Nelle Befanate profane recitate nel contado toscano il viaggio della Befana è percepito come un volo fantastico, un ritorno da una terra remotissima e vaga:
Tra’ rigor dell’atmosfera
Di libeccio e tramontana,
È qui giunta la Befana,
E vi dà la buona sera.
Da paesi assai lontani,
Dopo un
anno a voi ne viene;
Ha sofferto tante pene,
Per sentieri ignoti e strani… .
Come osserva Paolo Toschi, il tema del viaggio della Befana, che giunge volando
nel gelo dell’inverno e nell’atmosfera tempestosa, viene ripreso dal Pascoli
nella sua ben nota filastrocca, riecheggiante anche nello stile, oltre che nei
contenuti, i temi delle cantate popolari:
Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Com’è stanca! La circonda
Neve, gelo e tramontana
Viene viene la Befana…
Traspare da queste leggende e immagini consolidate nella tradizione la
misteriosa provenienza del personaggio della Befana: essa parte da un luogo
remoto, e deve affrontare un lungo viaggio, nonostante la fatica e le
intemperie. Altre volte si narra che essa giunge in volo e nello spazio di una notte,
a cavallo della sua scopa fatata, attraversa i cieli delle città e dei paesi,
in tempo per lasciare i suoi regali a tutti i bambini.
Nelle credenze popolari della Spagna la notte del primo dell’anno le streghe, a
cavallo di un fruciandolo, volano fuori dai comignoli. Nelle leggende celtiche
si racconta che la notte del primo novembre si può osservare una moltitudine di
fate volanti da un colle incantato all’altro, sotto la musica dei campanelli e
dei corni degli elfi. In questa notte si possono vedere streghe e maghi che
solcano l’aria a cavallo di ramoscelli. Baba Jaga, la strega delle fiabe russe
vola dentro un mortaio di ferro, incitando col pestello e spazzando via le
tracce con la scopa. Quando lei vola la terra geme, i venti fischiano, le fiere
ululano, gli spiriti impuri mugghiano. In queste immagini mitiche gli accessori
domestici, i ramoscelli e gli oggetti che i personaggi fantastici recano con sé
assumono una chiara funzione dinamica, quali rappresentazioni esplicite del
volo immaginario. Altrove i rametti hanno in se stessi il potere di trasportare
in volo l’essere divino, come nel mito egizio, dove i rami staccati dagli
alberi sacri rivestono il ruolo di mezzi magici atti a trasferire verso luoghi
remoti. Un testo delle Piramidi esorta il dio Osiris a servirsi di due rami,
uno di ginepro ed uno di cipresso, apprestati dalla dea boomorfa Hathor, per
attraversare “la verdissima”, ossia il mare.
Nel rito degli aborigeni australiani Yuin,
incluso nelle cerimonie di passaggio alla pubertà, un uomo viene leggermente
ricoperto di terra e deposto in una finta tomba. L’uomo si distende su di un
letto di foglie, reggendo tra le dita le radici di un piccolo alberello e,
quando i candidati al rito d’iniziazione si avvicinano, egli li spaventa
facendo tremare la piantina e sorgendo dalla tomba. L’uomo simboleggia la luna,
che riappare dopo l’oscurità, e l’albero è quello celeste delle stelle. Per
cercare di comprendere il rito non possiamo limitarci alla sola simbologia
lunare; è evidente che si tratta di una cerimonia di morte e rinascita inclusa
nei riti di iniziazione. In questo caso potremmo forse interpretare la figura
dell’uomo come la personificazione di un antenato defunto. Quanto
all’alberello, esso è certamente un albero astrale, infatti, se dobbiamo
ammettere che in seguito l’albero dalla terra
è passato in cielo ed ha cominciato a volare, bisogna riconoscere che
l’interpretazione dell’albero magico quale albero astrale è corretta. Questo
albero serviva ad inoltrarsi nel difficile cammino verso l’al di là, ed ha
acquisito così una funziona dinamica, divenendo un mezzo di trasporto. Le
prerogative del ramo volante hanno subito nel corso del tempo una serie di
stratificazioni, tali da offuscare il senso originario. A questo proposito
intendiamo riferire alcuni esempi che testimoniano uno stadio intermedio
nell’evoluzione del ramo magico. In questo caso il rametto, ormai privo della
peculiarità di attrezzo adoperato per “trasferire” lo spirito da un luogo
all’altro, viene concepito come puro mezzo magico adottato per costringere lo
spirito a manifestarsi. In Germania si credeva che con l’aiuto di un rametto
portato in chiesa durante i dodici giorni da Natale all’Epifania, si sarebbe
potuta vedere la strega. Similmente, nelle isole Ebridi, il giorno della festa
di Santa Brigida, il primo febbraio, si usava raccogliere un fascio di giunchi
verdi e tenendoli in mano si invitava la santa ad entrare in casa.
Da questi esempi risulta che, per analizzare più ampiamente la struttura del
ramo magico e definirne in modo più esplicito le funzioni inerenti alla figura
della Befana, occorre tener presente che il rametto, nell’ambito della festa di
Capodanno, accanto alla funzione principale di mezzo per compiere un volo,
riveste anche quella di segno evocativo. Le tradizioni europee hanno conservato
un riflesso di questa funzione magico-evocativa del ramo, ma possiamo ritrovare
analoghe modalità e funzioni del ramo sacro anche presso popolazioni lontane,
sempre in corrispondenza del Capodanno.
La grande festa si celebra nello stretto di Bering con lunghi intervalli da
una cerimonia all’altra. Dopo aver
preparato una grande quantità di viveri, s’invitano i defunti ad assistere al
banchetto Ognuno pianta davanti alla tomba del proprio antenato un bastone
d’invito sormontato dall’effige dell’antenato totemico. Questo bastone ha il
compito di avvertire il defunto che la festa ha inizio. Mentre risuonano i
canti d’invito, le ombre escono dalle tombe e tornano nelle case dei loro congiunti,
ove si radunano sulla cavità del focolare o sotto la tavola.
Nell’area padano-veneta si usava esporre fuori della finestra durante i dodici
giorni tra Natale e l’Epifania un ramo d’albero sfrondato e con intagli,
diverso per ogni bambino o bambina della famiglia. Questa azione veniva compiuta
principalmente dal nonno, insieme ai nipoti, e si collocava nelle tradizioni
relative all’arrivo della Befana; così come lo era deporre una scarpina o una
calza accanto al focolare.
La finalità evocativa, o di richiamo dello spirito, attribuita al bastone sacro
e perseguita dai popoli abitanti lo stretto di Bering, viene ulteriormente
confermata da una singolare cerimonia compiuta dai Khond, popoli di agricoltori
dell’India dravidica, al fine di ricondurre in casa l’antenato. Il decimo
giorno dopo la morte, l’anima viene richiamata in casa inducendola a cavalcare
un bastone ricoperto da un telo, che viene poi lasciato in un angolo
dell’abitazione. In questo significativo rituale troviamo l’immagine esplicita
dello spirito che si trasferisce dal
luogo della sepoltura fino a casa dei suoi familiari, a cavallo di un bastone,
esattamente come lo sciamano che compie un volo, e come la Befana che fa ritorno nella
case con l’aiuto della sua scopa magica. Sia nella cerimonia di Bering, sia in
quella diffusa tra i Khond dell’India, la funzione del bastone sacro è di tipo
evocativo; tuttavia mentre presso le popolazioni di Bering il bastone d’invito,
oltre a rappresentare l’antenato totemico, è anche un segno che indica l’inizio
della festa e del rituale commemorativo, per i Khond invece il bastone più che
un segnale, è un vero e proprio mezzo di locomozione, usato allo scopo di
attirare e trasportare l’anima nel luogo voluto.
Il motivo della scopa intesa quale mezzo di trasferimento dello spirito ricorre
in un gran numero di credenze, miti e leggende. Spesso essa è considerata un
accessorio dell’antenato, o un oggetto di cui egli si appropria. La conferma
dell’esistenza di una simile rappresentazione proviene da un racconto popolare
del territorio di Otranto, dove si narra di una massaia che, angosciata dai
dispetti del folletto casalingo, “Llaùru”,
decise di traslocare. Quando tutto era pronto e la famiglia si accingeva a
partire, la donna si accorse che mancava la scopa, andò così a cercarla, ma
nell’angolo dov’era la scopa trovò il Llaùru
che le disse. “Andiamo, andiamo, questa qui la porto io”. Lo spirito domestico
manifesta qui esplicitamente la sua intenzione di trasferirsi nella nuova casa,
portando con sé la scopa. Il tema di questa facezia familiare trova tuttavia un
fondamento concreto nelle consuetudini di varie popolazioni. In Algeria, ad
esempio, è considerato di cattivo augurio introdurre una scopa nuova in una
casa nuova. Al momento del trasloco, dopo aver fatto i sacrifici ed i riti
propiziatori, si trasportano le ceneri
le spazzature della casa precedente, insieme agli utensili e alle
vecchie scope.
Talvolta si usava lasciare delle scope sulle tombe, affinché le anime,
aggrappandosi ad esse potessero tornare sulla terra. Un esempio di questa
usanza si può trovare in un rituale di commemorazione dei defunti in
Bielorussia. Nel rituale autunnale i familiari, dopo aver fatto il bagno e aver
preso con sé della legna ed una scopa, si recavano alle tombe dei propri
defunti e vi accendano il fuoco, poi spazzavano la tomba e vi lasciavano sopra
la scopa, affinché l’ombra, quando i vivi avrebbero lasciato il cimitero,
potesse rimettere in ordine la sua tomba.
In questo rito l’anima viene evocata mediante un fuoco acceso, mentre l’azione
di lasciare la scopa presso la tomba viene giustificata con l’esigenza del
defunto di rimetterla in ordine. Certamente si tratta di una spiegazione
etiologica a posteriori, quando il significato
del rito rimaneva ormai oscuro. In realtà è possibile scorgere in
quest’usanza rituale una originaria modalità di invito, simile a quella già
esaminata presso i Khond: l’anima dell’antenato veniva invitata a lasciare la
tomba per ritornare a far visita ai vivi e, collocandovi un bastone magico, si
dotava l’anima di un mezzo per raggiungere in volo la propria casa.
La caratteristica peculiare della scopa è quella di pulire e purificare un
ambiente, raccogliendo ed ammonticchiando la spazzatura. Vi erano una volta
delle scope speciali che servivano per raccogliere i chicchi di grano sparsi
sull’aia dopo la battitura dei covoni, le cosiddette “scope cranare” o “scope
ranare”, come ancora oggi vengono definite nell’Italia meridionale. La
scopa rustica è detta in Piemonte dvigia,
in Lucania riviglia, voci risalenti
al lat. vilis, it. “vigliare”, separare
il grano da elementi nocivi. Le spazzature dell’aia avevano per i primi
agricoltori delle proprietà magiche, le medesime che si attribuivano ai rifiuti
domestici. Si tratta di proprietà arcane e misteriose. I beduini della Tunisia
evitano di spazzare la casa o la tenda dopo il tramonto, per non offendere i
geni che errano di notte. La stessa credenza si ritrova anche in Sicilia, in
Sardegna e nell’Italia centrale. In Bassa Bretagna non si usa spazzare la casa
di sera, per timore di scacciare i trapassati, o di gettarli fuori dalla casa
insieme alla polvere. È interessante anche un’usanza della Romania, dove è
proibito spazzare, prestare il fuoco, e portare via le ceneri dalla casa,
durante le feste dedicate agli antenati protettori della famiglia.
Dopo aver indicato il senso di trasferimento nello spazio, insito nel ramo
magico, osserviamo che questo movimento si definisce come un allontanamento
dell’anima al termine della festa, mediante lo stesso ramo dotato di poteri
apotropaici.
Durante i cortei di Capodanno in Austria, uno “spazzino” precedeva le maschere
e ripuliva il luogo dove si sarebbe svolta la rappresentazione. Una traccia di
queste arcaiche tradizioni la ritroviamo nell’opera shakespeariana Sogno di una notte di mezza estate, dove
il folletto Puck, all’inizio della rappresentazione scenica, afferma di essere
stato “inviato innanzi con la scopa per spazzare la polvere dietro la porta”. A questi motivi si può ricollegare anche il
gioco detto dell’aguinaldo,
organizzato dai giovani della Galizia il primo dell’anno. Essi facevano il giro
delle case recando con sé delle scope, con le quali spazzavano accuratamente il
pavimento prima di andare via.
Da: L’incanto e l’arcano. Per una
antropologia della Befana di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco
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