sfidavano ad attraversare di corsa il parco. I fidanzati di Gillian erano gli unici abbastanza malati d’amore da rischiare di essere colpiti e due di loro si erano ritrovai in ospedale dopo le loro corse nel parco, con i capelli ancora ritti in testa e gli occhi destinati a rimanere spalancati fino alla fine dei loro giorni, anche durante il sonno.

Maria Owens era arrivata nel Massachusetts con solo una piccola borsa di effetti personali, la sua bambina appena nata e un pacchetto di diamanti cucito nell’orlo del vestito. Maria era giovane e carina, ma vestiva solo di nero e non aveva marito. Nonostante questo, era abbastanza ricca da poter pagare i dodici falegnami che avevano costruito la casa di Magnolia Street, e così sicura di sé e di quello che voleva da arrivare persino a dar loro consigli su questioni del tipo quale legno usare per la mensola del camino in sala da pranzo e quante finestre ci volevano per consentire una perfetta visuale del giardino sul retro. La gente divenne sospettosa, e perché non avrebbe dovuto? La piccina di Maria Owens non piangeva mai, neppure quando veniva morsa da un ragno o pun
ta da un’ape. Il giardino di Maria non era mai infestato dai dermatteri o dai topi. Quando arrivava un uragano, tutte le case di Magnolia Street ne uscivano danneggiate tranne quella costruita dai dodici falegnami. Non volava via nessuna persiana e persino la biancheria dimenticata fuori ad asciugare rimaneva al suo posto: non andava perduto neppure un calzino.
Se Maria Owens decideva di rivolgerti la parola, ti guardava dritto negli occhi anche se eri più anziano o migliore di lei. Era nota per fare quello che voleva, senza fermarsi a considerare le possibili conseguenze. Uomini che non avrebbero dovuto innamorarsi di lei erano convinti che Maria si fosse accostata a loro nel bel mezzo della notte, accendendo i loro appetiti carnali. Le donne si scoprivano attratte da lei e non vedevano l’ora di confessarle i propri segreti all’ombra del portico, dove il glicine aveva già attecchito e cominciava ad avvinghiarsi alle ringhiere dipinte di nero.

Maria si assicurava sempre di avere addosso qualcosa di blu, anche quando ormai era una vecchia signora e non poteva più alzarsi dal letto. Il suo scialle era sempre blu come il paradiso e, quando sedeva sotto il portico sulla sedia a dondolo, era difficile stabilire dove finisse lei e dove cominciasse il cielo.
Fino al giorno della sua morte, Maria portò sempre lo zaffiro che le aveva regalato l’uomo di cui era stata innamorata, se non altro per ricordare a se stessa che cos’era importante e che cosa no. Per molto tempo dopo che se ne era andata, alcuni insistevano nel dire di aver visto una figura azzurra e glaciale nei campi, in piena notte, quando l’aria è fredda e immobile. Giuravano di averla vista camminare nei frutteti diretta a nord e che se stavi zitto zitto, se non muovevi neppure un capello, ma ti accucciavi su un ginocchio sotto i vecchi meli, il suo vestito ti sfiorava e da quel giorno in poi avresti avuto fortuna in tutto, e i tuoi figli dopo di te, e anche i loro figli.

Gillian è più attraente che mai, ma le donne Owens sono sempre state note per la loro bellezza, almeno quanto per le scelte avventate che compiono inevitabilmente in giovane età. Negli anni venti la cugina Jinx, i cui acquerelli si possono ammirare al Museum of Fine Arts, era troppo caparbia per dare ascolto a chiunque. Si ubriacò di champagne gelato, buttò le sue scarpette di raso sopra un alto muro di sassi e danzò sui vetri rotti fino all’alba, poi non camminò più. La più adorata delle prozie, Barbara Owens, sposò un uomo dal cranio spesso come quello di un mulo che si rifiutava di fare arrivare in casa l’elettricità o l’acqua corrente, sostenendo che fossero una moda passeggera. La cugina preferita, April Owens, aveva vissuto per dodici anni nel deserto Mojave, raccogliendo ragni in barattoli pieni di formaldeide.

