domenica 23 dicembre 2012

La Befana e il ramo volante



Nelle Befanate profane recitate nel contado toscano il viaggio della Befana è percepito come un volo fantastico, un ritorno da una terra remotissima e vaga:

Tra’ rigor dell’atmosfera
Di libeccio e tramontana,
È qui giunta la Befana,
E vi dà la buona sera.
Da paesi assai lontani,

Dopo un anno a voi ne viene;
Ha sofferto tante pene,
Per sentieri ignoti e strani… .

Come osserva Paolo Toschi, il tema del viaggio della Befana, che giunge volando nel gelo dell’inverno e nell’atmosfera tempestosa, viene ripreso dal Pascoli nella sua ben nota filastrocca, riecheggiante anche nello stile, oltre che nei contenuti, i temi delle cantate popolari:

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Com’è stanca! La circonda
Neve, gelo e tramontana
Viene viene la Befana…

Traspare da queste leggende e immagini consolidate nella tradizione la misteriosa provenienza del personaggio della Befana: essa parte da un luogo remoto, e deve affrontare un lungo viaggio, nonostante la fatica e le intemperie. Altre volte si narra che essa giunge in volo e nello spazio di una notte, a cavallo della sua scopa fatata, attraversa i cieli delle città e dei paesi, in tempo per lasciare i suoi regali a tutti i bambini.
Nelle credenze popolari della Spagna la notte del primo dell’anno le streghe, a cavallo di un fruciandolo, volano fuori dai comignoli. Nelle leggende celtiche si racconta che la notte del primo novembre si può osservare una moltitudine di fate volanti da un colle incantato all’altro, sotto la musica dei campanelli e dei corni degli elfi. In questa notte si possono vedere streghe e maghi che solcano l’aria a cavallo di ramoscelli. Baba Jaga, la strega delle fiabe russe vola dentro un mortaio di ferro, incitando col pestello e spazzando via le tracce con la scopa. Quando lei vola la terra geme, i venti fischiano, le fiere ululano, gli spiriti impuri mugghiano. In queste immagini mitiche gli accessori domestici, i ramoscelli e gli oggetti che i personaggi fantastici recano con sé assumono una chiara funzione dinamica, quali rappresentazioni esplicite del volo immaginario. Altrove i rametti hanno in se stessi il potere di trasportare in volo l’essere divino, come nel mito egizio, dove i rami staccati dagli alberi sacri rivestono il ruolo di mezzi magici atti a trasferire verso luoghi remoti. Un testo delle Piramidi esorta il dio Osiris a servirsi di due rami, uno di ginepro ed uno di cipresso, apprestati dalla dea boomorfa Hathor, per attraversare “la verdissima”, ossia il mare.
Nel rito degli aborigeni australiani Yuin, incluso nelle cerimonie di passaggio alla pubertà, un uomo viene leggermente ricoperto di terra e deposto in una finta tomba. L’uomo si distende su di un letto di foglie, reggendo tra le dita le radici di un piccolo alberello e, quando i candidati al rito d’iniziazione si avvicinano, egli li spaventa facendo tremare la piantina e sorgendo dalla tomba. L’uomo simboleggia la luna, che riappare dopo l’oscurità, e l’albero è quello celeste delle stelle. Per cercare di comprendere il rito non possiamo limitarci alla sola simbologia lunare; è evidente che si tratta di una cerimonia di morte e rinascita inclusa nei riti di iniziazione. In questo caso potremmo forse interpretare la figura dell’uomo come la personificazione di un antenato defunto. Quanto all’alberello, esso è certamente un albero astrale, infatti, se dobbiamo ammettere che in seguito l’albero dalla terra  è passato in cielo ed ha cominciato a volare, bisogna riconoscere che l’interpretazione dell’albero magico quale albero astrale è corretta. Questo albero serviva ad inoltrarsi nel difficile cammino verso l’al di là, ed ha acquisito così una funziona dinamica, divenendo un mezzo di trasporto. Le prerogative del ramo volante hanno subito nel corso del tempo una serie di stratificazioni, tali da offuscare il senso originario. A questo proposito intendiamo riferire alcuni esempi che testimoniano uno stadio intermedio nell’evoluzione del ramo magico. In questo caso il rametto, ormai privo della peculiarità di attrezzo adoperato per “trasferire” lo spirito da un luogo all’altro, viene concepito come puro mezzo magico adottato per costringere lo spirito a manifestarsi. In Germania si credeva che con l’aiuto di un rametto portato in chiesa durante i dodici giorni da Natale all’Epifania, si sarebbe potuta vedere la strega. Similmente, nelle isole Ebridi, il giorno della festa di Santa Brigida, il primo febbraio, si usava raccogliere un fascio di giunchi verdi e tenendoli in mano si invitava la santa ad entrare in casa.
