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venerdì 31 agosto 2012

Il fuoco segreto



Solo chi ha l’anima luminosa può entrare nel sogno della Grande Dea.
Le antiche Donne in ogni loro vita impararono e riimpararono a renderla lucente come uno specchio d’argento e limpida come l’acqua di una fontana.
Giorno dopo giorno resero immune la loro anima da ogni oscurità, estirpando le male piante dei cattivi sentimenti, così come un bravo contadino toglie dal suo orto le erbe infestanti per avere un buon raccolto.
La resero capace di dominare i pensieri che i poveri uomini mortali credono che rappresentino il centro ed il fulcro della loro esistenza.
La resero capace di non farsi distrarre od affascinare dalle mille artificialità che continuamente vengono create per catturare l’interesse delle persone.
La resero sempre più simile alla grande anima della Madre fino al punto in cui Essa poté specchiarsi in loro ed illuminarle di un magico biancore, come la bianca luce della Luna fa con le acque pure dei laghi incontaminati d’alta montagna.
Sempre più facilmente l’antica Dea poté sentirle parte del suo sogno, dato che cercavano sempre di più la comunione con Lei.
E ad un certo punto si resero conto, provando per questo motivo una gioia infinita, di essere parte di Lei, così come erano parte di Lei tutte le cose buone e reali che ancora erano nel mondo e che ancora venivano sognate amorosamente dalla Madre.
E con queste parole manifestarono la loro gioia e la consapevolezza di ciò ch erano alla Dea antica:
“Oh, Signora dal dolce sorriso, ora ci sentiamo parte di Te.
Ci sentiamo come le innumerevoli gocce d’acqua che assieme formano il grande mare, come le numerose foglie di un albero gigantesco ed antico che pur sembrando separate fanno parte di uno stesso corpo.
Ora facciamo veramente parte del tuo sogno di gioia, così come il cielo, il sole, la pioggia, le montagne, gli animali, le stelle e l’intero universo.
Tu sognando sei, e le cose buone e belle che continuamente generi e rigeneri nel tuo sogno sono il tuo immenso corpo di gioia.
Ora noi di esso facciamo parte, dato che noi viviamo in modo conforme al tuo sogno armonioso”.
E così in loro parlò la Grande Madre:
“Siate lieti come Io sono lieta, amorose come Io sono amorosa, e libere come Io sono libera, dato che Io sono voi e voi siete Me.
Beate quelle che riescono ad uscire dal vincolo del proprio io e della propria mente e ad espandersi nell’amore sterminato che sta al di là dell’oscurità e delle apparenze.
Beate quelle che da quell’amore non si distinguono, né ad esso si oppongono, ma sempre di più in lui si integrano e si identificano fino a diventarne parte per sempre.
Quell’amore raro, quell’amore vasto, quell’amore completo, quell’amore sacro che quasi più nessuno conosce, né cerca, né pensa che possa esistere.
Quell’amore in cui si congiungono e si risolvono i due principi, il fuoco e l’acqua, il cielo e la terra, la vita e la morte, la materia e lo spirito.
Chi conosce quell’amore, entrando in comunione con Me esce, come un fiume in piena, dai piccoli limiti del suo io e supera la semplice condizione di donna, dato che la Madre è anche il Padre, è maschio e femmina, uomo e donna, potendo perciò generare senza congiungersi con alcuno tutte le cose buone e belle dei mondi.
Ma perché ciò possa succedere, perché voi vi possiate espandere, perché voi possiate comprendere i due opposti ed integrarli fino a farne una cosa sola, dovrete fare del vostro corpo e della vostra mente un tempio, nel quale accendere il fuoco di quell’amore senza inizio e senza fine che è l’amore della Madre, congiunta con il Padre.
Beate quelle che lo accenderanno e che impareranno a percepire la struggente e languida armonia del fuoco sacro che arde in loro.
Volgendo ad esso la loro attenzione, permarranno nella gioia e più nulla potranno su di loro le oscurità e le cattiverie che dominano il mondo.
È facile, per quelle che hanno acceso in se stesse il fuoco sacro, concentrarsi su di esso, dato che l’armonia e l’ebbrezza che proveranno, facendo ciò, saranno molto più forti di qualsiasi vana distrazione che può venire loro dal mondo esterno.
E se anche le incombenze e le necessità di adempiere obblighi e doveri fastidiosi le costringeranno a distrarsi da esso, facilmente ritroveranno il suo languido calore quando saranno sole con se stesse nelle loro case.
Concentrandosi su quel fuoco, vivendo di quel fuoco, annichilendo i pensieri e le emotività per mezzo di quel fuoco, esse intenderanno la comunione con la Madre, esse celebreranno il sacrificio segreto che le rende come la Madre, esse diventeranno la Madre, e conosceranno la congiunzione e l’amore tra il fuoco e l’acqua, tra il maschio e la femmina divini, tra il Sole e la Luna, e di essi diverranno figlie.”
Così le Donne che erano nel sogno della Madre ottennero una gioia, una tranquillità ed una segreta ed indicibile ebbrezza che non erano dovute a nulla che ad esse fosse esterno.
Non solo non era basata sulle cose che altre avidamente cercavano, ma neppure esse avevano bisogno di amanti, di sposi o di figli.