L’estate in cui zia Jet compì sedici anni, due ragazzi della città si uccisero per lei. Uno si era legato alle caviglie delle spranghe di ferro e si era annegato in una cava, l’altro era rimasto ucciso sui binari fuori città dal treno delle 10.02 per Boston. Di tutte le donne Owens, Jet era la più bella e non se n’era mai neppure resa conto. Agli esseri umani preferiva di gran lunga i gatti, e rifiutava le offerte di tutti gli uomini che s’innamoravano di lei. L’unico che avesse mai ricambiato era quel ragazzo rimasto ucciso dal fulmine quando lui e suo fratello si erano lanciati attraverso il parco cittadino per provare quanto fossero impavidi e coraggiosi. A volte, di notte, Jet e Frances sentono le risate dei due ragazzi che corrono sotto la pioggia, poi inciampano nell’oscurità. Le loro voci sono ancora giovani e piene di speranza, proprio come nel momento in cui sono stati colpiti dal fulmine.

Il loro sapone nero è tanto benefico per la pelle femminile se lo si usa tutte le sere. Le saponette delle zie, avvolte in plastica trasparente, si trovano nei negozi di prodotti biologici di Cambridge e in diversi negozi specializzati lungo Newbury Street, e grazie alle saponette le zie si sono potute permettere non solo un nuovo tetto per la vecchia casa, ma anche una fossa ecologica a regola d’arte.

Da: Il giardino delle magie di Alice Hoffman

La storia di Barbara e Giovanni


C’era un tempo in cui prato, bosco, e ruscello,
la terra, e ogni essere comune
a me sembravano
ornati da una luce celestiale,
la gloria e la freschezza di un sogno.
non è più com’era prima;
mi giro ovunque posso,

di giorno o di notte,
le cose che ho visto ora non posso più vederle.

L’arcobaleno viene e va,
e amabile è la rosa;
la luna con diletto
si guarda intorno quando i cieli erano spogli;
le acque nelle notti stellate
sono belle e serene;
l’alba è una nascita gloriosa;
ma eppure so, dove vado,
dove è passata una gloria dalla terra.

(Ode dell’Immortalità di William Wordsworth)

