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giovedì 15 novembre 2012

Il tesoro nascosto



Nel regno del bosco i folletti condividono la loro esistenza con altre entità che sfuggono per definizione alla vista dell’uomo: gnomi, elfi, nani, nanetti e le fate, loro fedeli compagne. Con questi i folletti occupano lo spazio dell’oscuro, dei boschi, delle miniere, delle grotte, più vicino alla forza ctonia della natura che alle grandi manifestazioni di potenza cui sono associate solitamente le figure dei giganti.
Traendo frutti dalle viscere della terra, i folletti hanno rivestito, nella mitologia popolare europea, il ruolo di eroe culturale, cioè di mitica figura cui si dovrebbe la rivelazione di importanti segreti necessari allo sviluppo della civiltà. Tra questi il segreto delle pietre nascoste sottoterra e, quindi, delle miniere e della metallurgia e, per estensione, di tesori che le fiabe vogliono religiosamente custoditi proprio da gnomi e folletti.
Qui, come protettori di tesori, la loro medietà costituisce una virtù: mezzi uomini (ma non sotto-uomini), possono arrivare ovunque, lavorare indefessi nel sottosuolo in condizioni spaventose, comunicare con la natura nella sua intimità più profonda. Nelle grandi saghe mitologiche, quindi, i folletti  conservano la funzione di nume tutelare per i minatori, come in Bretagna, e in generale presiedono all’attività delle fucine di ferro di cui, un tempo, avrebbero insegnato agli uomini tutti i segreti.
Non v’è traccia di tale credenza in Lombardia nonostante l’antichità dell’attività estrattiva e della lavorazione del ferro, che tuttavia si è tramandata per trasmissione generazionale solo per stadi discontinui dall’antichità precristiana a oggi. Troppo poco soccorre una ricerca toponomastica che non ha ancora dato i frutti sperati.
Nella tradizione di Macugnaga, ai piedi del Monte Rosa, ad esempio, si rinvengono ancora folletti che vivono e scavano nelle miniere. Sono i cosiddetti goewling; è suggestivo trovare a Pisogne (Brescia) il toponimo Goen riferito alla contrada dove sorgevano l’alto forno e le fucine del ferro e che, come conclude una guida dell’Ottocento, “rammenta il gowan scozzese, che vale fabbro, e ci porta a tempi molto antichi, per lo meno Longobardi”. Il nome è simile anche a quello di Govannon, il dio fabbro gallese, figlio della dea Don e fratello di Gwydion e Amaethon, che a sua volta era l’equivalente del dio fabbro irlandese Goibniu, figlio della dea Danu, il quale forgiava spade che penetravano sempre con precisione e possedeva l’idromele della vita eterna. Da abile fermentatore fu insuperabile e la sua birra conferiva l’immortalità. Era uno dei tre artigiani dei Tuatha De Danann,, insieme al falegname e carpentiere Luchta e al calderaio Creidhne, dio della lavorazione dei metalli. In realtà Góvine, come la località è indicata nel Dizionario di toponomastica lombarda dell’Oliveri, dialettale Góven, si trova presso una cascatella e deriva da cúen, da cui caverna e Covelo, che è un toponimo presente nei pressi di Iseo. Niente di contradditorio: i folletti prenderebbero nome dalla caratteristica propria di stare nelle viscere della terra e, da qui, cavare ferro, come a Macugnaga.
Un rapporto stretto legava la forgia del metallo con le forze ctonie e soprannaturali: il fabbro (non a caso”uomo nero”, isolato nella mitologia collettiva dal gruppo) era il depositario di misteriosi rituali che demoni e spiriti gli suggerivano per svelare i segreti delle pietre, per trarne il ferro. Il fabbro, quindi, continuava un’opera di creazione che reiterava l’atto stesso che presiedeva alla nascita del mondo; egli riproduceva sulla terra ciò che era attributo di entità non umane, degli dèi.
Lo strumento creato dalla fusione del metallo era dunque implicitamente uno strumento magico di esercizio del potere. Come tale il ferro stesso possedeva un carattere ambivalente e poteva impersonare anche lo spirito del demone che ha presieduto alla stessa creazione del ferro, dalla miniera alla fucina. Il ferro, quindi, si presentava come strumento del male e del bene: era il materiale con cui si costruivano le armi, ma anche il martello e buona parte degli attrezzi che aiutavano nella vita quotidiana e nel lavoro dei campi. Mircea Eliade, concludendo un ragionamento molto più complesso, asseriva che il ferro, sia che lo si ritenga caduto dalla volta celeste, sia che venga estratto dalle viscere della terra, è carico di potenza sacra. Il rispetto nei confronti del metallo permane anche presso popolazioni di cultura avanzata. Tale è il prestigio dell’ultima in ordine di tempo tra le “età del metallo”, l’età del ferro vittorioso la cui mitologia, in gran parte sotterranea, sopravvive ancora in costumi, tabù e superstizioni quasi sempre insospettabili. Rappresenta la vittoria della civiltà, cioè l’agricoltura.
Contro le tempeste si suonavano le campane. L’usanza era ancora viva nel Novecento nelle campagne di Brescia. Si trattava di una delle più note pratiche magiche in funzione apotropaica.
Il valore del gesto non stava nel suono, ma nel materiale della calotta e del batacchio: il ferro, appunto. Il ferro e il metallo in generale, infatti, erano sempre stati riconosciuti come mezzo essenziale per allontanare gli spiriti maligni. La donnola, in Valsassina (Lecco), la cui manifestazione era considerata presagio di pioggia, si scacciava con la semplice esposizione di attrezzi da lavoro (forconi, rastrelli, falcetti), rimedio che serviva anche contro qualche folletto di troppo.
“Toccare ferro” scaccia ancora adesso la sfortuna.
Tarda è la versione leggendaria del Maget che in Valtellina occulterebbe l’oro che trova nelle miniere per non farlo scoprire ai minatori. Abilissimo minatore, una volta estratto questo prezioso metallo con l’aiuto dei suoi validi amici lo nasconderebbe in luoghi sicuri e irraggiungibili dall’uomo, che giudica troppo avido per meritarsi questi tesori della natura. Queste creature sarebbero anche in grado di scatenare pericolose valanghe causando ingenti danni; ma non sono malvagie. Infatti, anche in queste occasioni, cercherebbero di evitare che questi disastri facciano vittime tra gli esseri umani

Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti

mercoledì 14 novembre 2012

I folletti della Lombardia



Tra tutte le creature del Piccolo Popolo forse il folletto presentava e presenta caratteristiche iconografiche meno marcate, soprattutto rispetto a nani, gnomi, elfi e fate – per restare sul piano degli esseri fantastici antropomorfi – che pullulano nel mondo irreale del Medioevo. Il folletto, infatti, c’è ma non si vede mai; se si presenta come una persona è basso di statura (bimbo, fanciullo o mezzo uomo), ma rifugge da ogni contatto con gli uomini. Sicuramente vivace, è di carattere bizzarro, incline allo scherzo, spesso si lascia andare alla burla improvvisa e malvagia; raramente trascende verso l’azione consapevolmente cattiva e scellerata. Solo in parte gli sono attribuite azioni benefiche nei confronti dell’uomo.
Folletto deriverebbe dal latino follis, il cui significato è “cuscino”, “palla”, “pallone pieno d’aria” e dunque, per estensione, un individuo con la testa vuota, privo di senno, un folle per l’appunto. Dalla radice fol, significante “soffio d’aria”, trarrebbero origine altri termini latini come flare, “soffiare, “respirare”, flatus, “soffio”, e gli italiani folle, folata (di vento) e, forse, anche fola e favola. A sostegno di questa tesi concorrerebbero le parlate dialettali: il foulot, in alcune zone della Svizzera, significa “piccolo mulinello che si alza all’improvviso quando l’aria è calma”; in Piemonte fulëtún, fultún e ancora fulét indica un soffio vorticoso; il romagnolo fulë’t è il turbinio della polvere; a Bienate (Milano) folletto è il nevischio e anche il turbine. Appartengono, insomma, a tutta l’area gallo-romanza i tipi folle, follet, feulé, foulet, fouleton, follot ecc. a designare il vorticare dell’aria che solleva dal suolo pulviscolo, terra o neve.
Molte, infatti, sono le associazioni tra il vento e il folletto, che avrebbe la possibilità di nascondersi nelle correnti d’aria, di girovagare per i prati facendo mulinelli d’aria e di svolazzare leggero e impalpabile; tanto che sarebbe facile per lui oltrepassare le serrature delle porte, forzando silenziosamente l’intimità della casa, divenendone uno spirito permanente.
Non a caso sono folletti del vento a Bormio (Sondrio) i Sanzasánch, “senza sangue”. Anche in Valsassina (Lecco) e in Val Cavargna (Como) i geni incorporei della casa sono i Senza os e i Senza sànc, gli antenati veri e propri dei folletti. Secondo la tradizione di Voghera (Pavia) lo Jábolo si aggirerebbe tra le nuvole, cavalcandole, scatenando tempeste e piogge scroscianti.
Nel piacentino, Fulát è un termine con cui si indicano indifferentemente sia i vortici del vento sia gli spiritelli che presiedono agli incubi; in Guascogna (Francia) Fouletun è un venticello dispettoso che può addirittura ingravidare all’insaputa. In Lombardia, questa prerogativa permarrebbe, ma un poco sbiadita, nella predilezione che lo Sgranf, avvistato in provincia di Bergamo, avrebbe di molestare le fanciulle: voyeur impertinente, amerebbe spiare le belle donne mentre si cambiano d’abito o fanno il bagno; grazie alle sue ridotte dimensioni sarebbe in grado di raggomitolarsi su se stesso e nascondersi sotto le gonne per guardare le gambe delle malcapitate (in questo caso come un vero e proprio refolo d’aria); altre volte, per spiare ancor meglio le ragazze, si trasformerebbe in un piccolo gomitolo di lana per farsi raccogliere e nascondere nel seno. Solo allora sarebbe facile sentirlo sghignazzare di piacere.
A Brescia e nel Bresciano, era distinto il Quagg o Squàsuagg o QuaggIQuagg  che disturberebbe il sonno e provocherebbe incubi.
Nel Comasco, in Val Bregaglia (Sondrio) e Valsassina (Lecco), l’Encof indurrebbe a fare brutti sogni; nelle campagne di Bergamo il Gambastorta è uno spiritello che toglie le coperte, fa il solletico sotto i piedi e fa tintinnare i vetri per interrompere il riposo notturno.
Propriamente lombarda è la definizione di Calcatrápole, parente del Calcaròt conosciuto nelle campagne del Veronese, del Trentino e del Bresciano: è un’entità degli incubi notturni perché, alla lettera, calca, preme, schiaccia il petto (come il Quagg/Squàs) e toglie il respiro, come l’onomatopeico Encof. L’Encof, infatti, non si limiterebbe a provocare il delirio onirico, ma si divertirebbe particolarmente ad ostruire il condotto del fumo del camino per asfissiare i contadini con l’ossido di carbonio prodotto dalla combustione del legno.
Presentandosi in sembianze femminili, soprattutto quando è identificata con l’azione di disturbo nel momento del sonno, Encof è l’unica “folletta” della regione: forse la lontana traccia di più maliziosi incubi? In ogni caso, il folletto condivide quest’aspetto con altre creature della mitologia europea: in Germania, Scraettlige o Trude, in Svezia Mare o Marra, in Inghilterra Nightmare, in Olanda Nachtmaer.
I folletti sono domestici. Anzi, proprio in questo settore, si manifesta e in parte si mantiene un attributo fondamentale del folletto: la sua capacità d’intervenire concretamente nel reale.
Non sappiamo dove stava quando non si doveva far vedere; ma non ci si stupirebbe di trovarlo nella stalla, nella cappa del camino o nel solaio: l’Encof, presente nei racconti comaschi, era stanziato nel camino che, come abbiamo visto, spesso ostruiva per dispetto, nell’essiccatoio si stabilivano invece i Büti, i Senza os e i Senza sànc che animavano lo spazio domestico delle case contadine della Valsassina e della Val Cavargna.
Sono questi, infatti, i luoghi dell’abitazione dotati di un’indeterminatezza ricca di significato: casa, ma non casa (solaio, stalla); spazio chiuso, ma in comunicazione con l’esterno, come la cappa del camino, canale d’ingresso rivolto “verso l’alto” prediletto dalle anime dei morti ritornanti, dalla Befana e da Babbo Natale.
A Cadria di Valvestino (Brescia), sui monti alle spalle del Lago di Garda, il feretro del defunto era trattenuto in solaio per tutto il periodo invernale, ufficialmente perché il cimitero più vicino era quello di Magasa, oltre le malghe del Rest e il cammino lungo e difficile; ma certo il solaio costituiva anche il territorio imprecisato per il lungo decorso del morto verso lo spazio indeterminato dell’aldilà. Bàrbiśi l’è sö’l sulér/ch’el comincia a pésta i pè è l’incipit di una popolare canzone piemontese nota anche nella sua versione bresciana. Qui, nella cappa, nel camino o nella stalla, il folletto può occupare uno spazio commisurato alla sua potenza: ancora una volta è nel mezzo del mezzo, tra la casa e l’esterno, tra l’aria e la casa.
Secondo la credenza medievale, non era infrequente il caso in cui una volontà o un’entità superiore comandasse a folletti di stare presso determinate persone o gruppi familiari, in genere per un periodo di tre anni, come accadde nella storiella che si tramandava a Pavia nel Duecento. Di questa dimensione sovrastante non è noto il nome e non pare ricorra qualche particolare racconto che li esaltava come protagonisti.
I Bragöla della Val Carvagna (Como) collaboravano con gli abitanti della valle, soprattutto con le persone che ispiravano loro simpatia, nelle faccende di casa o nei lavori dei campi, in particolare nella mietitura dei prati. Nella stessa valle il mito dei folletti si confondeva con quello dei Pelus di Kongau, essere peloso che popolava il versante occidentale della valle, denominato appunto Kongàu. Anch’essi aiutavano a falciare l’erba nei campi; alcuni, minoritari, a trovare l’oro. I Fulecc di Angolo Terme (Brescia) erano esseri vitali che, secondo i contadini, coprono i prati con polveri magiche in modo da facilitare la crescita di funghi.
Soprattutto in merito ai vari Pelus che circolano nelle leggende delle valli nostrane (oltre Como, anche Germignaga in provincia di Varese), il richiamo è al variegato universo mitologico proprio dell’Uomo Selvatico.
Poco oltre i confini della Lombardia, i folletti avrebbero mantenuta intatta la funzione attiva nei confronti del gruppo entro il quale la leggenda è stata elaborata e tramandata. I Crüsc di Cavagnago (Val Leventina, Canton Ticino) erano caratterizzati dalla piccola statura e dalla manifestazione prevalentemente notturna (uscivano col crepuscolo o di sera, mentre durante il giorno stavano rannicchiati nelle grotte o sotto le rocce strapiombanti) a denotare il carattere schivo. Soprattutto, sarebbero stati fortissimi (e quindi utili per alleviare la fatica del lavoro contadino), malgrado l’aspetto esile e avrebbero conservato il segreto delle erbe e del linguaggio per parlare agli animali.
Più spesso, però, il folletto appare nelle fonti più recenti come spiritello caratteriale. Un censimento napoleonico accertava che nel 1812 era “generale”a Como e dintorni l’opinione su queste creature.
Gli Ana sosana (Bergamo) e Ana sonana (Brescia) lancerebbero rametti e foglie secche nelle pentole di polenta; nella Bergamasca, entità presenti nella casa farebbero scricchiolare i mobili, metterebbero a soqquadro armadi e cassetti, rovescerebbero i secchi d’acqua, nasconderebbero gli oggetti di cui le persone hanno immediato bisogno. Di questo genere sono il già ricordato Gambastorta, e l’Anima Balzaruna che circolerebbe in Brianza.
Il Fulet di Cataeggio e Albosaggia (Sondrio) disturberebbe le capre; avrebbero anche la facoltà di saper imitare la voce umana dilettandosi ad interrompere o confondere i discorsi e a parlare in piena notte, lasciando credere che ci siano persone estranee in casa.
Frequenti sono i dispetti verso i viandanti. I Paledròns si renderebbero invisibili al solo scopo di infastidire i passanti; gli Squass, di cui si novella a Clusone (Bergamo; ma la terminologia si sovrappone a quella bresciana), si prenderebbero gioco degli ubriachi di ritorno dal mercato; i citati Bragöla del Comasco si lancerebbero addosso alle persone che rientrano tardi per i sentieri.
Allorquando il folletto rendesse un dono all’uomo, questo sarebbe destinato a svanire immediatamente o a tramutarsi, quando meno lo si attende, in un oggetto sgradevole. Lo Squàs, ad esempio, si sarebbe tramutato in un asinello che, apparentemente d’aiuto per un’improvvisata viandante sulle pendici bresciane del gruppo di Monte Alino, diventerebbe però sempre più alto fino a disarcionare la povera donna. Saprebbe anche dar vita ad un gomitolo di lana. Chi se ne serviva, trovandolo per caso fuori della chiesa, doveva presto costatare che il vestito completato con esso era soggetto a disfarsi improvvisamente, magari in chiesa e nei momenti più imbarazzanti. Se l’offerta era di cibo poteva divenire addirittura “roba di latrina”, soprattutto quando aveva assunto un invitante aspetto di polenta o di pezzo di carne o di caramelle.
Alcune versioni sono relativamente recenti. I Farfarelli berrebbero la birra nei moderni frigoriferi e spalmerebbero di burro le scale.
I Vissinei di Como avevano una consistenza ridotta a poco più di un alito; visinél, infatti, è in dialetto veronese il turbine, un nome attribuito anche ad un vento impetuoso e improvviso, ma di breve durata, che si alza sulle rive del Lago di Garda; visinèl nella parlata dei contadini del territorio di Bergamo era una parola con significato di “vivace” composta sulla base onomatopeica bis, sibilare (da cui ape, vespa, brulicare, mostrarsi irrequieto, cercare); in milanese bisi-à è pungere, in lombardo visinel è vispo e, ancora, in bergamasco, bislàch è monello.
Nei Grigioni il folletto non è più da solo, ma sciama in grandi stormi da una valle all’altra.
Queste flottiglie volanti, le Cialarere, secondo la leggenda svizzera, spaventerebbero il bestiame inducendo le mandrie a correre all’impazzata da un versante all’altro della valle. Non contenti, questi folletti sceglierebbero anche alcuni bovini per trasportarli magicamente, in una sola notte, fino in Lomellina.
Anche in Val Maggia (Canton Ticino) dispettose creature di puro spirito si divertirebbero a rapire gli armenti. In entrambi i casi la corsa si concludeva con il ritorno dei capi prelevati nei luoghi d’origine.
In Lombardia si racconta di stormi di folletti ad Albosaggia (Sondrio), dove d’una probabile antica storia tramandata localmente rimane una versione recente imbastita con tutti i crismi della mitologia germanica e, quindi, molto affine al pathos descrittivo della Caccia Selvaggia.
A Cataeggio e San Martino, in Val Masino (Sondrio), per salvare le capre dal Fulet gli uomini dovevano brucare un ramo d’ulivo perché lo spettro si dissolvesse prima di aver spinto nei burroni gli armenti. A Gardone Val Trompia (Brescia), per impedire ai folletti si entrare in casa a turbare il sonno, era usanza che le donne tenessero vicino al letto una verga di ferro per batterli alla cieca. Ferro, metallo, rametti di piante odorose bruciati sul camino erano esorcismi spicci che coincidevano con quelli sperimentati da secoli per bandire le streghe e, prima di queste, quelle varie presenze malvagie nella casa che avevano come unico obiettivo principale i bambini.
Erano i Fulecc, altrove compagni delle streghe, che coadiuvavano a scatenare i temporali, designati con un’accezione dispregiativa rispetto ai vezzosi spiritelli dispettosi.
Nel Comasco per scacciare il folletto era necessario porre sulla porta o finestra dalla quale entrava un sacco di miglio o di altri piccolissimi grani. Questi entrando li rovesciava e dovendo prima di andarsene lasciare tutte cose come le aveva ritrovate, era costretto a raccogliere fino all’ultimo grano di miglio e così fuggiva per sempre.
A Parre, nella Bergamasca, ancora negli anni Settanta, per evitare che il folletto mescolasse nel mulino il granturco con il frumento, bastava lasciargli giù un setaccio per la farina, così quando si stancava di contare i buchi perché erano troppi, allora smetteva.
Berbéch è molto diffuso a Bergamo. Ha anche dei compagni: Malésen e Sblésen e con questi combina scherzi di ogni tipo. Sono simili agli spiritelli raccolti nella tradizione di Biella che hanno campi di azione differenziati: il ghignél ride, lo spitásc sculaccia i bimbi, il folét fa lo sciocco, la muleta intreccia criniere e il carchét provoca incubi.
Il Malésen bergamasco sarebbe il tradizionale incubo notturno, infatti si apparenterebbe con Mara e Smara, rispettivamente voci per “folletto” nel Vicentino e nel Bellunese, e con il friulano Smara che vuol dire appunto “incubo”. A loro volta deriverebbero da Marantéga che in Veneto sarebbe una vecchia strega che apparirebbe come spettro di notte; la quale, a sua volta, è una figura parallela a quel Mara della tradizione tedesca, dove è il fantasma che compare nei sogni a provocare i turbamenti. In sostanza, il Malésen potrebbe essere il vero Nightmare nostrano.
I Quertur che vivrebbero al Pian Mergo in Valtellina (Sondrio), sono una specie di fauni silvestri che sarebbero quasi completamente ricoperti di pelo.
Più spesso, uno spiritello dispettoso e molestatore po’ essere smascherato, nonostante i suoi possibili travestimenti, da particolari zoomorfi: è dotato di zampe d’anitra, gambe da gallo e zoccolatura da capra o caprone, attributi che derivava dall’iconografia di divinità pagane (pan, fauni, esseri silvani).
Appartengono a questa categoria il già citato Gambastorta della Bergamasca o lo Zampa de Gal che in Val di Genova, sulle pendici trentine dell’Adamello, si presenterebbe inizialmente sotto forma di un bel giovanotto pronto ad irretire nelle sue danze le giovani fanciulle

Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti

domenica 11 novembre 2012

Il primo folletto d’Italia: a Pavia nel Duecento



Anche in carne ed ossa, è difficile poter vedere direttamente un folletto; anzi, piuttosto permalosetto, se lo si scorge o, peggio, ci si burla di lui, allora scompare. Esili esserucci che possiedono le tecniche della magia avrebbero, infatti, una gran facilità a ridursi in dimensioni infinitesimali. Possono diventare un filo d’erba, una foglia d’albero, un sasso sulla strada, una palla di fuoco, e quindi passare dalle serrature delle porte. Possono assumere le sembianze di un animale, di un attrezzo da lavoro, di piccole luci. Quando sono antropomorfi, sono mezzi uomini. La dimensione che la tradizione attribuisce loro aiuta in questa ricerca dell’invisibilità: generalmente pochi centimetri e mai oltre, se non di poco, il mezzo metro.
Forse la più antica attestazione italiana comprovante l’esistenza di un’entità casalinga assimilabile al folletto risale al racconto duecentesco ambientato a Pavia. In un capitolo del Chronicon imaginis mundi intitolato De quodam miro quod venit in Papia (“Di quanto vedo che succede nella città di Pavia”) un frate della chiesa di San Domenico narrava che un certo spirito, chiamato Martinus, fece una volta la sua comparsa in città nella casa di un tale Anselmo de’ Boccoselli e lì rimase per ben tre anni. Dimostrava particolare attitudine al servizio, era gentile e particolarmente premuroso. Si prodigava come servitore, cuoceva le pietanze, apparecchiava la tavola, rifaceva il letto, badava ai cavalli, teneva persino la contabilità. Costituiva, quindi, una presenza gradita tanto che Anselmo ebbe fama di fortunato tra i suoi concittadini. Il padrone, tuttavia, non ottenne mai la possibilità di vederlo perché lo spirito agiva di nascosto; era possibile solo sentire la sua voce. Ad un tratto, alla scadenza dei tre anni, il folletto gli si rivolse con queste parole: “Signore, cercatevi da voi un servitore perché io non sto più presso di voi”; e così scomparve per sempre dalla casa.
Il racconto costituisce una sorta di adattamento di leggende già da tempo circolanti: se, infatti, non pare che sia mai esistita una famiglia Boccoselli sulle rive del Ticino, è vero che martinus era già considerato nel bagaglio popolare di Pavia come sinonimo di tali realtà domestiche. Non era quindi il nome proprio del folletto, ma un vezzeggiativo, una delle più antiche attestazioni in Italia con cui erano individuate certe creature sostanzialmente viste come diaboliche.
In ogni caso, nonostante la comparazione satanica, lo spiritello conservava intatto il significato di presenza attiva e positiva in relazione all’attività dell’uomo, per nulla maliziosa o dispettosa; anche se, nell’invisibilità e nel brusco scomparire di scena, svelava la sua natura intimamente ambigua.
Vedi anche http://damadiavalon.blogspot.it/2011/03/luomo-cervo-del-carnevale-di.html
dove Martino è sostanzialmente benefico ed è l’equivalente di Pulcinella, una maschera che ricorda, tra l’altro, un folletto o la magia per via del cappello a punta.
Martino, Martinello, altri diminutivi e vezzeggiativi sono tutti modi per indicare il diavolo senza evocarlo direttamente col nome proprio. Una forma di scaramanzia che ancora oggi condividiamo.
L’uso del diminutivo magisterulus, ad indicare la forma familiare del diavolo, è testimoniato nella prima metà del Quattrocento tra le credenze tedesche relative alle streghe con il significato di piccolo maestro. La versione italiana riporta Mestrello o Martinetto o ancora Marinello. “Martino suo moroso” era il demone personale di una strega del Canton Ticino processata nel Cinquecento.
Vari i passaggi attraverso cui lo spirito familiare, sostanzialmente benevolo, divenne spirito maligno, al pari di molti altri demoni, non proprio buoni, di cui pullulano le leggende medievali. Martino, in Italia e in Francia, era nome in genere attribuito ai caproni, poi, per estensione, caprone nel senso comune del termine e, quindi, appellativo per qualsiasi animale dotato di corna; da cui sarebbe transitato al diavolo che volentieri si trasformerebbe in forma di caprone. Altra strada che avrebbe portato all’associazione demonio/Martino sarebbe stata quella che, partendo da San Martino, come protettore dei mariti ingannati (frequentissimo era l’appellativo di “Martino” per designare… un cornuto), portò a collegare il marito ingannato con il consorte di una strega.
Una tra le “colpe” delle fattucchiere, infatti, sarebbe quella di “abbandono del tetto coniugale”. Di notte, in silenzio , si immaginavano le megere sguscianti silenziose dal talamo nuziale per recarsi al sabba dove si sarebbero abbandonate agli accoppiamenti illeciti con il demonio. In periodo di “caccia alle streghe”, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, un rigido costume religioso tacciava dunque le poverette accusate di stregoneria, tra tanti fatti di indicibile scelleratezza (mangiare i bambini; copulare col demonio; abbandonarsi ai piaceri della carne; provocare la morte, risvegliare i turbini del cielo; danneggiare campi e raccolti ecc.), anche di uno dei più gravi reati perpetrati contro la morale e la società: disaggregare, letteralmente, il nucleo familiare.
(Da Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti)

