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venerdì 15 luglio 2011

Le vergini antiche


L’aspetto della dea vergine rappresenta quella parte della donna che un uomo può non riuscire a possedere né “a penetrare” mai, che non viene toccata dal bisogno di un uomo o dalla sua approvazione, che esiste di per sé, interamente separata da lui. Quando la donna vive secondo un archetipo vergine, non vuol dire che lo sia fisicamente o in senso letterale, ma che un’importante parte di lei lo è in senso psicologico.
Il termine vergine significa incontaminata, pura, incorrotta, non consumata e non manipolata dall’uomo, come in espressioni quali: il terreno vergine, la foresta vergine; oppure significa che non ha subito processi di lavorazione, come la lana vergine. L’olio vergine viene dalla prima spremitura  delle olive e dei semi, con un processo a freddo, che da un punto di vista metaforico, significa non toccato dal calore dell’emozione o della passione. Il metallo vergine è quello che si trova in natura, non sotto forma di lega né mescolato ad altri elementi, come l’oro puro.
Secondo Leda Bearné, in Le vergini arcaiche, per una donna, oggi, è difficilissimo avvicinarsi all’idea di verginità così come veniva intesa nell’antichità, infatti, si tratta di una condizione raggiungibile solo prescindendo da ogni tipo di soggezione all’uomo, ritrovando in se stesse una femminilità pura, al di là di ogni morale e questa è una concezione del tutto contrapposta a quelle moderne.
Si tratta di ritrovare uno stato superiore e sovraumano che pare abbia caratterizzato alcune antiche sacerdotesse, fuse ed identificate con le antiche divinità femminili legate all’Eros, alla Natura ed alla Gioia.
Secondo l’autrice il vocabolo vergine potrebbe derivare:
- dalla parola latina virgo, ritenuta affine a vir, cioè “uomo robusto e forte”
- da vireo, “verdeggio”
- dal sanscrito urg (radice varg) “essere turgido, pieno di succo, forte, vigoroso, lussureggiante, pieno di energia”.
Il concetto per cui risulta lontano da quello di verginità fisica.
Vergine era la fanciulla non sposata, non sottomessa al giogo di un uomo ma non per questo illibata.
Vergine è la donna libera, sempre disponibile, sempre nuova, simbolo di rinnovamento e gioventù, datrice di gioia e libertà e canale per la manifestazione della Dea Primordiale.
Le Dee Vergini avevano degli amanti, chiamati in Grecia Paredri (“Colui che siede accanto”), che non si dovevano mai porre nei loro confronti con atteggiamento di superiorità o prevaricatore, né maestri né padroni.
Spesso erano fratelli o figli delle Dee stesse, divini e a loro paritari.
Quindi non assenza dell'uomo, ma assenza del maschio prevaricatore.
Esempi di questo tipo di donne erano senz'altro le Yogini seguaci di Durga in India, le seguaci della Dea Freya al nord, oppure le baccanti del culto dionisiaco, così come le vestali greche e romane custodi del fuoco.
Attraverso l’Unione con la Dea ricostituivano, per alcuni istanti, l’unità originaria, subito cancellata dall’anelito alla suprema libertà della Vergine, immacolata, perché nessuna forza estranea le ha mai usato violenza.
Un rapporto con uomo che avesse perso la purezza, cioè la capacità di sentire intimamente la sintonia con la Natura e con il femminile, avrebbe comportato la perdita dello stato di Verginità.
La Verginità, probabilmente, comportava per la donna l’avvertire, dentro di sé, la presenza di una pura essenza femminile inebriante e foriera di tenerezza, languore erotico, dolcezza e amore per tutte le manifestazioni naturali percepite come piene di bellezza ed armonia.
Le antiche Vergini avevano dentro di sé una inesauribile fonte di armonia e benessere ed erano in grado di riconoscerla una nell’altra, negli alberi, negli animali in una esaltante congiunzione con il Tutto.
Gli uomini e le donne arcaiche, dotati di una particolare sensibilità, probabilmente percepivano l’intero mondo naturale come un grandioso tempio a cielo aperto.