Da questi esempi risulta che, per analizzare più ampiamente la struttura del ramo magico e definirne in modo più esplicito le funzioni inerenti alla figura della Befana, occorre tener presente che il rametto, nell’ambito della festa di Capodanno, accanto alla funzione principale di mezzo per compiere un volo, riveste anche quella di segno evocativo. Le tradizioni europee hanno conservato un riflesso di questa funzione magico-evocativa del ramo, ma possiamo ritrovare analoghe modalità e funzioni del ramo sacro anche presso popolazioni lontane, sempre in corrispondenza del Capodanno.
La grande festa si celebra nello stretto di Bering con lunghi intervalli da una  cerimonia all’altra. Dopo aver preparato una grande quantità di viveri, s’invitano i defunti ad assistere al banchetto Ognuno pianta davanti alla tomba del proprio antenato un bastone d’invito sormontato dall’effige dell’antenato totemico. Questo bastone ha il compito di avvertire il defunto che la festa ha inizio. Mentre risuonano i canti d’invito, le ombre escono dalle tombe e tornano nelle case dei loro congiunti, ove si radunano sulla cavità del focolare o sotto la tavola.
Nell’area padano-veneta si usava esporre fuori della finestra durante i dodici giorni tra Natale e l’Epifania un ramo d’albero sfrondato e con intagli, diverso per ogni bambino o bambina della famiglia. Questa azione veniva compiuta principalmente dal nonno, insieme ai nipoti, e si collocava nelle tradizioni relative all’arrivo della Befana; così come lo era deporre una scarpina o una calza accanto al focolare.
La finalità evocativa, o di richiamo dello spirito, attribuita al bastone sacro e perseguita dai popoli abitanti lo stretto di Bering, viene ulteriormente confermata da una singolare cerimonia compiuta dai Khond, popoli di agricoltori dell’India dravidica, al fine di ricondurre in casa l’antenato. Il decimo giorno dopo la morte, l’anima viene richiamata in casa inducendola a cavalcare un bastone ricoperto da un telo, che viene poi lasciato in un angolo dell’abitazione. In questo significativo rituale troviamo l’immagine esplicita dello spirito che si trasferisce  dal luogo della sepoltura fino a casa dei suoi familiari, a cavallo di un bastone, esattamente come lo sciamano che compie un volo, e come la Befana che fa ritorno nella case con l’aiuto della sua scopa magica. Sia nella cerimonia di Bering, sia in quella diffusa tra i Khond dell’India, la funzione del bastone sacro è di tipo evocativo; tuttavia mentre presso le popolazioni di Bering il bastone d’invito, oltre a rappresentare l’antenato totemico, è anche un segno che indica l’inizio della festa e del rituale commemorativo, per i Khond invece il bastone più che un segnale, è un vero e proprio mezzo di locomozione, usato allo scopo di attirare e trasportare l’anima nel luogo voluto.