Martino, diavolo, caprone, corna, cornuti… mentre scrivo di folletti, di caproni o di entità denominati Martino, mi viene in mente che oggi è l’11 novembre, la Festa di San Martino!
La tradizione orale, che ormai va scomparendo, richiama spesso “proverbi e detti” (che hanno una consuetudine quasi universale), ricorda fatti, personaggi e leggende, che sono l’espressione di una cultura popolare, che si tramanda con difficoltà ma senza essere cancellata o rimossa dalla memoria. In questo giorno di novembre, in cui si festeggia San Martino, è rimasta l’usanza di assaggiare per la prima volta il vino novello, che può ubriacare, fare cioè scherzi del diavolo, perché fresco, frizzante e quindi ingannatore. Il mosto, già fermentato, ha perso ormai il fondo dolciastro dell’uva, assumendo sentore di vino, ma perché lo diventi veramente, anche nella sostanza, bisogna attendere i mesi di marzo o di aprile. Il proverbio si rifà direttamente al costume del popolino romano, che festeggia l’11 novembre con pranzi e libagioni, come accadeva per il martedì grasso, in quanto successivamente cominciava il periodo liturgico dell’Avvento che prevedeva penitenze, cioè stili di vita contenuti e morigerati. C’è un’altra versione della tradizione di Martino e dei cornuti che non ha a che fare con i caproni e deriva dalla leggenda, presente nella mitologia latino-romana più arcaica, degli amori adulterini di Marte (di cui Martino è il diminutivo), Dio della guerra, e Venere, Dea dell’amore, che sorpresi da Vulcano, Dio del fuoco e marito della Dea della bellezza, furono da lui stesso rinchiusi in una rete di ferro per mostrarli agli Dei e averli quindi testimoni del torto subito. Ma gli Dei dell’Olimpo lo sbeffeggiarono e lo derisero, così la delusione di Vulcano fu ancora più atroce; forse proprio in quella vicenda va collocata l’origine di “un detto” che dura da secoli: “cornuto e mazziato”

venerdì 31 agosto 2012

Il mondo fatato - Fine

Le fate amano anche le pietre in genere e ora voglio parlarvi di due pietre che per esse sono molto significative: la pietra di fata e la bufonite.

La pietra di fata
Esiste una pietra speciale che ci aiuta ad entrare nel mondo feerico: la cosiddetta “pietra di fata”, più nota come staurolite, o staurolito, che deriva il suo nome dal greco stauros, (croce), per via, appunto, della sua forma a croce.
Lo staurolite è considerato un potente amuleto, è utile oltre che per protezione, salute, denaro, per richiamare e risvegliare i poteri degli elementi.
Inoltre riequilibra le carenze e gli eccessi di uno dei nostri quattro elementi nel nostro complesso organismo. Per esempio la ritenzione dei liquidi (elemento acqua), le infiammazioni (elemento fuoco), la decalcificazione ossea (elemento terra), scarsa ossigenazione del sangue (elemento aria).
Gli stauroliti che si intersecano perfettamente producendo croci a bracci uguali sono i preferiti per scopi magici e proprio per il loro legame con tutti e quattro gli elementi e per il loro simboleggiare l’intersecarsi del piano spirituale con quello fisico, sono particolarmente adatti a favorire i contatti con il mondo fatato.

La bufonite
La pietra che invece ci può donare le fate è chiamata bufonite, da bufo, nome scientifico del rospo. Secondo la tradizione infatti queste pietre si formano nel corpo di tale animale.
Alla vigilia del giorno di San Giovanni o durante la notte stessa, oppure in una qualsiasi splendida notte dell'anno, soprattutto quando c'è la luna piena, potete offrire un dono alle Fate. Se donate con cuore sincero, sicuramente conquisterete la loro fiducia ed il loro favore. Preparate un dolce di avena o mettete del miele e del vino in una tazza oppure, ancora meglio, offrite alle Fate un canto, una danza o una poesia creati da voi o che trovate piacevoli. Prima di iniziare dite ad alta voce: "Questo è per le Fate"; ditelo nuovamente dopo aver offerto il dono, cosa che andrà fatta all'aperto, in un luogo appartato, selvaggio e solitario.
Ben presto, probabilmente il giorno dopo, scoprirete che le Fate vi hanno dato qualcosa in cambio; siate vigili, ma non offrite i vostri doni pensando di ricavarne qualcosa né aspettatevi nulla. Rimanete semplicemente all'erta. Sicuramente molto presto scoprirete nella natura un qualche oggetto strano e grazioso, oppure potrete trovare delle monete d'argento. Qualunque cosa troviate, conservatela per sempre, perché si tratta di un dono sacro e vi porterà fortuna e felicità.
Nella maggior parte dei casi l'oggetto che troverete sarà una bufonite, un ciottolo rotondo e venato di disegni splendidi e misteriosi, che sembra mandare bagliori, dalle tinte delicate. Tenetelo con voi e ponetelo sotto il guanciale; secondo la saggezza popolare, queste pietre sono gioielli mistici che si trovano nella testa di un rospo. Coloro che possiedono questa pietra saranno fortunati in amore, saggi nella divinazione e la loro vita sarà benedetta.

(Tratto da Parola di fata di Claire Nahmad)

Beh, una volta chiesi in un forum se qualcuno avesse mai trovato una bufonite, mi rispose una signora raccontandomi che assieme a sua figlia era solita raccogliere sassi dalle forme e colori particolari che poi tenevano in un angolo dell’ingresso, con statuine di fate e gnomi acquistati a Selva, in Val Gardena.
Tra questi ce n'è anche uno ovale, levigato, con sfumature ocra, nero, grigio brillante, che sembra una grossa perla, tipo cammeo... che sia una bufonite o no, è sicuramente bellissimo ed è un dono speciale che proviene direttamente dalla Natura.

Findhorn
La comunità di Findhorn, in Scozia, merita un breve cenno.
È un’associazione nata nel 1962, nota in tutto il mondo per il lavoro svolto con il regno vegetale attraverso la comunicazione sottile con i regni della natura. Findhorn è un paesino su una costa battuta da venti gelidi, il clima e il terreno erano quanto di più inospitale potesse esistere, fino a quando nel 1962 si stabilirono con la propria roulotte Dorothy Maclean, Peter e Eileen Caddy e i loro figli, dopo che erano stati licenziati in tronco. I tre avevano una voce interiore che li guidava: i deva! E grazie a un deva particolare che si definiva "architetto delle forme vegetali" cominciò a crescere miracolosamente, su un terreno di sabbia e sassi, una vegetazione prodigiosa: cavolfiori di 20 kg, fiori alti due metri, frutti di ogni genere, persino tropicali! Mi ha sempre affascinato quello che queste persone sono riuscite a fare grazie all’aiuto degli spiriti di natura, oggi Findhorn è una comunità di 400 persone che attira visitatori da tutto il mondo e che organizza seminari spirituali, le cosiddette “settimane di esperienza”. Spiega Isabella Popani, una delle resource person della comunità: “Il loro principio era l'ascolto interiore e la meditazione, qualunque forma di meditazione. Attraverso questo ascolto interiore, cioè la tua parte più profonda, entri in contatto con tutto quello che ti circonda: se dentro di noi c'è il Tutto, attraverso la parte spirituale, entri in contatto con il Tutto".
 (Ancora il consiglio del folletto Wide-Awake!)








La stella elfica a 7 punte
Desidero parlare di un simbolo molto importante nella spiritualità feerica: la stella a 7 punte o eptagramma. L’eptagramma è un simbolo sacro alla Faery Wicca, secondo questa tradizione, il suo nome è Elven o Stella delle Fate. È un disegno a tratto unico con sette punte, molto importante nell’esoterismo occidentale, simbolizza la sfera di Netzach (tradotto anche Eternità o Vittoria), ossia la capacità di esprimere l’Amore Divino nel mondo, dandogli durata e stabilità, e vincendo gli ostacoli che si frappongono alle buone intenzioni. È costanza e decisione, è il saper vincere, cioè il non inebriarsi eccessivamente della vittoria. È il senso di sicurezza che pervade chi sa di appoggiarsi sul luogo giusto.L'eptagramma è presente anche nel cuore della bandiera della nazione Cherokee, e nella bandiera australiana.Sette è il numero perfetto che unisce popoli e culture di tutto il mondo (i sette pianeti sacri, secondo l’antica astrologia, i sette colori dell’arcobaleno, le sette stelle della principale costellazione dell’emisfero settentrionale, le sette stelle delle Pleiadi, tutte collegate con i sette pianeti sacri, le sette notti di ciascun quarto di luna,i sette chakra, le sette note musicali, i sette piani dell’universo – secondo l’occultismo ci sono quattro piani nell’universo ciascuno corrispondente ai quattro elementi, ma poiché ciascun piano sopra il fisico ha un aspetto superiore e uno inferiore, più uno centrale, dà un totale di sette -, le sette ghiandole endocrine, principali del corpo umano, e così via).