Le Vergini Dee, per difendere i luoghi sacri della Natura, erano in grado di trasformarsi in terribili streghe guardiane in grado di terrorizzare chi non aveva le qualità necessarie per entrarvi.
’uomo doveva essere in grado di percepire in sé la dolce energia femminile perché solo in quel modo avrebbe potuto intendere profondamente e venerare la Grande Madre fino a fondersi nella sua Immensa Gioia.
I congiungimenti tra uomini e donne erano probabilmente più liberi e naturali e non davano origine a legami di coppia.
Le donne riuscivano a lasciare da parte invidie e gelosie e a collaborare assieme alla vita comune.
Con l’affermarsi di una società guerriera, che adorava divinità maschili, il potere femminile fu messo sempre più in secondo piano, e man mano dimenticato, ridotto e infine distrutto.
Nacquero le basi del matrimonio, della famiglia, della discendenza patrilineare e l’idea che un uomo possa possedere una donna, imponendole la sua volontà anche attraverso la violenza.
La donna stessa dimenticò il suo potere, divenne più debole e vulnerabile e perse la Verginità.
L
e donne persero la capacità di stare assieme, del vivere corale, si ritrovarono divise ad assumere ruoli incompatibili tra loro: madre, prostituta, fanciulla casta, moglie. Ruoli concepiti solo ed esclusivamente in relazione all’uomo.
La Verginità assunse il significato di chiusura (fisica e psicologica), una condizione di non rapporto con il maschio, diventato inferiore e non più Paredro, per preservare la propria autonomia.
Congiungersi con questo tipo di uomini, per le ultime Vergini sarebbe stato un tradimento ed una violazione dello stato di incondizionata ed assoluta libertà che avrebbero dovuto custodire e difendere. Con la diffusione delle religioni monoteiste l’uomo allargò il suo dispotico dominio sulla Natura.
Il culto fu affidato solo agli uomini e le antiche divinità femminili furono demonizzate.
Oggi, seppur non in tutti i paesi del mondo,le donne partecipano maggiormente a tutte le attività sociali ed economiche; la divisione rigida dei ruoli sembra essere abolita eppure poche donne moderne possono considerarsi davvero e totalmente autonome, indipendenti dai giudizi dei maschi; per lo più appaiono sole e divise, invidiose e gelose le una delle altre.
La donna, oggi, deve compiere uno sforzo immenso per mettersi alla ricerca del modo per ritrovare e risvegliare l’armonia nascosta nel proprio intimo per potersi, prima o poi, ricongiungersi all’infinito Amore della Grande Madre.
Le tre dee vergini della mitologia greca sono Artemide, dea della caccia e della luna; Atena, dea della saggezza e dei mestieri; Estia, dea del focolare e del tempio, che personificano rispettivamente gli aspetti di indipendenza, di attività e di non-rapporto propri della psicologia della donna. Artemide e Atena sono archetipi orientati verso l’esterno e verso la realizzazione, mentre Estia è rivolta al mondo interno. Tutte e tre rappresentano, nelle donne, altrettante spinte interne a sviluppare i propri talenti, a perseguire i propri interessi, a risolvere i problemi, a misurarsi con gli altri, a esprimere se stesse in maniera chiara, a parole o attraverso forme d’arte, a mettere ordine nell’ambiente che le circonda, o a condurre una vita contemplativa. Ogni donna che ha desiderato “una stanza tutta sua”, o che si sente a casa quando è immersa nella natura, o che si diverte a scoprire come funziona una cosa, o che gode della solitudine, manifesta un’affinità con una delle dee vergini.
All’interno di un sistema religioso in un’epoca storica dominata da divinità maschili, Artemide, Atena ed Estia si stagliano come eccezioni. Non si sono mai sposate, non sono mai state possedute, sedotte, violentate o umiliate da divinità maschili o da esseri mortali. Sono rimaste “intatte”, inviolate. Soltanto loro, fra tutti gli dei, le dee e i mortali, sono rimaste indifferenti al potere irresistibile di Afrodite, dea dell’amore, di accendere la passione e di suscitare sentimenti appassionati. Non erano spinte dall’amore, dalla sessualità, dall’infatuazione.