Il motivo della scopa intesa quale mezzo di trasferimento dello spirito ricorre in un gran numero di credenze, miti e leggende. Spesso essa è considerata un accessorio dell’antenato, o un oggetto di cui egli si appropria. La conferma dell’esistenza di una simile rappresentazione proviene da un racconto popolare del territorio di Otranto, dove si narra di una massaia che, angosciata dai dispetti del folletto casalingo, “Llaùru”, decise di traslocare. Quando tutto era pronto e la famiglia si accingeva a partire, la donna si accorse che mancava la scopa, andò così a cercarla, ma nell’angolo dov’era la scopa trovò il Llaùru che le disse. “Andiamo, andiamo, questa qui la porto io”. Lo spirito domestico manifesta qui esplicitamente la sua intenzione di trasferirsi nella nuova casa, portando con sé la scopa. Il tema di questa facezia familiare trova tuttavia un fondamento concreto nelle consuetudini di varie popolazioni. In Algeria, ad esempio, è considerato di cattivo augurio introdurre una scopa nuova in una casa nuova. Al momento del trasloco, dopo aver fatto i sacrifici ed i riti propiziatori, si trasportano le ceneri  le spazzature della casa precedente, insieme agli utensili e alle vecchie scope.
Talvolta si usava lasciare delle scope sulle tombe, affinché le anime, aggrappandosi ad esse potessero tornare sulla terra. Un esempio di questa usanza si può trovare in un rituale di commemorazione dei defunti in Bielorussia. Nel rituale autunnale i familiari, dopo aver fatto il bagno e aver preso con sé della legna ed una scopa, si recavano alle tombe dei propri defunti e vi accendano il fuoco, poi spazzavano la tomba e vi lasciavano sopra la scopa, affinché l’ombra, quando i vivi avrebbero lasciato il cimitero, potesse rimettere in ordine la sua tomba.
In questo rito l’anima viene evocata mediante un fuoco acceso, mentre l’azione di lasciare la scopa presso la tomba viene giustificata con l’esigenza del defunto di rimetterla in ordine. Certamente si tratta di una spiegazione etiologica a posteriori, quando il significato  del rito rimaneva ormai oscuro. In realtà è possibile scorgere in quest’usanza rituale una originaria modalità di invito, simile a quella già esaminata presso i Khond: l’anima dell’antenato veniva invitata a lasciare la tomba per ritornare a far visita ai vivi e, collocandovi un bastone magico, si dotava l’anima di un mezzo per raggiungere in volo la propria casa.
La caratteristica peculiare della scopa è quella di pulire e purificare un ambiente, raccogliendo ed ammonticchiando la spazzatura. Vi erano una volta delle scope speciali che servivano per raccogliere i chicchi di grano sparsi sull’aia dopo la battitura dei covoni, le cosiddette “scope cranare” o “scope ranare”, come ancora oggi vengono definite nell’Italia meridionale. La scopa rustica è detta in Piemonte dvigia, in Lucania riviglia, voci risalenti al lat. vilis, it. “vigliare”, separare il grano da elementi nocivi. Le spazzature dell’aia avevano per i primi agricoltori delle proprietà magiche, le medesime che si attribuivano ai rifiuti domestici. Si tratta di proprietà arcane e misteriose. I beduini della Tunisia evitano di spazzare la casa o la tenda dopo il tramonto, per non offendere i geni che errano di notte. La stessa credenza si ritrova anche in Sicilia, in Sardegna e nell’Italia centrale. In Bassa Bretagna non si usa spazzare la casa di sera, per timore di scacciare i trapassati, o di gettarli fuori dalla casa insieme alla polvere. È interessante anche un’usanza della Romania, dove è proibito spazzare, prestare il fuoco, e portare via le ceneri dalla casa, durante le feste dedicate agli antenati protettori della famiglia.
Dopo aver indicato il senso di trasferimento nello spazio, insito nel ramo magico, osserviamo che questo movimento si definisce come un allontanamento dell’anima al termine della festa, mediante lo stesso ramo dotato di poteri apotropaici.
Durante i cortei di Capodanno in Austria, uno “spazzino” precedeva le maschere e ripuliva il luogo dove si sarebbe svolta la rappresentazione. Una traccia di queste arcaiche tradizioni la ritroviamo nell’opera shakespeariana Sogno di una notte di mezza estate, dove il folletto Puck, all’inizio della rappresentazione scenica, afferma di essere stato “inviato innanzi con la scopa per spazzare la polvere dietro la porta”.  A questi motivi si può ricollegare anche il gioco detto dell’aguinaldo, organizzato dai giovani della Galizia il primo dell’anno. Essi facevano il giro delle case recando con sé delle scope, con le quali spazzavano accuratamente il pavimento prima di andare via.