Il sette è associato anche con il magico cerchio, dove abbiamo i quattro quarti o punti cardinali, il Nord il Sud l’Est e l’Ovest, più l’Alto, il Basso (il Sopra e il Sotto della tradizione ermetica, come Sopra così Sotto ): queste sono le sei direzioni che lo sciamanesimo di tutto il mondo rispetta e onora, mentre il centro del cerchio, un luogo di quiete da cui tutte si irradiano, è il settimo punto.

Esso è il “numero fortunato” per eccellenza, foriero di abbondanza e favori, ed è anche associato alla beatitudine e alla completezza spirituale (di qui l’espressione “ascendere, essere al settimo cielo”).

Secondo i pitagorici il sette è il numero perfetto, in quanto risultato della somma di due numeri perfetti, il tre e il quattro, i tre principi e i quattro elementi.





La tradizione fatata
Esiste un libro che attraverso visualizzazioni guidate e viaggi sciamanici ci indica la strada per accedere alla dimensione feerica:
La via delle fate - un viaggio verso mondi inesplorati, di Hugh Mynne, Macro Edizioni.
Hugh Mynne è nato nel 1950 in Inghilterra e si è laureato in studi religiosi presso la University College of North Wales.
Attualmente vive con la moglie in Irlanda, dove conduce seminari sulle tecniche di guarigione sciamanica e coordina un gruppo di studio sulla Tradizione delle Fate.
Oltre agli esseri fatati piccoli e graziosi di cui vi ho parlato finora, esiste un vero e proprio popolo che abita in una dimensione parallela alla nostra in un luogo ben definito:
I Tuatha de Danaan.
Nei fondamenti della via feerica che ci sono stati tramandati dai Celti la razza delle fate è chiamata Tuatha de Danaan, il popolo o le tribù della Dea Dana, una razza spirituale che abitava dimensioni energetiche.
Nel racconto della battaglia di Moytura, messo in forma scritta nel XVI secolo, leggiamo che i Tuatha de Danaan risiedevano nelle isole settentrionali del mondo, dediti allo studio della scienza occulta e della magia, delle arti druidiche e della stregoneria, fino a superare i saggi delle arti pagane.
Il termine “isole settentrionali” designa la vera patria dei Tuatha, nelle dimensioni spirituali.
Essi studiavano in quattro città: Falias, Gorias, Murias e Finias.
Gorias si trovava a oriente, Finias a sud, Murias a occidente e Falias a nord, ma c’è anche una misteriosa quinta città, non menzionata in questo testo.
Secondo Fiona Mcleod (poeta scozzese, vero nome William Sharp,nato a Paisley il 12 settembre 1855, morto a Castello di Maniace in provincia di Catania il 14 dicembre 1905 e sepolto nel piccolo cimitero inglese sempre di Maniace), quattro città sono situate sulle quattro punte del “diamante verde che è il mondo”, la quinta città, che è a forma di cuore, si trova in posizione centrale.
Si tratta di cinque sapienze, i Tuatha acquistarono le loro cognizioni ricollegandosi direttamente a questi cinque punti dell’energia sapienziale dell’universo.
In Feerilandia, ogni cosa, assolutamente ogni cosa, anche gli animali e le pietre, è viva e parla e tutto è permanente, imperituro e immutabile, inoltre ci sono specie di animali che non abbiamo mai visto sulla Terra.
Anche noi siamo collegati a Feerilandia con fibre luminose che si irradiano nei nostri corpi di luce.
I sidhe, il popolo di Feerilandia, sono detti anche popolo della pace, collegandosi ad uno dei significati di Sidhe.
L’inizio della via feerica è segnato da un paradosso: il paradosso dell’oscurità nella luce:

All’inizio era la dea
Che era tenebra e luce…

Sia le esperienze “cattive” che quelle buone devono essere accettate per mano della Dea, la Dea contiene sia luce sia tenebra, e da essa derivano nascita e morte, queste polarità non sono distinte nel suo essere, ma sfumano e si compenetrano l’una nell’altra.
Il mondo feerico è il nostro specchio e ci rimanda anche quegli aspetti bui di noi stessi e del nostro mondo da cui rifuggiamo.
Un tempo eravamo amici di queste creature, dobbiamo riguadagnare la loro fiducia e cooperare con loro e così ci si rivelerà la forma paradisiaca del mondo primordiale.
La tradizione feerica ha sempre avuto i suoi grandi veggenti e maestri, tra i quali Thomas di Erceldoune o Tommaso il Rimatore, Robert Kirk, George William Russell (il cui pseudonimo era A.E.) e il già citato William Sharp (va detto che lo pseudonimo femminile Fiona Mcleod non era solo un espediente letterario, ma una vera e propria seconda personalità psichica, più probabilmente la sua amante feerica).
Il nostro cammino verso la Via delle fate inizia con un esercizio di rilassamento, uno di purificazione, uno energizzante e due meditazioni.
Poi viene spiegato come incontrare il nostro animale di potere e il nostro alleato feerico, che saranno i nostri compagni di viaggio a Feerilandia.
Quindi partiamo con il nostro alleato fatato e il nostro animale di potere verso le quattro città del reame delle fate e in ogni città incontreremo un maestro che ci impartirà i suoi insegnamenti.
I nomi menzionati dei maestri sono gli stessi che provengono dalla mitologia celtica, Morfesa di Falias; Esras di Gorias; Uiscias di Finias e Semias di Murias.
Dalla visita di ciascuna città potremmo aggiungere un oggetto simbolo al nostro altare: una spada o un coltello per Gorias, una lancia o un bastone per Finias, una coppa per Murias, una pietra o un cristallo per Falias.
In ogni caso gli oggetti non dovranno essere di ferro, perché questo metallo suscita l’ostilità del popolo fatato.

Una volta esplorate le quattro città avremo acquisito il potere per poterci dedicare ad altre esperienze nella nostra crescita spirituale, come prenderci un/a amante fatato/a, questo del tutto facoltativo, da fare solo se ci si sente assolutamente pronti/e, pare che se ci stanchiamo di tale amante non ce lo/la toglieremo mai più dai piedi e che ci seguirà ovunque.
Nonostante potrebbe rivelarsi pericoloso, il nostro amante fatato rappresenta la nostra guida all’Illuminazione, ma dobbiamo sempre tener presente un concetto: le fate rispecchiano noi, e noi rispecchiamo loro, ma da entrambi i lati dello specchio ci sono persone reali, non semplici riflessi, e se non si ha anche un partner fisico i flussi energetici risultano squilibrati.
A questo punto della nostra esperienza spirituale potremmo anche cercarci un maestro interiore, se non l’abbiamo già incontrato durante i viaggi nelle quattro città.
Il maestro interiore può essere uno dei quattro veggenti menzionati prima, se ci siamo sentiti attratti dalla personalità di uno di essi, oppure un maestro scelto tra i grandi della tradizione.
Nel regno delle fate abbiamo anche un nostro doppio, il nostro compagno di strada che sopravvive a noi e a noi è preesistente, e viene spiegato come incontrarlo, per armonizzarci con il nostro modello energetico originario.
Infine due grandi iniziazioni da fare solo quando abbiamo eseguito alla perfezione tutte quelle precedenti e ci sentiamo veramente pronti, non prima di aver consultato il nostro maestro interiore: visitare la Valletta di pietre preziose prima di incontrare la Lavandaia al guado.
Dalla Valletta di pietre preziose usciremo rigenerati e porteremo con noi una nuova energia, la Lavandaia al guado è uno degli aspetti di Morrigan, colei che al momento della nostra morte fisica, lava la nostra anima e la prepara alla rinascita, se riusciamo a fronteggiarla ci dispenserà grandi doni, è l’incontro con i nostri scarti psichici, essa ci mette davanti al nostro sé ombra, il matto oscuro, prima carta dei tarocchi.