Quando una dea vergine, sia essa Artemide, Atena o Estia, è l’archetipo dominante, la donna, come ha scritto l’analista junghiana Esther Harding nel suo libro I misteri della donna, è “una in se stessa”. Una parte importante della sua psiche “non appartiene a nessun uomo”. Di conseguenza, come scrive la Harding, “la donna che è vergine, una-in-se-stessa, fa ciò che fa non per il desiderio di piacere, essere gradita, o approvata, sia pure da se stessa; non per la brama di estendere il suo potere su un altro, per catturarne l’interesse o l’amore, ma perché ciò che essa fa è vero. Le sue azioni spesso non sono convenzionali. Può dover dire di no, quando sarebbe più facile, ed anche più appropriato, convenzionalmente parlando, dire di sì. Ma, come vergine, non è influenzata dalle considerazioni che inducono le donne non vergini, siano o no sposate, ad orientare le vele e ad adattarsi alla convenienza”.
Se la donna è “una in se stessa” sarà motivata dal bisogno di seguire i propri valori interni, di fare ciò che per lei ha senso e la realizza, a prescindere da ciò che pensano gli altri.
Da un punto di vista psicologico, la dea vergine è quella parte della donna mai manipolata né dalle aspettative sociali e culturali collettive (di matrice maschilista), né dal giudizio di un uomo. L’aspetto della dea vergine è pura essenza di ciò che la donna è e di ciò a cui attribuisce valore; un aspetto che rimane intatto e incontaminato perché lei non lo rivela, perché lo custodisce sacro e inviolato, o perché lo esprime senza alterarlo per adeguarsi ai modelli maschili.
Ciò che caratterizza le dee vergini è una coscienza concentrata. Le donne Artemide, Atena ed Estia hanno la capacità di concentrare l’attenzione su ciò che le interessa, di lasciarsi assorbire in ciò che stanno facendo, e in questo processo di concentrazione è facile che escludano qualsiasi cosa sia estranea al compito che hanno per le mani o che si prefiggono a lungo termine

Da: Le dee dentro la donna di Jean Shinoda Bolen
http://www.celticworld.it/sh_wiki.php?act=sh_art&iart=794&im=1

lunedì 13 dicembre 2010

La Ruota dell'Anno nella Wicca


Nel passato, quando le persone vivevano con la natura, il volgere delle stagioni ed i cicli mensili della Luna avevano un profondo impatto sulle cerimonie religiose. Poiché la Luna era vista come un simbolo della Dea, si tenevano delle cerimonie di adorazione e di magia al suo chiarore. Anche l’arrivo dell’inverno, i primi segnali della primavera, la calda estate e l’avvento dell’autunno, erano segnati da questi rituali.
I wiccan, eredi delle religioni popolari pre-cristiane europee, celebrano ancora la Luna Piena ed osservano i cambi delle stagioni. Il calendario religioso wiccan contiene 13 celebrazioni della Luna Piena ed otto Sabbat, o giorni di potere.
Quattro di questi giorni (o più propriamente notti) sono determinati dai Solstizi e dagli Equinozi, gli inizi astronomici delle stagioni (tracce di questa antica usanza si trovano anche nella cristianità. La Pasqua, per esempio, cade nella domenica seguente la prima Luna Piena dopo l’Equinozio di Primavera, un modo piuttosto “pagano” di organizzare riti religiosi). Le ricorrenze degli altri quattro rituali si basano su antiche feste popolari (e, in un certo modo, quelle dell’antico Vicino Oriente). I rituali danno una struttura ed ordine all’anno wiccan, ed inoltre ci ricordano del ciclo infinito che continuerà molto a lungo anche quando noi non ci saremo più.
Quattro Sabbat – forse quelli che sono stati osservati più a lungo - probabilmente erano associati all’agricoltura ed ai cicli di gestazione degli animali. Sono Imbolc (2 febbraio), Beltane (30 aprile), Lughnasadh (1 agosto) e Samhain (31 ottobre). Questi nomi sono celtici e sono abbastanza comuni tra i wiccan, anche se ne esistono molti altri.
