Nella seconda sala del Castello Sforzesco a Milano si conserva un frammento del XII secolo raffigurante draghi e serpenti. Nella sala VI troviamo invece una effige del tardo XII secolo e che in passato era apposta sul pilastro centrale della Porta Romana della città. Si tratta della figura di un guerriero che in molti associano a Federico Barbarossa con ai piedi un drago. Nella XII sala vi è
Uscendo dalla sala della Pietà, si accede invece ad un cortile i cui quattro lati sono chiusi dalle mura in mattoni rossi del castello. Si tratta del “cortile della fontana” dove, ovviamente, sgorga acqua dalle fauci di un drago.
Al primo piano del museo si trova un ennesimo drago, questa volta ucciso da San Giorgio, dipinto su un cassone contenente oggetti nuziali del XV secolo.
Durante le Crociate nacque un importante simbolo milanese, probabilmente il più famoso: il “biscione”. Si narra che Ottone I Visconti, comandante di un esercito di settemila soldati lombardi, affrontò a duello alle porte di Gerusalemme il nobile e temibile saraceno Voluce. Il saraceno combatteva sotto l’insegna di un serpente nell’atto di divorare un bambino od un giovane uomo. Ottone lo sconfisse uccidendolo con un fendente di spada e, per celebrare la vittoria, s’impadronì di quel simbolo sostituendo però il bambino tra le fauci con un saraceno rosso e da allora, a partire dall’XI secolo, compare nello stemma dei Visconti, quindi della loro Signoria, poi anche in quello degli Sforza quando, imparentandosi con loro, succedettero alla guida dello Stato Milanese; il simbolo fu soppresso da Napoleone e poi ripreso inquartato al leone di San Marco nello stemma del Regno Lombardo-Veneto.
È indiscutibile che il simbolo affondi le sue radici nella notte dei
tempi e in un contesto ben più vasto della storia di una singola famiglia. Come
è altresì indiscutibile che la sua collocazione geografica vada ben al di là
delle ristrette mura della città di Milano, abbracciando tutti i territori del
vecchio Ducato di Milano (Canton Ticino compreso, dove addirittura è anche lo
stemma araldico della città di Bellinzona).Quando il 5 settembre 1395 Gian Galeazzo Visconti viene elevato al rango di
duca da Venceslao, Imperatore del Sacro Romano Impero, aggiunge nel vessillo al
biscione il simbolo stesso della nazione germanica: l’aquila imperiale nera in
campo d’oro.Nella basilica di San Marco a Milano, situata nell’omonima piazza,
sull’architrave della finestra a bifora a sinistra della facciata, si nota la
figura di un drago. Anche
all’interno del museo della chiesa (attualmente chiuso al pubblico) si poteva
vedere un quadro trecentesco raffigurante un’orribile lucertola gigante.Probabilmente il fatto è legato alla leggenda del drago Tarantasio e del lago
Gerundo, o Gerundio, o Girondo, il cui nome deriva da gera, che significa ghiaia in dialetto lombardo, per indicarne il
fondo ghiaioso, così come il paese di Gera d’Adda, che sarebbe sopravvissuto
fino al 1200. A
questo secolo risalgono infatti le prime fonti scritte, anche se, già allora,
un tono leggendario aleggiava intorno a questo bacino.Nei fatti si ritiene, oggi, che fosse nient’altro che un insieme di paludi e
acquitrini formatisi nelle depressioni della media Pianura Padana e nei quali
si riversavano gli irregolari corsi discendenti (Adda, Oglio, Serio, Lambro).
Se ne avrebbe qualche testimonianza indiretta anche in epoca classica: il
tracciato della via Emilia, in partenza da Milano verso Bologna, era, in
corrispondenza del territorio lodigiano, in rilevato per mantenere all’asciutto
il transito. L’anarchia della regolamentazione delle acque, tra la tarda
antichità e l’Alto Medioevo, avrebbe concesso in seguito a questo instabile
sistema idrografico di alimentarsi e dilagare anche oltre le dimensioni
originarie.
Sulla base delle descrizioni due-trecentesche ne sono state stabilite le
dimensioni. Sostanzialmente poco profondo, lo specchio d’acqua sarebbe stato
molto esteso e avrebbe presentato una lunghezza in senso sud-nord di 50 chilometri e una
larghezza in senso est-ovest di 35. Nel variegato magma acquitrinoso emergevano
isole piuttosto allungate e disposte in senso parallelo ai corsi d’acqua, ossia
tendenzialmente da nord a sud. Su queste “asciutte” si stanziarono i primi
insediamenti umani e sorsero in seguito le principali città: Crema (sull’isola
Fulcheria) e Lodi sul colle Eghezzone o Enghezzone.