Da: L’incanto e l’arcano. Per una antropologia della Befana di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco


martedì 18 dicembre 2012

Sorellanza



Sospese a fievoli sussurri portati dal Vento
Siamo le figlie della Sacra Isola dei Meli
Siamo il Canto che proviene da oltre i Veli
Dai profondi abissi osserviamo la Storia
Siamo
la Voce che incanta la Luna e ne conserva memoria,
Siamo della fonte arcaica il richiamo sopito
Siamo l'alito che alimenta il fuoco del Calderone Antico
Custodi della Coppa...
Reggenti della Spada del Mito.
Ammantate di piume lucenti
Abbiamo ali tenere ed evanescenti
Al calar delle Tenebre
Doniamo Notti Incantate
E in luoghi segreti danziam con le Fate
Siamo la Notte di Stelle ammantata
Siamo la Voce che annuncia l'Alba incantata
Siamo il fiore che a Maggio avrai colto
Siamo d'Estate il Sogno per un Buon Raccolto
Siamo in Autunno la foglia che cade leggera
Presenti all'inizio e alla fine di ogni Era
Siamo il ricordo di un sommerso Mito Ancestrale
Sorelle nel Cerchio della Triplice Spirale

(Sussurro portato dal vento da una Sorellanza di Avalon di cui si è persa traccia nel web)

lunedì 10 dicembre 2012

Lombardia, terra di draghi



Nella seconda sala del Castello Sforzesco a Milano si conserva un frammento del XII secolo raffigurante draghi e serpenti. Nella sala VI troviamo invece una effige del tardo XII secolo e che in passato era apposta sul pilastro centrale della Porta Romana della città. Si tratta della figura di un guerriero che in molti associano a Federico Barbarossa con ai piedi un drago. Nella XII sala vi è la Cappella Ducale, voluta da Galeazzo Maria Sforza, dove sono affrescati anche gli stemmi del Ducato con il biscione.
Uscendo dalla sala della Pietà, si accede invece ad un cortile i cui quattro lati sono chiusi dalle mura in mattoni rossi del castello. Si tratta del “cortile della fontana” dove, ovviamente, sgorga acqua dalle fauci di un drago.
Al primo piano del museo si trova un ennesimo drago, questa volta ucciso da San Giorgio, dipinto su un cassone contenente oggetti nuziali del XV secolo.
Durante le Crociate nacque un importante simbolo milanese, probabilmente il più famoso: il “biscione”. Si narra che Ottone I Visconti, comandante di un esercito di settemila soldati lombardi, affrontò a duello alle porte di Gerusalemme il nobile e temibile saraceno Voluce. Il saraceno combatteva sotto l’insegna di un serpente nell’atto di divorare un bambino od un giovane uomo. Ottone lo sconfisse uccidendolo con un fendente di spada e, per celebrare la vittoria, s’impadronì di quel simbolo sostituendo però il bambino tra le fauci con un saraceno rosso e da allora, a partire dall’XI secolo, compare nello stemma dei Visconti, quindi della loro Signoria, poi anche in quello degli Sforza quando, imparentandosi con loro, succedettero alla guida dello Stato Milanese; il simbolo fu soppresso da Napoleone e poi ripreso
 