http://guide.supereva.it/bibliofilia/interventi/2010/03/lode-dellimmortalita

Su nelle stanze dei bambini Mary Poppins faceva asciugare gli abiti vicino al fuoco e la luce del sole entrava dalla finestra, scherzando sui muri bianchi, danzando sulle culle dove i pupi dormivano.
“Dico, muoviti! Mi stai proprio negli occhi” disse Giovannino a voce alta.
“Mi dispiace” – rispose la luce del sole. – “Ma non posso farvi niente. Devo assolutamente attraversare questa stanza. Gli ordini sono ordini. Debbo muovermi da Est a Ovest in un giorno e la mia strada passa per questa stanza. Mi dispiace! Chiudi gli occhi e non ti accorgerai di me”. La dorata freccia di sole si allungò attraverso la camera. Evidentemente si muoveva quanto più presto poteva per far cosa grata a Giovannino.
“Quanto sei morbido! Quanto sei dolce! Ti voglio bene”, disse Barbara, stendendo le braccine al suo calore scintillante.
“Brava bambina” – disse la luce del sole approvando e si mosse sulle sue guance e andò fra i suoi capelli simili a una leggera carezza. – “Ti piace sentirmi?” domandò come se amasse di essere lodata.
“De-liziooosa” – disse Barbara con un sospiro di felicità.
“Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere! Non ho mai veduto un posto dove si chiacchiera tanto. C’è sempre qualcuno che parla in questa stanza”, si udì una voce acuta presso la finestra.
Giovannino e Barbara alzarono gli occhi.
Era lo Stornello che viveva in cima al comignolo.
“Senti chi parla” – disse Mary Poppins, volgendosi in fretta. – “E tu allora? Tutto il giorno sì, e anche metà notte, sui tetti e sui pali telegrafici, cinguettando, gridando e schiamazzando. A furia di chiacchiere, faresti persino cadere le gambe alle sedie. Peggio di un passero. E questa è la verità”. Lo Stornello piegò la testa da una parte e la guardò dal davanzale della finestra.
“Bene – disse – ho i miei affari a cui badare. Consulti, discussioni, querele, contratti… E questo naturalmente rende necessario un certo quantitativo di… tranquilla conversazione”.
“Tranquilla!” esclamò Giovannino ridendo di cuore.
“Non stavo parlando a te giovinotto” – disse lo Stornello, saltando giù dal davanzale della finestra – “E non hai bisogno di parlare, in tutti i casi. Io ti ho inteso te per molte ore di seguito, sabato scorso. Santo Cielo, credevo che tu non la smettessi più, mi hai tenuto sveglio tutta la notte”.
“Quello non era parlare – disse Giovannino. – Ero… – fece una pausa. – Avevo un dolore, voglio dire”.
“Hum!” disse lo Stornello e saltò sulla sponda della culla di Barbara. Camminò sull’orlo finché venne a capo della culla. Poi disse con una smorfiosa vocetta:
“Bene, Barbara, niente per il vecchio amico oggi, eh?”. Barbara si tirò su aggrappandosi a una sbarra del lettino. “C’è l’altra metà del mio biscotto d’orzo” disse e glielo porse col suo pugnetto grasso e tondo. Lo Stornello ci si buttò sopra, lo prese dalla sua mano e rivolò sul davanzale della finestra. Cominciò a beccarlo golosamente.
“Grazie”, disse Mary Poppins intenzionalmente, ma lo Stornello era troppo occupato a mangiare per capire il rimprovero.
“Ho detto grazie!” disse Mary Poppins un po’ più forte.
Lo Stornello alzò gli occhi.
“Eh… cosa?” Ohi, andiamo, ragazza, andiamo. Non ho tempo per simili fronzoli e falpalà”. E inghiottì il resto del suo biscotto.
La stanza era molto quieta. Giovannino assopendosi nella luce del sole, mise in bocca le dita del piedino destro e le strofinò lì dove i denti cominciavano a spuntare.
“Perché ti tormenti a far così?” disse Barbara con una voce sommessa, divertita, che sembrava sempre piena di risa. “Non c’è nessuno che ti vede”.
“Lo so” – disse Giovannino, facendo come una suonatina coi piedini. – Voglio tenermi in esercizio, diverte tanto i grandi. Ti sei accorta che zia Flossie quasi diventava matta quando io lo facevo ieri? Che caro, che bravo, che meraviglia, che creatura! Non l’hai intesa dir tutto questo?”. E Giovannino allontanò da sé il piedino e scoppiò a ridere come se ripensasse alla zia Flossie.
“Le è piaciuto anche il mio scherzo – disse Barbara velocemente. – Mi son tirata via tutti e due i calzini, e lei ha detto che ero così cara che avrebbe voluto mangiarmi. Non è buffo? Quand’io dico che vorrei mangiare qualcosa, voglio dire veramente quello. Biscotti e ciambelle e i pomi del lettino e altro ancora. Ma i grandi non vogliono mai dire quel che dicono, mi sembra. Essa non poteva realmente desiderare di mangiarmi, non è vero?”.
“No. È solo la maniera sciocca che hanno di parlare – disse Giovannino. – Credo che io non capirò mai i grandi. Sembrano tutti così stupidi. E anche Giovanna e Michele sono stupidi qualche volta”.
“Uum”, – assentì Barbara, pensosamente, togliendosi i calzini e tornando a metterseli.
“Per esempio – proseguì Giovannino – non capiscono una sola cosa che noi diciamo. Ma peggio ancora, non capiscono ciò che dicono le altre cose. Ecco, soltanto lunedì scorso ho udito Giovanna osservare che avrebbe desiderato sapere che linguaggio parlava il Vento”.
“Lo so – disse Barbara. – È sorprendente. E Michele insiste sempre, non l’hai inteso?, che lo Stornello dice: pio, pio, pio. Non sembra capire che lo Stornello non dice niente affatto così! ma parla proprio lo stesso linguaggio nostro. Naturalmente uno non pretende che Papà e Mamma sappiano questo, essi non sanno nulla, sebbene siano così cari, ma tu avresti creduto che Giovanna e Michele capissero”.
“lo sapevano una volta” – disse Mary Poppins piegando una camicia da notte di Giovanna.
“Cosa?” – domandarono insieme Giovannino e Barbara con voce molto sorpresa. – Veramente vuoi dire che capivano lo Stornello e il Vento e…”.
“E quel che dicono gli alberi e il linguaggio del sole e delle stelle. Certo lo capivano. Una volta!” disse Mary Poppins.
“Ma… ma com’è che hanno dimenticato tutto?” disse Giovannino corrugando la fronte e cercando di comprendere.
“Ah” – disse lo Stornello, con l’aria di sapere, alzando gli occhi dalle briciole del biscotto. – Vi piacerebbe saperlo?...”.
“Perché sono diventati più grandi” – spiegò Mary Poppins. – “Barbara, mettiti subito i calzini per piacere”.
Questa è una stupida ragione” – disse Giovannino guardandola severamente.
“È quella vera, però” – Mary Poppins soggiunse legando solidamente i calzini di Barbara intorno alle caviglie.
“Ecco, è che Giovanna e Michele son stupidi” – continuò Giovannino. – Io so che non mi dimenticherò quando sarò più grande”.
“Neanch’io” – fece eco Barbara succhiandosi il ditino con soddisfazione.
“Sì, dimenticherete” disse Mary Poppins con aria sicura.
I gemelli si alzarono su e la guardarono.
“Hum!” – disse lo Stornello, con disprezzo. – “Guardateli! Credono di essere le meraviglie del mondo. Piccoli prodigi. Non credo! Certamente dimenticherete, come Giovanna e Michele”.
“Non dimenticheremo” – asserirono di nuovo i gemelli guardando lo Stornello come se volessero ucciderlo.
Lo Stornello se ne burlò.
“Io dico che dimenticherete – insistette. – Non è colpa vostra, certo – aggiunse più gentilmente. – Dimenticherete perché non potete far nulla in contrario. Non c’è stato mai un essere umano che abbia ricordato dopo l’età di un anno, negli anni più avanzati, eccetto naturalmente se…”. E girò la testa sulla spalla indicando Mary Poppins.
“Ma perché lei può ricordare e noi no?” disse Giovannino.
“A-a-a-h! Lei è differente. Lei è la Grande Eccezione. Non possiamo far come lei” disse lo Stornello, ridendo con ironia.
Giovannino e Barbara tacevano. Lo Stornello proseguì a spiegare:
“Sì, è qualcosa di speciale, vedete. Non per la sua bellezza. Uno dei miei pulcini appena nati è più bello di quel che non sia stata mai Mary”.
“Oh, impertinente” disse Mary Poppins arrabbiata, lanciandogli addosso e buttandogli contro il grembiule.
Ma lo Stornello saltò da una parte e volò sul davanzale della finestra fischiando maliziosamente, ben fuori di mira.
“Credevi di prendermi questa volta, vero?” la canzonò e scosse verso di lei le piume delle ali. Mary Poppins brontolò.
La luce del sole si mosse attraverso la stanza tirandosi dietro la sua scia dorata. Fuori si era alzato un vento leggero e frusciava dolcemente tra gli alberi di ciliegio nel Viale.
“Ascolta, ascolta, il vento sta parlando” – disse Giovannino chinando la testa da un lato. – “Tu dici per davvero che non saremo capaci di udir questo quando saremo più grandi, Mary Poppins?”.
“Lo udirete benissimo – disse Mary Poppins – ma non comprenderete”. – A queste parole Barbara cominciò a piangere sommessamente. E c’erano due lagrime anche negli occhi di Giovannino.
“Ma, non ci si può far nulla. Le cose vanno così” disse Mary Poppins in tono ragionevole.
“Guardali, guardali soltanto!” – li canzonò lo Stornello. – “Piangono da morire! Ma! Uno Stornello nell’uovo ha più cervello. Guardali”.
Infatti Giovannino e Barbara piangevano ora di cuore nei loro lettini, lunghi, profondi singhiozzi di grande infelicità.

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Poco tempo dopo i denti, con grande fastidio, spuntarono, come debbono fare tutti i denti, e i gemelli ebbero il loro primo compleanno.
Il giorno dopo la festa del loro compleanno, lo Stornello che era stato via in vacanza in una città vicina tornò al Numero 17, Viale dei Ciliegi.
“Ohilà, ohilà, ohilà, eccomi qui nuovamente”, – gridò pieno di gioia, atterrando con un piccolo dondolìo sul davanzale della finestra. – “Bene, come la va, ragazza?” domandò sfacciatamente a Mary Poppins, piegando la testina da una parte e guardandola con occhi allegri e maliziosi.
“La tua domanda non mi serve a nulla”, disse Mary Poppins, scuotendo la testa.
Lo Stornello rise. “La stessa vecchia Mary Poppins” – disse. – “Non sei cambiata affatto. Come stanno gli altri, i cuculi?” domandò e guardò attraverso il lettino di Barbara.
“Bene, Barberina – cominciò nella sua sommessa voce smorfiosa, - niente per il vecchio amico oggi?”.
“Ma-mma – ma-mma” disse Barbara ninnandosi dolcemente, mentre continuava a mangiare il suo biscotto d’orzo.
Lo Stornello, con un sussulto di sorpresa, saltellò più vicino. “Dicevo – ripeté più distintamente, – c’è niente per il vecchio amico, oggi, Barbara cara?”.
“Ma-mma, ma-mma”, mormorò Barbara guardando il soffitto, mentre inghiottiva l’ultima briciola dolce.
Lo Stornello la guardò fissamente.
“Ah”, disse all’improvviso e si volse e guardò interrogativamente Mary Poppins.
Gli occhi quieti di lei incontrarono quelli di lui in un lungo sguardo.
Poi rapido come una freccia, lo Stornello volò sul letto di Giovannino e si posò sulle sbarre. Giovannino teneva stretta fra le braccia una grossa pecora di lana.
“Come mi chiamo? Come mi chiamo? Come mi chiamo?” gridò lo Stornello con una acuta voce ansiosa.
“Pa-ppa, pa-ppa”, disse Giovannino, aprendo la bocca e mettendoci dentro la gamba della pecora di lana.
Lo Stornello scosse la testa e tornò via.
“Così è accaduto” disse quietamente a Mary Poppins. Ella assentì. Lo Stornello scrutò per un momento i gemelli con amarezza. Poi alzò le ali screziate:
“Oh, ma sapevo che sarebbe accaduto questo. Lo dicevo sempre. Non volevano crederlo”. – Rimase in silenzio per breve tempo, guardando fisso nei lettini. Poi si scosse con decisione. – “Bene, bene. Debbo andar via. Tornare al mio comignolo. Avrà bisogno di una ripulita primaverile. Avrò daffare”.
Volò sul davanzale della finestra e si fermò, guardando indietro disopra la spalla.
“Mi sembrerà strano, tuttavia, senza di loro. Mi piaceva tanto parlare insieme. Mi piaceva. Sentirò la loro mancanza”. In fretta si passò l’ala sugli occhi.
“Piangi?” lo burlò Mary Poppins. Lo Stornello si drizzò. “Piango? No certo. Ho – eh… – un leggero raffreddore, preso nel mio viaggio di ritorno; è tutto qui. Sì, un leggero raffreddore. Nulla di serio”.
Si diresse sul davanzale della finestra, si lisciò le piume del petto con il becco, e poi – “Ciao” – disse disinvolto. E aprì le ali ed era scomparso.

Da: Mary Poppins di Pamela L. Travers