Quando un’attenta osservazione dei cieli portò ad una conoscenza pratica dell’anno astronomico, i Solstizi e gli Equinozi (circa il 21 marzo, 21 giugno, 21 settembre, e 21 dicembre) furono introdotti in questa struttura religiosa.
Chi cominciò per primo ad adorare e ad accumulare le energie in quei giorni? Non si può rispondere a questa domanda. Tuttavia, questi giorni e queste notti sacre sono l’origine delle 21 festività rituali wiccan.
Molte di queste sopravvivono ancora oggi sia in forma secolare che religiosa. Celebrazioni del Primo Maggio, Halloween, il Giorno della Marmotta ed anche il Ringraziamento, per citare alcune popolari feste americane, sono tutte connesse ad antiche celebrazioni pagane. Inoltre, nella Chiesa Cattolica, sono state mantenute delle versioni fortemente cristianizzate dei Sabbat.
I Sabbat sono riti solari, che segnano la posizione del ciclo annuale del Sole, e sono la metà dell’anno rituale wiccan. Gli Esbat sono le celebrazioni wiccan per la Luna Piena. In quei giorni i wiccan si incontrano per adorare Colei che È. Non che i wiccan dimentichino il Dio durante gli Esbat – entrambi di solito sono onorati in tutte le occasioni rituali.
Ci sono dalle 12 alle 13 Lune Piene ogni anno, una ogni 28 giorni e ¼. La Luna è un simbolo della Dea, come pure una fonte di energia. Così, dopo l’aspetto religioso degli Esbat, i Wiccan spesso praticano la magia, attingendo alle grandi quantità di energia che ritengono esistano in quei giorni.
Alcuni antichi festival pagani, spogliati dalla dominazione della cristianità delle loro qualità un tempo sacre, sono degenerati. Sembra che Samhain sia stato requisito dai produttori di dolciumi, mentre Yule è stato trasformato da uno dei più sacri giorni pagani ad un giorno di squallido consumismo. Anche le successive eco della nascita del Salvatore cristiano sono a mala pena udibili sopra il mormorio elettronico dei registratori di cassa.
Ma l’antica magia rimane in questi giorni e notti, ed i wiccan li celebrano. I rituali variano di molto, ma sono tutti collegati alla Dea ed al Dio, ed alla nostra casa, la Terra. Molti riti si tengono di notte per motivi pratici, ma anche per conferire un senso di mistero. I Sabbat, dato che sono orientati al Sole, si celebrano più naturalmente a mezzogiorno, o al tramonto, ma oggi questo è raro.
I Sabbat ci raccontano una delle storie della Dea e del Dio, della loro relazione, e dell’effetto che questa ha sulla fecondità della Terra. Ci sono molte variazioni a questi miti, ma questa è abbastanza comune, e comprende delle descrizioni basilari dei Sabbat.
La Dea dà alla luce un figlio, il Dio, a Yule (circa il 21 dicembre). Questo non è affatto un adattamento della cristianità. Il Solstizio d’Inverno è stato a lungo visto come un momento di nascita divina. Si diceva che Mitra fosse nato in quel giorno. I cristiani lo hanno semplicemente adattato a loro uso nel 273 d.C.
Yule è il momento della massima oscurità ed è il giorno più corto dell’anno. I popoli antichi hanno notato questo fenomeno e supplicavano le forze della natura di allungare i giorni ed accorciare le notti. I wiccan talvolta celebrano Yule poco prima dell’alba, poi guardano il Sole sorgere come il finale migliore per i loro sforzi.
Dato che il Dio è anche il Sole, questo segna anche il momento dell’anno in cui il Sole rinasce. Perciò i wiccan accendono fuochi o candele per dare il benvenuto al ritorno della luce del Sole. La Dea, che dorme per tutto l’inverno del suo travaglio, si riposa dopo il parto.