(Seconda e ultima parte di un mio articolo del 7 febbraio 2008)

giovedì 5 luglio 2012

Il mondo fatato - prima parte




"Dio non lascia nulla di incustodito, ha dato dei custodi alla natura ed a tutte le cose"
Paracelso

Questo è l’inizio di un viaggio nel mondo delle fate, in un mondo che ci appare fantastico ma che è il nostro mondo più autentico, un mondo da cui ci siamo allontanati poiché abbiamo dimenticato di essere figli dell’Universo e di essere tutt’uno con la Natura che ci circonda.
Ma questo viaggio inizia soprattutto all’interno di noi stessi, quello che dobbiamo fare sempre, nella vita di tutti i giorni, è coltivare emozioni positive e sentimenti equilibrati, liberarci dai nostri condizionamenti inconsci e non permettere che emozioni negative quali la rabbia, il risentimento, la paura, l’avidità, il vittimismo, l’invidia, il rancore, la frustrazione o l’egoismo prendano il sopravvento, poiché:
la via delle fate è la via del cuore.
Prima di partire ecco il consiglio di un simpatico folletto, Wide-Awake (Sveglio, Vigilante), il folletto del silenzio, che ci viene incontro dalle carte degli elfi di Tiziana Mattera:
“Vorrei parlarti del silenzio e del suo regno che si estende aldilà dei rumori, oltre ogni frastuono, oltre l’incessante brusio dei pensieri che spesso senza tregua si rincorrono scalmanati accavallandosi… In realtà nessun rumore interviene a interrompere la musica della Vita, neppure il nostro. Quindi facciamo posto all’ascolto ed entriamo nel luogo dove i nostri sensi si dilatano nella pace del cuore... Vorrei aiutarti a ritrovare il Silenzio, a riconoscerne il bisogno in te, perché è in esso che l’anima si sveglia, nella sua quiete serena. Nel Silenzio è possibile prestare attenzione e riuscire a percepire le mille piccole voci sottili di tutte le cose.”

Il popolo fatato
La Natura
è popolata da una quantità di creature, invisibili all'uomo, alle quali, secondo i paesi e gli elementi o i luoghi in cui vivono, sono stati dati molti nomi.
Nella scala dell’evoluzione gli esseri fatati si collocano al di sotto degli angeli o deva, diciamo che nelle schiere dei deva minori, rientrano tutti gli esseri arcani a cui sono stati attribuiti i nomi: elfi, fate, gnomi, salamandre, silfidi, ondine, ninfe, driadi, amadriadi, sirene, nereidi, naiadi, coboldi, folletti, trolls, e via dicendo.
Dobbiamo sempre tener presente che il loro stesso potere viene da piani ancor più elevati, e l'aiuto che possono elargire agli esseri umani è vincolato e subordinato a leggi spirituali che non dipendono da loro direttamente, ma di cui loro possono solo essere esecutori, dietro ordini divini.
Gli esseri inferiori a questo flusso evolutivo possono essere definiti “elementari” perché in modo molto simili agli elementi quasi non hanno sentimenti e, naturalmente, non pensano.




Significato del termine fata
Il termine fata deriva dal latino fatum che può avere il significato di “essere capace di predire o cambiare il futuro" (fatum = fato = destino), oppure di "compagna dei fauni" (dal latino fauna). I fauni erano le divinità campestri, più tardi identificate con il dio Pan.
In inglese la parola fata si traduce in fairy (quando ci si riferisce ad una fata delle favole o ad una fata legata alle leggende popolari) o in faerie (quando ci si riferisce ad un'energia o uno spirito di natura).
Entrambe le parole derivano dal gaelico
 fee o fay/fays.
Un altro termine correlato al popolo fatato è Sidhe (pronuncia shee), il regno ultraterreno del popolo fatato delle leggende celtiche.
Si tratta di una felice immortalità. Significa "pace" ma anche "collina fatata".
Il Sidhe è anche l’Altromondo celtico, un mondo parallelo felice che può essere interpretato sia come mondo invisibile abitato dal Buon Popolo o più semplicemente come l’immagine evocativa del mondo spirituale.
Che aspetto hanno le fate?
Da sempre si narra che le fate possano prendere diverse forme, a seconda del luogo e del momento, ma non solo, anche a seconda di chi sta loro innanzi. La materia di cui sono fatte è così sensibile e fluida da poter essere plasmata in qualsiasi forma, anche dal pensiero e dal sentimento umano, quindi esse possono assumere un aspetto o l'altro a seconda del preconcetto di chi le sta pensando; se sono immaginate bellissime ed eteree così esse diventano e, viceversa, se l’idea che si ha del loro essere è paurosa esse diventano terrificanti e spaventose.
Nella realtà, esse sono splendide sfere di luce pulsante di vari colori che vanno dal bianco, all'azzurro al violetto con sfumature d’oro e d’argento. Le fate sono emanazioni della forza della natura, ad essa legate, proprio per questo motivo i tipi di fate sono diversi e dipendono dall’elemento da cui traggono origine.

A seconda della tipologia avremo dunque:Fate dell’ aria, dell’acqua, della terra e del fuoco.

I gruppi si fondono tra loro, proprio come accade nel nostro mondo solido, dove alcuni pesci possono volare un po’ e certe creature sanno nuotare, ma si tratta comunque di una divisione netta e reale.

Tuttavia tra queste creature esiste un tipo che caratterizza nel modo più assoluto il termine fata: la fata dei boschi o dei giardini, che si può trovare ovunque e varia da un continente all’altro, quanto le nazionalità tra gli esseri umani.
Gli esseri fatati nutrono molto affetto per i bambini, in particolare quelli molto piccoli, per cui uno dei presupposti per entrare in contatto con loro è ritrovare il bambino che è in noi.



Le cose che il bambino ama
rimangono nel regno del cuore
fino alla vecchiaia.
La cosa più bella della vita
è che la nostra anima
rimanga ad aleggiare nei luoghi dove una volta
giocavamo.
Kahlil Gibran


Questi esseri si interessano anche agli esseri umani che apprezzano sinceramente il loro lavoro incessante per rendere bello il mondo che li circonda, sono molto gratificati quando il loro operato viene riconosciuto, e se vedono che li apprezzate, diventano vostri amici e vi possono perfino offrire dei doni, dunque parlate con gli alberi, salutateli, lodate la loro forza, abbracciateli, trasmettete tutto il vostro affetto, o fate i complimenti ai fiori per la loro bellezza o alle erbe per la loro utilità.
E anche quando si è in riva al mare o in mezzo all’oceano si può parlare con le creature dell’acqua, le quali sono molto meno ritrose e timide delle creature di terra e sono sempre pronte a regalarci un sorriso.





Dove ci sono le fate c’è bellezza e felicità!Gli esseri fatati dei boschi e dei giardini, hanno potere sia sul flusso di energia che proviene dalla Terra sia sul flusso di energia che proviene dal Sole, possono ritardarli in alcuni punti, accelerarli in altri, o conferire ulteriore vigore personale quando desiderano farlo mediante tocchi di luce.
Il loro intervento fa la differenza tra una crescita trascurata e una crescita rigogliosa, inoltre le entità che stanno aldisopra di essi, di tanto in tanto controllano come procedono le cose.
Queste creature, pur divertendosi mentre svolgono il proprio compito, amano molto anche giocare, danzare e fare scherzi, inoltre hanno un senso dell’umorismo molto sviluppato, emanano felicità a tal punto da rendere lieti, quando si trovano nella loro sfera d’influenza, anche quegli esseri umani che ne ignorano l’esistenza.
Una differenza fondamentale tra noi e gli esseri fatati è che noi viviamo in un mondo di forme e di oggetti inanimati, ad esempio, quando apprezziamo la bellezza di un albero guardiamo il suo tronco, i suoi rami e le sue foglie, ma non lo concepiamo come un essere vivente, mentre per essi ogni cosa palpita di vita, movimento o sentimento e niente è statico, tutto è dinamico.
Un’altra differenza importante è che le fate non devono lottare per esistere e per essere felici, il loro obiettivo è solo godere, sempre più, della pienezza della vita.
Non c’è senso del bene e del male nel loro mondo, soltanto un grande amore per la bellezza e la perfezione.
Anche in quest’epoca continuano a svolgere il proprio lavoro, ma a causa dell’inquinamento ambientale e al conseguente danneggiamento di tutto ciò che sta loro a cuore, nutrono verso di noi una sempre maggiore diffidenza.
Si sentono molto meno in sintonia con il genere umano rispetto a un tempo, come è facilmente immaginabile, e sono anche molto meno numerose, dato che con la continua costruzione di centri abitati abbiamo sempre di più occupato zone dove un tempo vivevano indisturbate.
Comunque non tutto è perduto, per fortuna stiamo assistendo ad un certo risveglio della coscienza umana e ad una crescente consapevolezza olistica dell’esistenza.
Ma gli esseri fatati non si limitano a prendersi cura del mondo vegetale, un altro loro compito molto importante è quello di intervenire nel nostro corpo emozionale e sentimentale, ispirando le creazioni della nostra mente e della nostra anima.
Per avvicinarci alle fate dobbiamo prima di tutto sintonizzare i nostri pensieri e le nostre meditazioni su musica, poesia e natura, ad esempio salutare con gioia il primo raggio di sole che viene a svegliarci al mattino, perdersi nella bellezza di un panorama, osservare gli stormi degli uccelli in volo, le nubi che corrono in cielo, meditare nella quiete di un’alba o di un tramonto, intenerirsi guardando i cigni e le anatre che nuotano tranquillamente in uno specchio d’acqua, ascoltare in religioso silenzio la brezza tra le foglie degli alberi, sorprenderci di quanta bellezza c’è anche nel più piccolo e umile fiore di campo, ascoltare il dolce suono dei grilli e delle cicale o gioire alla vista di una radura che si apre all’improvviso nel folto di un  bosco, insomma non mancare mai di nutrirci ogni giorno di bellezza, di arte e di poesia.
Esistono poi numerosi incantesimi, metodi, ore, giorni precisi con cui cimentarsi per andare alla ricerca dei nostri piccoli amici.
Ma non è questo lo scopo di quanto sto scrivendo, dove ci troviamo ora è solo un punto di partenza, sono i nostri piccoli preparativi di un viaggio verso meravigliosi mondi paralleli che presuppongono un minimo di equipaggiamento, facile da trovare: basta mettere ogni giorno nel nostro bagaglio di sogni la gioia, la poesia, la musica, il bello, l’arte e tanto amore per tutto quello che ci circonda, un viaggio che è iniziato con il consiglio del folletto Wide-Awake:
cercare il silenzio dentro di noi per ascoltare la musica della Vita!
Sapete, in questi giorni, mi è capitato diverse volte, di smarrire un oggetto, anche se lo avevo visto in un determinato posto e poi di ritrovarlo, dopo affannose ricerche, esattamente dove lo avevo visto.
Anche questo è un segnale, che indica che le fate sono entrate nella mia vita!