inquartato al leone di San Marco nello stemma del Regno Lombardo-Veneto.
È indiscutibile che il simbolo affondi le sue radici nella notte dei tempi e in un contesto ben più vasto della storia di una singola famiglia. Come è altresì indiscutibile che la sua collocazione geografica vada ben al di là delle ristrette mura della città di Milano, abbracciando tutti i territori del vecchio Ducato di Milano (Canton Ticino compreso, dove addirittura è anche lo stemma araldico della città di Bellinzona).Quando il 5 settembre 1395 Gian Galeazzo Visconti viene elevato al rango di duca da Venceslao, Imperatore del Sacro Romano Impero, aggiunge nel vessillo al biscione il simbolo stesso della nazione germanica: l’aquila imperiale nera in campo d’oro.Nella basilica di San Marco a Milano, situata nell’omonima piazza, sull’architrave della finestra a bifora a sinistra della facciata, si nota la figura di un drago. Anche all’interno del museo della chiesa (attualmente chiuso al pubblico) si poteva vedere un quadro trecentesco raffigurante un’orribile lucertola gigante.Probabilmente il fatto è legato alla leggenda del drago Tarantasio e del lago Gerundo, o Gerundio, o Girondo, il cui nome deriva da gera, che significa ghiaia in dialetto lombardo, per indicarne il fondo ghiaioso, così come il paese di Gera d’Adda, che sarebbe sopravvissuto fino al 1200. A questo secolo risalgono infatti le prime fonti scritte, anche se, già allora, un tono leggendario aleggiava intorno a questo bacino.Nei fatti si ritiene, oggi, che fosse nient’altro che un insieme di paludi e acquitrini formatisi nelle depressioni della media Pianura Padana e nei quali si riversavano gli irregolari corsi discendenti (Adda, Oglio, Serio, Lambro). Se ne avrebbe qualche testimonianza indiretta anche in epoca classica: il tracciato della via Emilia, in partenza da Milano verso Bologna, era, in corrispondenza del territorio lodigiano, in rilevato per mantenere all’asciutto il transito. L’anarchia della regolamentazione delle acque, tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo, avrebbe concesso in seguito a questo instabile sistema idrografico di alimentarsi e dilagare anche oltre le dimensioni originarie.

Sulla base delle descrizioni due-trecentesche ne sono state stabilite le dimensioni. Sostanzialmente poco profondo, lo specchio d’acqua sarebbe stato molto esteso e avrebbe presentato una lunghezza in senso sud-nord di 50 chilometri e una larghezza in senso est-ovest di 35. Nel variegato magma acquitrinoso emergevano isole piuttosto allungate e disposte in senso parallelo ai corsi d’acqua, ossia tendenzialmente da nord a sud. Su queste “asciutte” si stanziarono i primi insediamenti umani e sorsero in seguito le principali città: Crema (sull’isola Fulcheria) e Lodi sul colle Eghezzone o Enghezzone.
Da quel lago, proiezione leggendaria all’origine di molti luoghi (come sedi stabili e sicure rispetto a quel mare), sarebbero in seguito emerse una pletora di creature mostruose che avrebbero assediato città e villaggi. Draghi, principalmente, ma anche coccodrilli e serpi, ognuna con un alito mefitico e pestilenziale che personificava la non certo florida situazione sanitaria derivante dalle acque stagnanti.
Tra le tante creature mostruose e malefiche, Tarando, Taranto o Tarantasio è certamente il drago per eccellenza di Lombardia. Erano infatti di un drago, o almeno così si volle credere, quell’insieme di ossa recuperate a Lodi nel 1300, venerate per secoli come emblema della vittoria possibile contro il male spirituale e l’insidia fisica di malattie e pestilenze, emanate da un sistema territoriale certamente malsano e potenzialmente sempre infettivo.
Narrava dunque un “reportage” trecentesco (giunto però anch’esso attraverso numerose trascrizioni seicentesche) che da un’ampia distesa di acque stagnanti che stringevano d’assedio Lodi nacque all’improvviso “un drago, un enorme serpente… che spirava un fetore intollerabile, e pestilente, ch’era bastevole a privar di vita gl’infelici Cittadini”.
Tarantasio sembra avesse il corpo di serpente, la testa enorme di un sauro, corna smisurate, una coda infinita e zampe palmate. La sua tana era nel profondo inaccessibile di quel mitico mare Gerundo alla cui superficie s’affacciava eruttando fuoco dall’enorme bocca e sputando fumo dalle narici. L’ultima apparizione dello spaventoso rettile sarebbe avvenuta nella notte di San Silvestro del 1299 e si dissolse nel nulla con le acque del mare il Capodanno del 1300 grazie all’intercessione di San Cristoforo.
Per perorare la causa dell’intervento del santo si fece avanti il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che indisse “novena pubblica con la promessa di erigere, cessata l’epidemia, che già tanti morti aveva causato, un grande tempio in onore della Santissima Trinità e di San Cristoforo”. Nei primi giorni del 1300 le acque si ritirarono ed ebbe fine ogni pestilenza; nella palude miracolosamente prosciugata fu rinvenuta una “costola colossale” subito attribuita alla fantomatica creatura. La liberazione dalla pestilenza, esemplificata nella leggenda dalla morte del drago e dal conseguente prosciugamento della malsana fossa, fu festeggiata con l’adempimento del voto e la costruzione dell’edificio sacro dentro il quale fu conservato a lungo il “grand’osso del sopradetto Serpente o Dragone”.
Si pensava che la tremenda creatura vivesse nelle viscere della terra al di sotto della rocca di Soncino (Cremona), dove era stato seppellito un feroce tiranno ghibellino, o che fosse stato ucciso non da San Cristoforo, ma da Federico Barbarossa. In tutte le varianti all’uccisione del mostro sarebbe seguito il ritiro delle acque, la scomparsa del lago e il conseguente recupero di immense terre da coltivare.
Nella Chiesa di San Cristoforo, che oggi presenta il raffinato aspetto conferito da Pellegrino Tibaldi nel 1564-86, fu a lungo conservato un reperto osseo di straordinaria lunghezza appeso alla volta e oggetto di grande venerazione almeno fino all’Ottocento, quando si stabilì inoppugnabilmente la natura non fossile della reliquia. Nella chiesa si sarebbero conservate anche due tavolette di marmo, murate, ma andate disperse assieme al grande reperto, su cui era scritto: serpente che appestava Lodi e che per l’intercessione del Santo Cristoforo nella calenda di gennaio ucciso il drago e prosciugato il lago ove viveva.
Il nome di Tarantasio pare ricalcato su quello della Tarasca, il cui mito Opicino de Canistris importava a Pavia proprio nel corso del Trecento.
La Tarasca è il più noto tra i mitici mostri d’origine celtica, la cui credenza era diffusa in tutta Europa a tal punto che, al mito, alcune città associarono simbolicamente la loro stessa origine, la raffigurazione araldica e, addirittura, il nome: due Tarascona in Francia, una nella regione francese dell’Ariège, a nord dei Pirenei, l’altra presso Avignone; Tarasca in Ucraina. Si trattava di un vero e proprio drago: viveva nelle paludi; si cibava di carne umana; sputava fiamme dalla bocca. L’immaginario collettivo lo dipinse come tartaruga corrazzata e squamosa dotata di testa di leone.