Ed anche se esse non ne sentivano il bisogno, non c’erano uomini adatti a loro nel mondo, dato che nessuno avrebbe potuto capire che esse non erano delle persone, ma delle parti del corpo della Madre.
Di conseguenza solamente chi avesse saputo amare nel modo dovuto l’antica Dea della quale facevano parte, avrebbe potuto ottenere il loro amore che avrebbe avuto il senso di un congiungimento con l’antica Dea attraverso di loro.
Ed esse ritennero quindi che era meglio rimanere vergini, piuttosto che unirsi con i maschi superficiali, oscuri, falsi, tristi, aggressivi o vanesi.
Ma anche con gli uomini di buon carattere, gentili, sensibili ed educati, incapaci però di intendere il loro segreto, che non avrebbero capito e non avrebbero potuto concepire.
Quegli uomini che erano infinitamente lontani dall’aspetto maschile del Dio dalla doppia natura, che esse conoscevano in sé, e che non avrebbero mai accettato di considerare loro ed il loro corpo come parte del meraviglioso corpo della Dea e soprattutto sacra la loro intimità femminile.
Ed invece le figlie della Dea percepivano il loro grembo come un tempio in cui intendevano il mistero della grotta e della sorgente d’armonia, ed in cui più facilmente la Madre si manifestava e parlava a chi poteva intendere la sua amorosa voce.
Nel languore del loro grembo potevano udire l’eco del suo perenne canto, della sua gioia e della sua libertà slegata dai limiti e dai condizionamenti che un rapporto, anche ottimale, con il maschio che non conoscesse né condividesse queste cose, avrebbe fatto sorgere.
Del resto sentivano ormai in se stesse unirsi la forza e la dolcezza, l’azione e la contemplazione, il fuoco e l’acqua, il principio maschile e quello femminile ed avendo quindi in se stesse le buone virtù della femmina, ma anche del maschio, non avevano bisogno di cercare un uomo fuori di sé.
Non avevano più bisogno di appoggiarsi ad alcuno, di affidarsi ad alcuno, o di farsi guidare da qualcuno.
Come la Dea antica, che portava in sé armoniosamente congiunti i due principi, si sentivano complete, piene e sufficienti a se stesse.
E se pur nei tempi antichi, quando la religione della Madre era quella che gioiosamente seguivano le genti, alcune di esse si offrivano senza pudore nei templi a coloro che erano capaci di intendere il sacro significato dell’amplesso con loro, ovvero danzavano nude davanti alla tribù per far intendere con le loro languide ed armoniose movenze la bellezza della Dea, ora quelle stesse Donne avrebbero potuto essere giudicate incapaci di provare il piacere dell’amore, mentre invece evitavano e respingevano l’amore che non poteva più essere sacro.
Le Donne antiche non erano quindi assolutamente contrarie all’intimità amorosa, né in essa vi vedevano alcunché di peccaminoso, così come alcuni predicavano. Sentivano piuttosto che la Madre, della quale facevano parte e che in loro viveva, non apprezzava e riteneva del tutto profano il modo d’essere degli uomini con i quali avrebbero potuto congiungersi ed il loro modo di porsi e di agire con le donne.
Il loro modo di possedere, il loro modo di sovrastare, il loro modo di imporsi e di sentirsi padroni durante i loro egoistici rapporti.
Il loro modo di considerare l’intimità come un piacere fisiologico, un accadimento materiale, che raggiungeva l’apice del piacere nell’emissione del loro seme, con il quale essi consideravano concluso il rapporto.
Quel seme maschile che portava in sé le tracce sottili del modo d’essere di chi l’emetteva.
Quel seme che, versandosi nell’intimità femminile, vi portava l’eco della lontananza dal sacro degli uomini che lo avevano emesso.
Se con essi si fossero unite, forse avrebbero potuto profanare la sacralità della loro intimità ed annichilire la magia segreta del loro tempio di carne.
E l’obbedire alla giusta volontà dell’antica Dea, piuttosto che ad un desiderio che avrebbe potuto spegnere la sua voce in loro, era assai facile, dato che la scelta era tra il divenire e l’essere, tra il profano ed il sacro, tra il lasciarsi andare ed il rimanere salde, tra il farsi coinvolgere dalle cose del mondo ed il rimanere fedeli, tra il ritornare nel tenebroso vortice dei desideri ed il rimanere nella luce della consapevolezza.
Anche per questo motivo quelle Donne non ebbero quasi mai figli, dato che il loro concepimento necessitava di una intimità amorosa, che per loro era pressoché impossibile trovare alle loro inderogabili e severe condizioni.
Il loro rifiutare mariti od amanti impedì ad esse di avere dei figli ed una discendenza alla quale avrebbero potuto cercare di trasmettere le loro conoscenze ed i loro misteri.
Ma questo fatto fu probabilmente un bene, per il motivo che non è assolutamente sicuro che i figli, e soprattutto nel loro caso le figlie, rechino in sé le caratteristiche della madre e le sue vocazioni e predisposizioni.
Ed il rinunciare ad avere delle figlie, che con molte probabilità avrebbero potuto mettersi in contrasto con loro e soprattutto con l’amoroso sogno che esse rappresentavano e che in loro continuava a vivere, sicuramente in molte causò dei momenti di tristezza, ma anche la consapevolezza di essersi evitate complicazioni e difficoltà che avrebbero potuto metterle a dura prova.