Yule è ciò che resta degli antichi rituali celebrati per affrettare la fine dell’inverno ed i doni della primavera, quando il cibo era di nuovo a disposizione in abbondanza.
Per i wiccan contemporanei è un monito del fatto che il prodotto finale della morte è la rinascita, un pensiero confortante in questi giorni di tensione.
Imbolc (2 febbraio) segna il recupero della Dea dopo aver dato alla luce il Dio. I momenti di luce sempre più lunghi la risvegliano. Il Dio è un fanciullo giovane e vigoroso, ma si avvertono i suoi poteri nelle giornate più lunghe. Il calore feconda la Terra (la Dea), fa crescere e germogliare i semi. E così si notano i primi accenni della primavera.
Questo è un Sabbat di purificazione dopo la vita rintanata dell’inverno, attraverso i poteri di rinnovamento del Sole. È anche una festa della luce e della fertilità, un tempo caratterizzata in Europa da grandi fuochi, torce e falò di ogni tipo. Il fuoco qui rappresenta la nostra illuminazione ed ispirazione proprio come la luce ed il calore.
Imbolc è anche conosciuto come la Festa delle Torce, Oimelc, Lupercalia, la Festa di Pan, il Festival dei Bucaneve, la Festa della Luce Crescente, il giorno di Brigida, e probabilmente con molti altri nomi. Alcune donne wiccan seguono l’antica usanza scandinava di indossare corone di candele accese in testa, ma molte altre persone portano candele durante le loro invocazioni.
Questo è uno dei momenti tradizionali di iniziazione nelle coven, e così si possono eseguire rituali di auto-consacrazione, o si possono anche rinnovare quelli già fatti.
Ostara (circa il 21 marzo), l’Equinozio di Primavera, conosciuto anche come Primavera, Riti della Primavera, e Giorno di Eostra, segna il primo autentico giorno di primavera. Le energie della natura passano delicatamente dalla pigrizia dell’inverno all’esuberante espansione primaverile. La Dea ricopre la Terra di fertilità, irrompendo dal suo sonno, mentre il Dio si sgranchisce e passa alla maturità. Egli cammina per i verdi prati e si delizia nell’abbondanza della Natura.
Durante Ostara le ore del giorno e della notte sono uguali. La luce sta superando l’oscurità; la Dea ed il Dio portano alla riproduzione le creature selvatiche della Terra.
Questo è un periodo di inizi, di azione, di incantesimi per seminare ciò che sarà raccolto in futuro, e per prendersi cura dei giardini rituali.
Beltane (30 aprile) segna l’emergere del giovane Dio all’età adulta. Risvegliato dalle energie all’opera nella Natura, egli desidera la Dea. Si innamorano, giacciono fra l’erba ed i boccioli, e si uniscono. La Dea rimane incinta del Dio. I wiccan celebrano il simbolo della sua fertilità con un rituale.
Beltane (conosciuto anche come Giorno di Maggio) è stato a lungo caratterizzato da feste e rituali. I pali di maggio, simboli notevolmente fallici, erano il punto focale degli antichi rituali nei villaggi inglesi. Molte persone si svegliavano all’alba per raccogliere fiori e frasche verdi dai campi e dai giardini, e li usavano per decorare il palo di maggio, le loro case, e loro stessi.
I fiori ed il verde simboleggiano la Dea; il palo di maggio il Dio. Beltane segna il ritorno della vitalità, della passione e delle speranze consumate.
I pali di maggio talvolta sono usati dai wiccan oggi durante i rituali di Beltane, ma il calderone è il punto focale più comune della cerimonia. Esso rappresenta, naturalmente, la Dea – l’essenza della femminilità, la fine di tutti i desideri, uguale, ma opposto al palo di maggio, che rappresenta il Dio.
La Mezza Estate, il Solstizio d’Estate (circa il 21 giugno), conosciuto anche come Litha, arriva quando i poteri della natura raggiungono il loro punto più alto. La Terra trabocca della fertilità della Dea e del Dio.
In passato, si saltava oltre i falò per incoraggiare la fertilità, la purificazione, la salute e l’amore. Il fuoco ancora una volta rappresenta il Sole, festeggiato in questo giorno con il maggior numero di ore di luce.
La Mezza Estate è un classico giorno per tutti i tipi di magie.
Lughnasadh (1 agosto) è il giorno del primo raccolto, quando le piante della primavera appassiscono, e rilasciano i loro frutti o i semi affinché noi possiamo usarli ed anche per assicurare futuri raccolti. In modo mistico, anche il Dio fa così, e perde la sua forza, mentre il Sole sorge sempre più lontano a Sud ogni giorno, e le notti si allungano. La Dea osserva con dolore e gioia, mentre comprende che il Dio sta morendo, eppure vive dentro di Lei come Suo figlio.
Lughnasadh, conosciuto anche come Vigilia d’Agosto, Festa del Pane, Casa del Raccolto e Lammas, non era necessariamente celebrato in questo giorno. Originariamente coincideva con il primo giorno di raccolto.
Con il passare dell’estate, i wiccan ricordano il suo calore ed i suoi doni nel cibo che mangiamo. Ogni pasto è un atto di armonizzazione con la natura, e ci ricorda che niente è costante nell’universo.
Mabon (circa il 21 settembre), l’Equinozio d’Autunno, è il completamento del raccolto cominciato a Lughnasadh. Ancora una volta notte e giorno sono uguali, bilanciati dal Dio che si prepara a lasciare il Suo corpo fisico e comincia la grande avventura nell’ignoto, verso il rinnovamento e la rinascita della Dea.
La natura declina, ritrae i suoi doni, si prepara per l’inverno e per il suo periodo di riposo. La Dea sonnecchia con il Sole che si indebolisce, anche se il fuoco brucia nel Suo ventre. Lei sente la presenza del Dio anche mentre Egli svanisce.
A Samhain (31 ottobre), i wiccan si congedano dal Dio. Questo è un addio temporaneo. Egli non è avvolto dall’oscurità eterna, ma si prepara a rinascere dalla Dea a Yule.
Samhain, conosciuto anche come Vigilia di Novembre, la Festa dei Morti, la Festa delle Mele, ed Ognissanti, una volta indicava il tempo del sacrificio. In alcuni luoghi era il momento in cui gli animali venivano macellati per assicurasi il cibo per tutta la profondità dell’inverno. Il Dio – identificato con gli animali – cadeva per assicurare la continuazione della nostra esistenza.
Samhain è un momento di riflessione, per guardarsi indietro nell’anno trascorso, per venire a patti con l’unico fenomeno della vita sul quale non abbiamo controllo – la morte.
I wiccan sentono che questa notte la separazione tra la realtà fisica e quella spirituale è sottile. Ricordano i loro antenati e tutti quelli che sono andati prima.
Dopo Samhain,  i wiccan celebrano Yule, e così la ruota dell’anno è completa.
Sicuramente ci sono dei misteri sepolti qui. Perché il Dio è il figlio e poi l’amante della Dea? Questo non è un incesto, è un simbolismo. In questa storia agricola (uno dei molti miti wiccan) la sempre mutevole fertilità della Terra è rappresentata dalla Dea e dal Dio. Questo mito parla dei misteri della nascita, della morte, e della rinascita. Celebra gli aspetti meravigliosi e gli splendidi effetti dell’amore, ed onora le donne che continuano la nostra specie.
Inoltre indica la vera e propria dipendenza che gli umani hanno nei confronti della Terra, del Sole e della Luna, e degli effetti delle stagioni nella nostra vita di tutti i giorni.
Per le popolazioni agricole, la spinta maggiore di questo ciclo mitologico è la produzione di cibo attraverso l’azione reciproca tra la Dea ed il Dio. Il cibo – senza il quale noi tutti moriremmo – è intimamente collegato alle divinità. Infatti, i wiccan vedono il cibo come un’altra manifestazione dell’energia divina.
E così, osservando i Sabbat, i wiccan si armonizzano con la Terra e le sue divinità. Riaffermano le loro radici con la Terra. Anche eseguire rituali nelle notti di luna piena rafforza la loro connessione in particolare con la Dea.