Nella località di Tiolo (Sondrio), una leggenda raccontava di una creatura detta serpen co la gresta, un misterioso rettiliforme caratterizzato, come lo stesso nome denuncia, da una grande cresta sul capo e da piedi palmati. Le sue dimensioni sono sovrannaturali. È una delle più straordinarie creature scaturite dall’amalgama di più differenti animali: serpe, maiale, gallo, anitra. Si tratta di una bestia dalle dimensioni grassottelle prossime a quelle di un porcellino; sarebbe serpentiforme, avrebbe una cresta di gallo e le zampe anteriori palmate come quelle di un anatroccolo; sulla schiena la pelle assumerebbe colore rossiccio. Difficile stabilire la sua appartenenza alle diverse categorie dell’immaginario fantastico: il suo stanziamento presso una fonte (la località per lo sgradevole incontro era fissata alle “Tre Fontane”) l’apparenterebbe all’universo mitologico dei serpenti e dei rospi come custodi di sorgenti d’acqua vitale, mentre sulla complessità della raffigurazione concorrerebbe certo la vasta fortuna del leggendario gallo basilisco e di altre creature scaturite dal fantastico. I suoi poteri erano sconfinati. Bruciava l’erba e tutte le piante nell’intorno con il solo alito (più serpe-drago che Basilisco vero e proprio), ma ipnotizzava con lo sguardo (come il Basilisco). Chi era soggetto all’immobilizzazione veniva irrimediabilmente ucciso dalla bestia che approfittava per succhiare il sangue della vittima.
Non è l’unica creatura di Lombardia che succhia sangue, ma è in buona compagnia del Brocòloco della Lomellina. Questo è, tuttavia, evanescente spirito di un morto.
Un reperto “di drago” si conserva nel santuario di Santa Maria Annunziata a Ponte Nossa (Bergamo) almeno dal 1594. La pelle di un “coccodrillo” si trova nel Sacro Monte di Varese; una costola di un mostro penzola dal soffitto della chiesa di Almenno San Salvatore (Bergamo); altre nel santuario della Beata Vergine di Paladina (Bergamo) e nella chiesa di San Bassano a Pizzighettone (Cremona).
Nella campagne attorno a Mantova persistette a lungo l’usanza di decorare i carri agricoli con caratteristiche raffigurazioni di rettili e di dragoni.
L’associazione drago/tempesta, da cui deriva quella drago/acqua e più in generale drago/forze della natura, risale all’antichissima forma di rappresentazione degli elementi naturali, in sembianze di animali, di matrice indo-europea, secondo un principio primigenio che portava, istintivamente, a rivestire delle forme della vita reale gli agenti misteriosi che governavano l’universo soprannaturale.
Il drago era anche associato alla pioggia e come tale, con accezione positiva, il sostentamento che dal cielo discendeva sui campi. Per questo nella tradizione del nord Italia si conservano alcuni modi per indicare l’arcobaleno associandolo al mostruoso rettile. “Drago”, infatti, è l’iride variopinta secondo l’accezione diffusa in un arco geografico compreso tra la Valle d’Aosta e il Novarese e che sopravvivrebbe anche in una ristretta area geografica attorno al Lago Maggiore.
In Canton Ticino si chiama correggia, o cintura, coda, chiave, segno, riga, arco, unghia, albero o ponte “del drago”. Nel territorio di Pavia è detto tarfin che si assocerebbe a delfì, dolfi e delfenà del Bresciano e al dalfinà di Solferino (Mantova): il lampo, il baleno. Il riferimento al delfino, e non ad un serpente, sarebbe comunque un impiego precedente a “balena” (da cui balenare) per indicare una sorta di animale/demone che la mitologia popolare traeva da una simbologia antichissima e non relativa al guizzo improvviso di agili creature sulle onde luccicanti. Il delfino o la foca, infatti, erano animali semiantropomorfi dotati di caratteristiche umane. Per Apollonio Rodio il Delphŷnê era, per esempio, il drago che nell’antica Grecia faceva la guardia alla fontana di Delfi. Nei bestiari e nelle summae enciclopediche medievali il delfino era l’animale che aiutava l’uomo quasi come un fratello.
Infine, nella pur complessa mitologia asiatica – dalle quali oggi traiamo buona parte delle raffigurazioni di “dragoni cinesi” – l’arcobaleno era il serpente emerso dal mondo sotterraneo. L’arcobaleno come “drago” sarebbe dunque una delle più antiche fasi di formazione del significato stesso di arcobaleno, impersonato in un animale di spaventose dimensioni che berrebbe l’acqua che viene al termine della pioggia, apportando, con il sole, un beneficio. Per estensione, quindi, il “drago” è la bestia che beve l’acqua dal mare o dai laghi.

Da: Milano, misteri e itinerari insoliti tra realtà e leggenda di William Facchinetti Kerdudo