(Prima parte di un mio articolo del 7 febbraio 2008, ripescato dalla posta inviata, comparso in diversi siti, non ricordo più le fonti che ho usato e quindi non posso metterle. Questo articolo diverse volte ha peregrinato da un sito ad un altro e nell’ultimo è stato cancellato senza che ne sapessi il motivo e senza il mio permesso, nonostante le molte visite. Ora le fate sono tornate a casa da me e sono anche molto contente di non essere più abbandonate in lidi a loro estranei, mi pare giusto che dove non ci sto io non ci debbano stare nemmeno loro! da notare che ho deciso di tenerle vicino a me martedì 3 luglio 2012, in una notte di luna piena del periodo di San Giovanni/Litha, la loro festa preferita).

CONTINUA:
http://damadiavalon.blogspot.it/2012/08/il-mondo-fatato-fine_31.html



domenica 29 gennaio 2012

Le Salighe – oro in cambio di latte


Le Vergini Selvatiche amano il latte fresco, l’alimento vitale dei mammiferi che è spesso al centro delle loro relazioni e degli scambi con gli uomini e le donne delle valli.
Il loro nutrirsi di latte è un aspetto del loro rapporto con il femminile, cui appartengono, e le cui sapienza ed energia offrono agli altri. Ma il dono del latte viene anche da loro accolto come un’offerta sacra, un “farsi avanti”, che spinge le Salighe a proporre, a chi l’ha presentata, il profondo processo di realizzazione del femminile.
Come è narrato, attraverso la simbologia alchemica, in questa storia.

Una contadina di Meltina (Moelten) mise una sera una grande scodella piena di latte fresco davanti alla finestra perché durante la notte facesse una buona panna. Quando però la mattina seguente volle riprendersi il latte, trovò al suo posto la scodella piena di sangue. Spaventata corse dai vicini e raccontò loro l’accaduto. Le si consigliò allora di provare ancora una volta a mettere, la notte seguente, la stessa scodella piena di latte davanti alla finestra. La donna così fece, e la mattina, quando guardò cosa ne era stato del latte, la scodella era piena d’oro fino all’orlo.

La Donna Selvatica, la sera prima, aveva accolto la tazza di latte come un’offerta, che aveva bevuto fino in fondo. Poi, al posto del latte, aveva messo il sangue. Un dono-proposta inquietante, destinato a mettere alla prova la capacità della contadina di proseguire nel processo di trasformazione iniziato con la precedente offerta (ancora inconscia) alla Donna Selvatica. Il sangue è, come il latte, un liquido organico, ma di colore rosso e quindi naturalmente in grado di evocare e trasformare emozioni più forti, più adulte, a volte decisamente minacciose, anche se più ricche dal punto di vista energetico. Emozioni che, nel processo alchemico, segnano il passaggio dalla fase di inizio della trasformazione, chiamata albedo (la fase del bianco), alla più ricca e feconda rubedo (la fase del rosso). È proprio in questo passaggio, infatti, che avviene ciò che gli alchimisti chiamano il passaggio decisivo dell’”arrossamento del bianco”. Un transito che è carico di significati, anche nella vita di ogni donna: pensiamo, per esempio, allo sviluppo fisico e sessuale, che è segnato, con l’arrivo del mestruo, dall’”arrossamento del bianco”. L’incontro con il sangue (innanzitutto il proprio), in cui si apre per la donna il rapporto con il lato più forte, e anche torbido, dell’inconscio collettivo femminile, è da lei accolto con terrore, nella saga così come spesso nella realtà. E, come è giusto che accada, lei racconta l’avvenimento, il momento che sta attraversando, alla comunità (come la bimba che annuncia alla madre, o alle donne che ha attorno, il suo menarca). Nella saga la comunità svolge il compito che le compete: rassicura la donna e la invita a persistere nella sua azione, che ora diventa a tutti gli effetti un’offerta consapevole, un sacrificio alla potenza sovrapersonale, misteriosa, femminile, che aveva sostituito il latte con il sangue. A questo punto il processo di sviluppo è decisamente avanzato. Si è ormai passati dall’offerta casuale, inconscia, ancora frammista all’aspettativa di un appagamento sul piano materiale del processo organico (metto il latte e ricevo la panna), al consapevole compimento di un’offerta-sacrificio a un’Entità sovrapersonale, di cui si aspetta la risposta con tremore e devozione. Il sacrificio e la devozione all’Altro, a ciò che sta al di là e al di sopra dell’Io, è appunto ciò che consente di oltrepassare anche la dimensione del sangue, dell’arrossamento del bianco, e che apre il passaggio alla fase ulteriore della trasformazione: quella della luce e dell’oro, della ricchezza assicurata dall’accettare una prospettiva di vita che va al di là della materia, dell’Io e delle sue paure. Ecco quindi che quando la contadina, ormai consapevole di essere entrata in contatto con un potere che la trascende, rimette il latte alla finestra, questo può venire trasformato in oro: perché la devozione alla Donna Selvatica, al femminile transpersonale della Natura, ha consentito il transito dalla materia alla luce.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

sabato 28 gennaio 2012

Le Salighe e i fiori


Le Salighe amano i fiori bianchi, che esprimono innocenza di cuore e irradiano la luce, quella diurna come quella notturna, lunare.
Per questo, chi trova i loro rododendri bianchi viene premiato dalle Fanciulle Selvatiche.
Come racconta questa saga.
Sulla malga di Burgeis crescono rododendri bianchi che vengono visti solo dagli uomini innocenti. Chi trova questo fiore lo deve subito coprire e, senza mai distogliere lo sguardo, deve scavare bene sotto la pianta. Lì troverà un grande tesoro.
Più di ogni altro, però, è la stella alpina il fiore preferito delle Salighe, oltre che il simbolo dell’amore verso la loro patria, il Tirolo.
Quando, nelle chiare notti di luna, danzano i loro girotondi sulle rive dei solitari laghetti alpini, una corona di bianchi Edelweiss orna i loro capelli ricciuti. Quella che porta la corona più bella è la regina della danza, e a volte del gruppo.
La stella alpina è il fiore che simboleggia l’elevazione spirituale perché, per arrivarvi, ci si espone al rischio della caduta, del precipitare giù in basso (l’altro volto dell’amore per l’ascensione). Il suo colore bianco rappresenta il colore dell’Anima. E, soprattutto, l’edelweiss ci offre il simbolismo della stella: una totalità, un mandala naturale che possiede un suo centro ben preciso (dunque un’immagine di “centratura”, anche psichica) e che irradia dai suoi petali-raggi una luminosità argentea, lunare. Non stupisce dunque che l’edelweiss sia uno dei doni prediletti delle Salighe. Un dono celebrativo della vita.
Nella valle di Muenster, nell’Engadina, per esempio, le Selvatiche, la sera prima delle nozze, usavano inviare in casa alle spose, almeno a quelle che godevano della loro benevolenza, una corona di stelle alpine e di ruta.
Ma l’edelweiss, con la sua forza simbolica di totalità, è anche in grado di onorare la morte, soprattutto quella delle creature innocenti, la cui Anima ha lo stesso splendore del fiore.
Quando moriva un bambino innocente, infatti, le Salighe si recavano di notte, anche nel più rigido inverno, per ornarne il tumulo ancora fresco con corone di rami d’abete, in mezzo al cui verde scuro brillavano le candide stelle alpine.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono della tessitura e del gomitolo