Da quel lago, proiezione leggendaria all’origine di molti luoghi (come sedi
stabili e sicure rispetto a quel mare), sarebbero in seguito emerse una pletora
di creature mostruose che avrebbero assediato città e villaggi. Draghi,
principalmente, ma anche coccodrilli e serpi, ognuna con un alito mefitico e
pestilenziale che personificava la non certo florida situazione sanitaria
derivante dalle acque stagnanti.
Tra le tante creature mostruose e malefiche, Tarando, Taranto o Tarantasio è
certamente il drago per eccellenza di Lombardia. Erano infatti di un drago, o
almeno così si volle credere, quell’insieme di ossa recuperate a Lodi nel 1300,
venerate per secoli come emblema della vittoria possibile contro il male
spirituale e l’insidia fisica di malattie e pestilenze, emanate da un sistema
territoriale certamente malsano e potenzialmente sempre infettivo.
Narrava dunque un “reportage” trecentesco (giunto però anch’esso attraverso
numerose trascrizioni seicentesche) che da un’ampia distesa di acque stagnanti
che stringevano d’assedio Lodi nacque all’improvviso “un drago, un enorme
serpente… che spirava un fetore intollerabile, e pestilente, ch’era bastevole a
privar di vita gl’infelici Cittadini”.
Tarantasio sembra avesse il corpo di serpente, la testa enorme di un sauro,
corna smisurate, una coda infinita e zampe palmate. La sua tana era nel
profondo inaccessibile di quel mitico mare Gerundo alla cui superficie s’affacciava
eruttando fuoco dall’enorme bocca e sputando fumo dalle narici. L’ultima
apparizione dello spaventoso rettile sarebbe avvenuta nella notte di San Silvestro
del 1299 e si dissolse nel nulla con le acque del mare il Capodanno del 1300
grazie all’intercessione di San Cristoforo.
Per perorare la causa dell’intervento del santo si fece avanti il vescovo di
Lodi, Bernardo de Talente, che indisse “novena pubblica con la promessa di
erigere, cessata l’epidemia, che già tanti morti aveva causato, un grande tempio
in onore della Santissima Trinità e di San Cristoforo”. Nei primi giorni del
1300 le acque si ritirarono ed ebbe fine ogni pestilenza; nella palude
miracolosamente prosciugata fu rinvenuta una “costola colossale” subito
attribuita alla fantomatica creatura. La liberazione dalla pestilenza,
esemplificata nella leggenda dalla morte del drago e dal conseguente
prosciugamento della malsana fossa, fu festeggiata con l’adempimento del voto e
la costruzione dell’edificio sacro dentro il quale fu conservato a lungo il
“grand’osso del sopradetto Serpente o Dragone”.
Si pensava che la tremenda creatura vivesse nelle viscere della terra al di
sotto della rocca di Soncino (Cremona), dove era stato seppellito un feroce
tiranno ghibellino, o che fosse stato ucciso non da San Cristoforo, ma da
Federico Barbarossa. In tutte le varianti all’uccisione del mostro sarebbe
seguito il ritiro delle acque, la scomparsa del lago e il conseguente recupero
di immense terre da coltivare.
Nella Chiesa di San Cristoforo, che oggi presenta il raffinato aspetto
conferito da Pellegrino Tibaldi nel 1564-86, fu a lungo conservato un reperto
osseo di straordinaria lunghezza appeso alla volta e oggetto di grande
venerazione almeno fino all’Ottocento, quando si stabilì inoppugnabilmente la
natura non fossile della reliquia. Nella chiesa si sarebbero conservate anche
due tavolette di marmo, murate, ma andate disperse assieme al grande reperto,
su cui era scritto: serpente che
appestava Lodi e che per l’intercessione del Santo Cristoforo nella calenda di
gennaio ucciso il drago e prosciugato il lago ove viveva.
Il nome di Tarantasio pare ricalcato su quello della Tarasca, il cui mito
Opicino de Canistris importava a Pavia proprio nel corso del Trecento.
La Tarasca è il più noto tra i mitici mostri d’origine celtica, la cui credenza
era diffusa in tutta Europa a tal punto che, al mito, alcune città associarono
simbolicamente la loro stessa origine, la raffigurazione araldica e,
addirittura, il nome: due Tarascona in Francia, una nella regione francese
dell’Ariège, a nord dei Pirenei, l’altra presso Avignone; Tarasca in Ucraina.
Si trattava di un vero e proprio drago: viveva nelle paludi; si cibava di carne
umana; sputava fiamme dalla bocca. L’immaginario collettivo lo dipinse come
tartaruga corrazzata e squamosa dotata di testa di leone.
Nella località di Tiolo (Sondrio), una leggenda raccontava di una creatura
detta serpen co la gresta, un
misterioso rettiliforme caratterizzato, come lo stesso nome denuncia, da una
grande cresta sul capo e da piedi palmati. Le sue dimensioni sono
sovrannaturali. È una delle più straordinarie creature scaturite dall’amalgama
di più differenti animali: serpe, maiale, gallo, anitra. Si tratta di una
bestia dalle dimensioni grassottelle prossime a quelle di un porcellino;
sarebbe serpentiforme, avrebbe una cresta di gallo e le zampe anteriori palmate
come quelle di un anatroccolo; sulla schiena la pelle assumerebbe colore
rossiccio. Difficile stabilire la sua appartenenza alle diverse categorie
dell’immaginario fantastico: il suo stanziamento presso una fonte (la località
per lo sgradevole incontro era fissata alle “Tre Fontane”) l’apparenterebbe all’universo
mitologico dei serpenti e dei rospi come custodi di sorgenti d’acqua vitale,
mentre sulla complessità della raffigurazione concorrerebbe certo la vasta
fortuna del leggendario gallo basilisco e di altre creature scaturite dal
fantastico. I suoi poteri erano sconfinati. Bruciava l’erba e tutte le piante
nell’intorno con il solo alito (più serpe-drago che Basilisco vero e proprio),
ma ipnotizzava con lo sguardo (come il Basilisco). Chi era soggetto
all’immobilizzazione veniva irrimediabilmente ucciso dalla bestia che
approfittava per succhiare il sangue della vittima.
Non è l’unica creatura di Lombardia che succhia sangue, ma è in buona compagnia
del Brocòloco della Lomellina.
Questo è, tuttavia, evanescente spirito di un morto.
Un reperto “di drago” si conserva
nel santuario di Santa Maria Annunziata
a Ponte Nossa (Bergamo) almeno dal 1594. La pelle di un “coccodrillo” si trova nel Sacro Monte di Varese; una costola di
un mostro penzola dal soffitto della chiesa di Almenno San Salvatore (Bergamo); altre nel santuario della Beata Vergine di Paladina (Bergamo) e
nella chiesa di San Bassano a
Pizzighettone (Cremona).
Nella campagne attorno a Mantova persistette a lungo l’usanza di decorare i
carri agricoli con caratteristiche raffigurazioni di rettili e di dragoni.
L’associazione drago/tempesta, da cui deriva quella drago/acqua e più in
generale drago/forze della natura, risale all’antichissima forma di
rappresentazione degli elementi naturali, in sembianze di animali, di matrice
indo-europea, secondo un principio primigenio che portava, istintivamente, a
rivestire delle forme della vita reale gli agenti misteriosi che governavano
l’universo soprannaturale.
Il drago era anche associato alla pioggia e come tale, con accezione positiva,
il sostentamento che dal cielo discendeva sui campi. Per questo nella
tradizione del nord Italia si conservano alcuni modi per indicare l’arcobaleno
associandolo al mostruoso rettile. “Drago”, infatti, è l’iride variopinta
secondo l’accezione diffusa in un arco geografico compreso tra la Valle d’Aosta e il Novarese
e che sopravvivrebbe anche in una ristretta area geografica attorno al Lago
Maggiore.
In Canton Ticino si chiama correggia,
o cintura, coda, chiave, segno, riga, arco, unghia, albero o ponte “del drago”. Nel territorio di Pavia è detto tarfin che si assocerebbe a delfì, dolfi e delfenà del
Bresciano e al dalfinà di Solferino
(Mantova): il lampo, il baleno. Il riferimento al delfino, e non ad un
serpente, sarebbe comunque un impiego precedente a “balena” (da cui balenare)
per indicare una sorta di animale/demone che la mitologia popolare traeva da
una simbologia antichissima e non relativa al guizzo improvviso di agili
creature sulle onde luccicanti. Il delfino o la foca, infatti, erano animali
semiantropomorfi dotati di caratteristiche umane. Per Apollonio Rodio il Delphŷnê era, per esempio, il drago che
nell’antica Grecia faceva la guardia alla fontana di Delfi. Nei bestiari e nelle summae enciclopediche medievali il delfino era l’animale che
aiutava l’uomo quasi come un fratello.
Infine, nella pur complessa mitologia asiatica – dalle quali oggi traiamo buona
parte delle raffigurazioni di “dragoni cinesi” – l’arcobaleno era il serpente
emerso dal mondo sotterraneo. L’arcobaleno come “drago” sarebbe dunque una
delle più antiche fasi di formazione del significato stesso di arcobaleno,
impersonato in un animale di spaventose dimensioni che berrebbe l’acqua che
viene al termine della pioggia, apportando, con il sole, un beneficio. Per
estensione, quindi, il “drago” è la bestia che beve l’acqua dal mare o dai
laghi.
Da: Milano, misteri e itinerari insoliti tra realtà e leggenda di William
Facchinetti Kerdudo
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