Il wiccan saggio celebra i Sabbat e gli Esbat, perché sono momenti di potere reale ed anche simbolico

Da Wicca. Una guida per praticanti solitari di Scott Cunningham

sabato 11 dicembre 2010

La Ruota dell'Anno


L’uomo antico, a differenza di quello moderno (la cui esistenza si svolge ormai tutta all’interno di un orizzonte materialistico e deterministico), si sentiva parte costitutiva dell’universo, visto come un tutt’uno (universo per l’appunto…), una trama dell’essere dove ogni “filo” era collegato agli altri per mezzo di legami sottilissimi eppure indistruttibili. La stessa divinità non era un ente separato dal cosmo ma allo stesso tempo creatrice e parte essenziale dell’universo. In questo cosmo dove anche il più piccolo granello di sabbia era unito misteriosamente a stelle e pianeti (una concezione simile tra l’altro a quelle delle più avanzate teorie scientifiche), l’essere umano si considerava, pur con tutti i suoi limiti, un collaboratore degli Dei nell’impegnativo compito di mantenere l’ordine cosmico, un “Figlio della Terra e del Cielo stellato” come recitano le antiche iscrizioni orfiche.
Ogni momento di passaggio determinato dai moti celesti (il Cielo) e dal volgere delle stagioni (la Terra) veniva a configurarsi come un momento sacro, caratterizzato da energie particolari, vibrazioni specifiche che risuonavano secondo regole precise nel mondo minerale, vegetale ed animale, nonché ovviamente in quel microcosmo che è il complesso umano di corpo-anima-spirito.
Così in questi momenti particolari, queste date dell’anno, venivano celebrate con riti e feste che avevano lo scopo di permettere agli esseri umani di entrare in contatto con le forze cosmiche, più percepibili allora che in qualsiasi altro momento. E allo stesso tempo gli umani avevano la possibilità di aiutare con le proprie energie queste forze affinché il mondo potesse continuare ad esistere in modo conforme alle eterne leggi della Natura.
I momenti critici dell’anno venivano dunque ad assumere, secondo queste antiche concezioni, la natura di “porte”. Porte che periodicamente si aprivano su altre dimensioni, consentendo a tutti un sia pur fugace contatto con le energie divine, contatto che era altrimenti privilegio di pochi iniziati ed eroi mitici. Quelli che noi oggi denominiamo calendari, per le antiche civiltà erano in realtà complessi e raffinati codici rituali, elaborati al fine di costituire un collegamento cosmico con la Terra e il Cielo.
Pur diversi l’uno dall’altro per motivi culturali e ambientali, condividevano in varia misura una concezione comune: in essi il tempo non appariva come una sequenza lineare di fatti unici e casuali ma come un ciclo eterno di nascita-vita-morte-rinascita. Il cerchio era il simbolo che caratterizzava questa concezione ciclica (dal greco kiklos = cerchio) dello scorrere del tempo. E la parola latina annus, anno, significa appunto circolo. La figura di un serpente circolare che si morde la coda, l’ourobos egizio, è forse la rappresentazione iconografica più diffusa della concezione ciclica del tempo.
Per gli antichi ogni cosa era inserita all’interno di un ciclo, ognuna con il proprio ritmo e con la propria energia particolare: dal ciclo lunare mensile a quello stagionale-annuale fino ai cicli maggiori del Grande Anno (i 25.920 anni circa determinati dalla precessione degli equinozi, cioè dal lento movimento della Terra intorno al proprio asse, il quale fa sì che il punto vernale – l’equinozio di primavera – si sposti molto lentamente a ritroso lungo il cerchio zodiacale, sorgendo ogni 2.000 anni circa n un segno zodiacale diverso) e delle Grandi Ere.
Secondo quest’ultima dottrina, comune a moltissime civiltà antiche, l’umanità era passata da una mitica epoca di beatitudine e di armonia con il  cosmo a ere sempre più degradate, fino al caos e alla dissoluzione. Questa era la dottrina greca delle quattro ere (dell’Oro, dell’Argento, del Bronzo e del Ferro), rispecchiante quella induista dei quattro Yuga (Krita, Treta, Dvapara e Kali). Anche i nativi americani narravano di un bisonte cosmico che si reggeva sulle sue quattro zampe: ad ogni era ne perdeva una. Per inciso oggi ci troviamo nell’Era del Ferro o Kali Yuga (Età Oscura) e il bisonte a fatica si regge su una sola zampa…
Ma in tutte queste visioni la fine di ogni ciclo non conduce ad una fine assoluta bensì ad un nuovo inizio, dove gli esseri ricominciano ad animare la trama di un cosmo rigenerato, diverso dal precedente eppure uguale ad esso. Quella che a noi può sembrare una ripetizione ossessiva di gesti, azioni e cicli, per gli antichi non era altro che la conferma rassicurante delle eterne leggi del cosmo, leggi che fondono in un’armonia perfetta sia l’ordine che il caos, la luce e la tenebra, la vita e la morte. Gli antichi forse sarebbero rimasti sgomenti di fronte alla nostra moderna concezione lineare di un tempo che sorge dal nulla e in una linea ascendente di “progresso” termina ugualmente nel nulla, lasciando il posto a nebulosi regni ultraterreni, paradisi, inferni o nirvana che siano. Per gli antichi ogni fine era un inizio e ogni inizio una fine, dove ogni cosa esistente era coinvolta, non solo a livello spirituale ma anche a livello materiale.
La dottrina ciclica del tempo può essere benissimo rappresentata da una ruota, la Ruota dell’Anno che percorre il suo cammino lungo sentieri sempre diversi eppure sempre uguali.
Dalle concezioni pre-cristiane dell’Antica Europa emerge così l’immagine di una ruota a otto raggi, ciascuno dei quali corrisponde ad un momento critico di passaggio, ad una festa sacra.
La Ruota dell’Anno è un calendario sacro che unisce e fonde in sé due separati eppure connessi cicli: il primo ciclo è quello del mistico viaggio del Sole attraverso il cielo, che si snoda attraverso i due solstizi e i due equinozi, narrandoci la nascita, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia dell’astro.
Il secondo ciclo è quello stagionale, che ci mostra le vicissitudini delle divinità agrarie e pastorali attraverso il tema di semina-fioritura-maturazione-raccolto.
Queste ultime feste sono chiamate col loro nome celtico perché i Celti ci hanno lasciato un ricco patrimonio mitico e folklorico su di esse anche se le medesime date erano celebrate con diversi nomi presso altre civiltà europee e mediterranee.
I due cicli sono in realtà tra loro collegati e interdipendenti, poiché le stagioni dipendono dai moti del Sole e il Sole si manifesta attraverso i mutamenti stagionali. Essi formano un insieme armonioso e coerente, suddividendo l’intero anno in otto “spicchi” di uguale durata.
Occorre ricordare però che l’ottuplice ruota non ha solo un significato esteriore, materiale, “naturalistico”, poiché i momenti critici di passaggio nello scorrere del tempo hanno una risonanza anche a livello dell’interiorità umana. Risonanza psicologica perché ogni fase del ciclo influisce indubbiamente sul nostro umore e sul nostro comportamento (anche se purtroppo al giorno d’oggi raramente ce ne rendiamo conto). E anche risonanza a livello spirituale, dal momento che le feste sacre ci offrono la possibilità di riconnetterci alle energie divine del cosmo e della Natura, rispettando la funzione principale di tutti i calendari così come erano stati ideati nell’antichità.
Per tutti questi motivi la Ruota dell’Anno ha conservato tutta la sua validità nel corso dei secoli, e ancora oggi è il calendario sacro di tutti quei movimenti spirituali che si rifanno alle religioni della Natura: Neo-Druidismo, Neo-Paganesimo, Wicca, Spiritualità della Dea e altri ancora. Inoltre il suo schema è sottinteso ancora a moltissime celebrazioni folkloriche o cristiane, anche se di ciò ovviamente non sempre siamo consapevoli

Da Feste Pagane, Roberto Fattore, Macro Edizioni