La Donna Selvatica è anche colei che offre alla donna la possibilità di tessere, mettendole a disposizione i materiali necessari.
Con il dono del materiale di tessitura viene offerta contemporaneamente la materia prima per tessere e, insieme, l’iniziazione al filo e all’ordito, in cui è simboleggiato un tradizionale sapere femminile.
Nella maggior parte delle culture una dea sapiente offre alla donna la tessitura, simbolo della capacità di creare l’ordito della vita, di riunire i fili in un disegno armonioso. In Grecia è Pallade Atena, anch’essa una dea vergine, dunque “intatta”, senza nessuna dipendenza psicologica dell’uomo, che insegna alla donna a tessere, con la sua pazienza e la sua metis (il sapere pratico femminile), la trama della vita. Attraverso la sua capacità di tessere la donna si guadagna, non solo materialmente, l’autonomia: diventa infatti colei che compone la trama della propria storia e, in parte, anche di quella della comunità.
A questo antico tema del sapere femminile della tessitura, della trama, inteso in senso fisico e psicologico, la Donna Selvatica aggiunge però altri due aspetti.
Uno, che incontriamo spesso in queste narrazioni, è ancora una volta quello del segreto: la donna non deve svelare da dove vengono le sue ricchezze, i suoi beni. Il mondo dell’abbondanza femminile, per mantenere tutta la sua energia, deve rimanere tabù, non deve rivelare le proprie fonti.
L’altro, immancabile, è l’allontanamento della riflessione intellettuale negativa e di calcolo: quando finirà?
La domanda sulla fine (figlia della Penuria, vera dea del nostro mondo) esprime sempre la preoccupazione del controllo, che è il contrario dell’affidamento.
Vediamo in queste improvvise interruzioni della ricchezza, provocate appunto dalla domanda sulla quantità del dono, ciò che ogni visione del Sacro ha sempre presentato come necessità dell’affidamento agli dei, o alle forze della Natura Primordiale, il sospetto nei confronti delle quali è già sufficiente ad attenuarne la benevolenza.
Nel cattolicesimo le eterne abbondanze del Sacro compaiono come Divina Provvidenza, spesso rappresentata da immagini di Vergini belle e luminose (suggestiva quella, opulenta, dipinta da Simone di Gaeta e custodita nel Tempio dei Catilinari, dei padri barnabiti, a Roma, cui vengono attribuite proprietà miracolose).
Una versione simbolicamente povera, ridotta a tecnica psicologica, dello stesso concetto di affidamento alla vita e alle sue forze sovrapersonali, è ciò che molta New Age, assieme a diverse correnti psicologiche americane, ha proposto come “pensiero positivo”, o think positive.(Vedi anche: 
http://damadiavalon.blogspot.com/2011/06/le-tessitrici-del-destino.html)

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono vitale: il seme prezioso


Il primo dono della Donna Selvatica è quello che presiede all’origine della vita: il seme. Le Selvatiche hanno in custodia i semi, sanno quando e dove piantarli, nonché come mantenerne la fecondità.

Come racconta questa storia.
Una vecchia e povera donnetta (tutti i suoi averi erano qualche capra e un piccolo campo) pascolava i suoi animali su un terreno assolato, sui rudi pendii rocciosi della Montagna del Sole, la Sonnenberg di Naturno (Naturns).
Da quelle parti c’era una volta il castello dei giganti, ora scomparso, che comunicava con il castello Juval attraverso un ponte di cuoio. È proprio in quella zona che si alza verso il cielo una parete rocciosa rossa, visibile da ogni parte, la Rotwand. Proprio in quel luogo si trovava, da tempi lontanissimi, il regno delle Donne Selvatiche, che amavano le creature umane, le attiravano e le consigliavano bene.
Indebolita dal calore del pieno sole, la vecchia pastora si lasciò cadere su un masso roccioso, che già scottava. Un profondo sospiro uscì dal suo petto; quello era stato proprio un anno malriuscito, durante il quale erano andati distrutti tutti i frutti del campo e l’erba. Le capre, di solito schizzinose, quell’anno dovevano accontentarsi di cardi e spine disseccate, se volevano mangiare almeno qualcosa. La vecchia donna pensava con timore alla carestia che si avvicinava, afflitta per i suoi cari e per sé. Intanto si era lievemente addormentata, per la fame e la debolezza. Di colpo si svegliò e si spaventò enormemente quando si vide circondata da una schiera di donne belle e alte, con capelli lunghi e morbidi, in bianchi vestiti. Erano le Salighe. Una di queste le porse con grazia un cestino pieno di chicchi neri, incoraggiandola ad allontanare paura e preoccupazione e seminare questi chicchi nel suo campo. Da ogni seme sarebbe cresciuto un furto centuplicato e, fino a che fosse stato coltivato bene, alla sua gente non sarebbe mai più mancato il cibo. Così disse e svanì, con le sue compagne, come un raggio di sole. La donnetta sbalordita non ebbe neanche il tempo di ringraziare la bella Selvatica. Portò il cestino con i semi a lei sconosciuti giù nella valle e seminò questi chicchi che non finivano mai non solo nel suo campetto, ma anche nei campi dei contadini nel paese e dintorni. Quando poi le piantine erano cresciute fino alle ginocchia formarono un mare di fiori rosa, dai quali le api prendevano il miele. Prima ancora che le bufere autunnali rumoreggiassero sopra i campi, i cassoni, vuoti di grano e farina, erano ormai pieni di quel buon frutto: il grano saraceno.

Affidati alla Natura, pianta il seme sconosciuto, frutto della terra primordiale, che ti do in mano, caccia il timore della penuria, abbi fiducia nella ricchezza della vita, accolta e coltivata come si deve. Questo il semplice, positivo messaggio della Selvatica. Elementare e insieme fortissimo.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – i loro doni


Con l’arrivo della Donna Selvatica (come pure dell’Uomo Selvatico), compare nella vita dell’individuo e della comunità la dimensione del dono, della gratuità, del libero dispendio di sé.
Le Fanciulle del Bosco sono quelle che donano perché posseggono le energie degli dei, le forze inesauribili del Sacro Naturale.
Così le vede, per esempio, Goethe:

Voi che abitate rocce e alberi
o ninfe salutari
date a ciascuno volentieri, ciò che in silenzio desidera!
[…]
Perché a voi
gli dei hanno dato,
ciò che agli uomini hanno negato,
esseri caritatevoli e consolanti,
con chi si fida di voi. (J.W. Goethe, Solitudine)

Il dono è, infatti, il modo di esprimersi dell’energia delle forze primordiali e naturali, che l’uomo ha sempre vissuto come sacre (tranne in Occidente, negli ultimi duecento anni). E la Natura, come tutto il Sacro si esprime donando, perché possiede energie in eccesso. Come ha osservato lo studioso del Sacro Rudolf Otto: “Il Sacro in semitico, greco, latino e in altre antiche lingue veniva definito solo come eccesso, eccedente, troppo, e non ci si occupava dell’aspetto morale”.
Il mondo delle forze della Natura, del Sacro, è dunque il mondo delle eccedenze, delle abbondanze.
Il mondo del pensiero razionale è invece in gran parte il mondo del calcolo, della misura e del controllo.
La differenza, energetica e psicologica, tra questi due ambienti appare evidente se osserviamo una foresta e una fabbrica. L’organizzazione industriale, infatti, si limita a elaborare, spesso in modo geniale, materie prime o fabbricate dall’uomo. Nell’intervento naturale invece l’aspetto di sovrappiù, di eccedenza rispetto a quanto l’uomo vi mette è assolutamente evidente.
Nel grembo della terra avviene un processo creativo paragonabile, per ricchezza di risultato, soltanto a quanto avviene nel corpo umano, che infatti della Natura fa parte. Il mondo della Natura Primordiale è quindi, innanzitutto, il mondo dell’eccedenza, del sovrappiù, della dismisura tra quanto mette l’uomo (il piccolo seme) e quanto le forze naturali trasformano (il campo, l’albero, la foresta) e aggiungono. Così come possono anche togliere, senza preavviso: è l’aspetto distruttivo del Sacro naturale.
La Natura incontaminata, la Wildins, rappresenta quindi la situazione opposta a quella in cui vive l’individuo della modernità: che è, in fondo, una condizione di penuria, anche se la chiamano di solito ricchezza. L’uomo e la donna della modernità pensano infatti di poter ottenere solo nella misura in cui continuamente investono e calcolano: nulla è dato loro gratuitamente. L’affidamento alla vita – che noi chiamiamo “fatalismo” – è condannato come irresponsabilità: non hai nulla se non con lo sforzo, e non lo mantieni che con un ossessivo controllo della situazione.
Il linguaggio e il comportamento della Donna Selvatica, rappresentante del mondo naturale delle abbondanze, è invece quello del darsi. È attraverso questa donazione che si manifestano le sue energie, le sue possibilità di intervento nella vita degli uomini.
Per la Selvatica è invece tabù, grave violazione al suo carattere sacro, il modo dello scambio mercantile. Il pagamento, i beni che le vengono dati non come offerta sacrificale a una potenza sovrapersonale, ma come compenso personale, utilitaristico do ut des, “do per avere”, la offendono, e provocano subito il suo ritorno nella foresta, nella Wildnis.
La Donna Selvatica rappresenta un femminile non certo fastoso, anzi in genere essenziale, ma che dà, offre in continuazione: lavoro, cose preziose, materie prime naturali. Il suo insegnamento è che sul mondo naturale, di cui lei è espressione, si può contare all’infinito, a condizione di rispettarlo e onorarlo. Essa non può accettare il compenso, che la degraderebbe da rappresentante della Natura Primordiale a interessata prestatrice d’opera. Il pagamento in denaro è ancora più offensivo del dono, che di solito viene accolto con umorismo, come una stupidaggine, anche se fa fuggire le Selvatiche

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger