venerdì 15 luglio 2011

Le vergini antiche


L’aspetto della dea vergine rappresenta quella parte della donna che un uomo può non riuscire a possedere né “a penetrare” mai, che non viene toccata dal bisogno di un uomo o dalla sua approvazione, che esiste di per sé, interamente separata da lui. Quando la donna vive secondo un archetipo vergine, non vuol dire che lo sia fisicamente o in senso letterale, ma che un’importante parte di lei lo è in senso psicologico.
Il termine vergine significa incontaminata, pura, incorrotta, non consumata e non manipolata dall’uomo, come in espressioni quali: il terreno vergine, la foresta vergine; oppure significa che non ha subito processi di lavorazione, come la lana vergine. L’olio vergine viene dalla prima spremitura  delle olive e dei semi, con un processo a freddo, che da un punto di vista metaforico, significa non toccato dal calore dell’emozione o della passione. Il metallo vergine è quello che si trova in natura, non sotto forma di lega né mescolato ad altri elementi, come l’oro puro.
Secondo Leda Bearné, in Le vergini arcaiche, per una donna, oggi, è difficilissimo avvicinarsi all’idea di verginità così come veniva intesa nell’antichità, infatti, si tratta di una condizione raggiungibile solo prescindendo da ogni tipo di soggezione all’uomo, ritrovando in se stesse una femminilità pura, al di là di ogni morale e questa è una concezione del tutto contrapposta a quelle moderne.
Si tratta di ritrovare uno stato superiore e sovraumano che pare abbia caratterizzato alcune antiche sacerdotesse, fuse ed identificate con le antiche divinità femminili legate all’Eros, alla Natura ed alla Gioia.
Secondo l’autrice il vocabolo vergine potrebbe derivare:
- dalla parola latina virgo, ritenuta affine a vir, cioè “uomo robusto e forte”
- da vireo, “verdeggio”
- dal sanscrito urg (radice varg) “essere turgido, pieno di succo, forte, vigoroso, lussureggiante, pieno di energia”.
Il concetto per cui risulta lontano da quello di verginità fisica.
Vergine era la fanciulla non sposata, non sottomessa al giogo di un uomo ma non per questo illibata.
Vergine è la donna libera, sempre disponibile, sempre nuova, simbolo di rinnovamento e gioventù, datrice di gioia e libertà e canale per la manifestazione della Dea Primordiale.
Le Dee Vergini avevano degli amanti, chiamati in Grecia Paredri (“Colui che siede accanto”), che non si dovevano mai porre nei loro confronti con atteggiamento di superiorità o prevaricatore, né maestri né padroni.
Spesso erano fratelli o figli delle Dee stesse, divini e a loro paritari.
Quindi non assenza dell'uomo, ma assenza del maschio prevaricatore.
Esempi di questo tipo di donne erano senz'altro le Yogini seguaci di Durga in India, le seguaci della Dea Freya al nord, oppure le baccanti del culto dionisiaco, così come le vestali greche e romane custodi del fuoco.
Attraverso l’Unione con la Dea ricostituivano, per alcuni istanti, l’unità originaria, subito cancellata dall’anelito alla suprema libertà della Vergine, immacolata, perché nessuna forza estranea le ha mai usato violenza.
Un rapporto con uomo che avesse perso la purezza, cioè la capacità di sentire intimamente la sintonia con la Natura e con il femminile, avrebbe comportato la perdita dello stato di Verginità.
La Verginità, probabilmente, comportava per la donna l’avvertire, dentro di sé, la presenza di una pura essenza femminile inebriante e foriera di tenerezza, languore erotico, dolcezza e amore per tutte le manifestazioni naturali percepite come piene di bellezza ed armonia.
Le antiche Vergini avevano dentro di sé una inesauribile fonte di armonia e benessere ed erano in grado di riconoscerla una nell’altra, negli alberi, negli animali in una esaltante congiunzione con il Tutto.
Gli uomini e le donne arcaiche, dotati di una particolare sensibilità, probabilmente percepivano l’intero mondo naturale come un grandioso tempio a cielo aperto.
Le Vergini Dee, per difendere i luoghi sacri della Natura, erano in grado di trasformarsi in terribili streghe guardiane in grado di terrorizzare chi non aveva le qualità necessarie per entrarvi.
’uomo doveva essere in grado di percepire in sé la dolce energia femminile perché solo in quel modo avrebbe potuto intendere profondamente e venerare la Grande Madre fino a fondersi nella sua Immensa Gioia.
I congiungimenti tra uomini e donne erano probabilmente più liberi e naturali e non davano origine a legami di coppia.
Le donne riuscivano a lasciare da parte invidie e gelosie e a collaborare assieme alla vita comune.
Con l’affermarsi di una società guerriera, che adorava divinità maschili, il potere femminile fu messo sempre più in secondo piano, e man mano dimenticato, ridotto e infine distrutto.
Nacquero le basi del matrimonio, della famiglia, della discendenza patrilineare e l’idea che un uomo possa possedere una donna, imponendole la sua volontà anche attraverso la violenza.
La donna stessa dimenticò il suo potere, divenne più debole e vulnerabile e perse la Verginità.
L
e donne persero la capacità di stare assieme, del vivere corale, si ritrovarono divise ad assumere ruoli incompatibili tra loro: madre, prostituta, fanciulla casta, moglie. Ruoli concepiti solo ed esclusivamente in relazione all’uomo.
La Verginità assunse il significato di chiusura (fisica e psicologica), una condizione di non rapporto con il maschio, diventato inferiore e non più Paredro, per preservare la propria autonomia.
Congiungersi con questo tipo di uomini, per le ultime Vergini sarebbe stato un tradimento ed una violazione dello stato di incondizionata ed assoluta libertà che avrebbero dovuto custodire e difendere. Con la diffusione delle religioni monoteiste l’uomo allargò il suo dispotico dominio sulla Natura.
Il culto fu affidato solo agli uomini e le antiche divinità femminili furono demonizzate.
Oggi, seppur non in tutti i paesi del mondo,le donne partecipano maggiormente a tutte le attività sociali ed economiche; la divisione rigida dei ruoli sembra essere abolita eppure poche donne moderne possono considerarsi davvero e totalmente autonome, indipendenti dai giudizi dei maschi; per lo più appaiono sole e divise, invidiose e gelose le una delle altre.
La donna, oggi, deve compiere uno sforzo immenso per mettersi alla ricerca del modo per ritrovare e risvegliare l’armonia nascosta nel proprio intimo per potersi, prima o poi, ricongiungersi all’infinito Amore della Grande Madre.
Le tre dee vergini della mitologia greca sono Artemide, dea della caccia e della luna; Atena, dea della saggezza e dei mestieri; Estia, dea del focolare e del tempio, che personificano rispettivamente gli aspetti di indipendenza, di attività e di non-rapporto propri della psicologia della donna. Artemide e Atena sono archetipi orientati verso l’esterno e verso la realizzazione, mentre Estia è rivolta al mondo interno. Tutte e tre rappresentano, nelle donne, altrettante spinte interne a sviluppare i propri talenti, a perseguire i propri interessi, a risolvere i problemi, a misurarsi con gli altri, a esprimere se stesse in maniera chiara, a parole o attraverso forme d’arte, a mettere ordine nell’ambiente che le circonda, o a condurre una vita contemplativa. Ogni donna che ha desiderato “una stanza tutta sua”, o che si sente a casa quando è immersa nella natura, o che si diverte a scoprire come funziona una cosa, o che gode della solitudine, manifesta un’affinità con una delle dee vergini.
All’interno di un sistema religioso in un’epoca storica dominata da divinità maschili, Artemide, Atena ed Estia si stagliano come eccezioni. Non si sono mai sposate, non sono mai state possedute, sedotte, violentate o umiliate da divinità maschili o da esseri mortali. Sono rimaste “intatte”, inviolate. Soltanto loro, fra tutti gli dei, le dee e i mortali, sono rimaste indifferenti al potere irresistibile di Afrodite, dea dell’amore, di accendere la passione e di suscitare sentimenti appassionati. Non erano spinte dall’amore, dalla sessualità, dall’infatuazione.
Quando una dea vergine, sia essa Artemide, Atena o Estia, è l’archetipo dominante, la donna, come ha scritto l’analista junghiana Esther Harding nel suo libro I misteri della donna, è “una in se stessa”. Una parte importante della sua psiche “non appartiene a nessun uomo”. Di conseguenza, come scrive la Harding, “la donna che è vergine, una-in-se-stessa, fa ciò che fa non per il desiderio di piacere, essere gradita, o approvata, sia pure da se stessa; non per la brama di estendere il suo potere su un altro, per catturarne l’interesse o l’amore, ma perché ciò che essa fa è vero. Le sue azioni spesso non sono convenzionali. Può dover dire di no, quando sarebbe più facile, ed anche più appropriato, convenzionalmente parlando, dire di sì. Ma, come vergine, non è influenzata dalle considerazioni che inducono le donne non vergini, siano o no sposate, ad orientare le vele e ad adattarsi alla convenienza”.
Se la donna è “una in se stessa” sarà motivata dal bisogno di seguire i propri valori interni, di fare ciò che per lei ha senso e la realizza, a prescindere da ciò che pensano gli altri.
Da un punto di vista psicologico, la dea vergine è quella parte della donna mai manipolata né dalle aspettative sociali e culturali collettive (di matrice maschilista), né dal giudizio di un uomo. L’aspetto della dea vergine è pura essenza di ciò che la donna è e di ciò a cui attribuisce valore; un aspetto che rimane intatto e incontaminato perché lei non lo rivela, perché lo custodisce sacro e inviolato, o perché lo esprime senza alterarlo per adeguarsi ai modelli maschili.
Ciò che caratterizza le dee vergini è una coscienza concentrata. Le donne Artemide, Atena ed Estia hanno la capacità di concentrare l’attenzione su ciò che le interessa, di lasciarsi assorbire in ciò che stanno facendo, e in questo processo di concentrazione è facile che escludano qualsiasi cosa sia estranea al compito che hanno per le mani o che si prefiggono a lungo termine

Da: Le dee dentro la donna di Jean Shinoda Bolen
http://www.celticworld.it/sh_wiki.php?act=sh_art&iart=794&im=1

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