Da: La voce dell’antica Madre di Ada d’Aries

In Alchimia il fuoco segreto è l’agente trasmutatorio principale. C’è un fuoco che non è un fuoco volgare di fiamma e che compie tutte le operazioni alchemiche.
Non è un composto chimico complesso. Non è né un metallo, né un acido, né un alcol. Non è nemmeno l’elettricità, né i raggi X, né il magnetismo animale. Questo fuoco è stato chiamato anche l’agente primordiale, il sale filosofico, il fuoco-acqua, l’acqua che non bagna le mani, l’Alkaest: il dissolvente universale, La Rugiada di Maggio, l’acqua mercuriale, l’acqua ignea e in tanti altri modi ancora, poiché non c’è una esatta terminologia alchemica. Il significato di un termine dipende dal contesto nel quale si trova, poi molto spesso i procedimenti sono spezzati e mescolati dal punto di vista temporale. Molto importanti sono sempre le illustrazioni dei trattati, infatti c’è un libro stampato in Francia nel 1677, chiamato Mutus Liber in quanto formato di sole immagini.
Una delle tavole di questo libro ci mostra un uomo ed una donna intenti a strizzare dei panni che sono stati lasciati sull’erba durante la notte, mentre nello sfondo si vedono pascolare un toro ed una pecora. I due animali rappresentano la primavera cioè i segni zodiacali di Ariete e Toro: è in questo periodo che bisogna raccogliere la rugiada, prima dell’alba. Questa rugiada è carica dello Spiritus Mundi, di un’energia che proviene dal cosmico, dal Sole e che viene però condensata tramite riflessione dalla Luna. Questa rugiada potrà poi essere usata per fini curativi o dopo particolari lavori, per nutrire il sale che permetterà l’unione di Zolfo e Mercurio.
C’è insomma un’energia che si può catturare ed il composto alchemico ad un certo punto viene chiamato anche calamita, in quanto attrae sempre di più l’energia cosmica.
Nell’antico Egitto si narra che il Faraone potesse controllare un particolare raggio cosmico chiamato raggio verde. Il sale alchemico saturo di energia ad un certo punto diviene verde. La bibbia degli alchimisti, cioè la tavola smeraldina attribuita ad Ermete Trismegisto, è appunto incisa sopra una tavola di smeraldo verde.
Ma se è possibile con determinati procedimenti o supporti o macchine catturare questa energia, probabilmente lo si può fare anche con lo strumento più complesso che esiste nell’universo: il corpo umano. Gli alchimisti adibivano un angolo del loro laboratorio a oratorio, nel primo si compiva l’evoluzione della materia, nel secondo l’evoluzione dell’operatore stesso, ma l’agente evolutivo era lo stesso: IL FUOCO SEGRETO DEI SAGGI, l’energia cosmica che penetra ogni cosa, il verbo che fu all’inizio, le lingue di fuoco discendenti sugli apostoli, il potere di Kundalini, il Ki dei taoisti.
Non va confuso con il magnetismo personale, è un energia che entra nell’uomo, che prima deve farsi vuoto, deve divenire la coppa o il vaso che possa contenere la bevanda degli dei. La preghiera o la meditazione possono arrestare il flusso psicomentale e permettere a questa energia di entrare. Forse questa energia si concentra nel ventre, in quello che in Giappone viene chiamato Hara. Iconograficamente un ventre prominente, magari con sopra disegnata una spirale simboleggia questa energia immagazzinata nel centro addominale. Anche alcune tecniche dell’esicasmo cristiano uniscono la respirazione, la preghiera e la consapevolezza di questo centro, focalizzando l’attenzione visiva sull’ombelico. Si può ipotizzare che un lavoro alchemico sul corpo umano porti a lavorare sui chakras, i sette centri dell’uomo secondo le filosofie orientali.

Da:
www.gianobifronte.it/2.../2f.../00.../reiki__il_fuoco_segreto.pdf

Ridiscendendo, prima di reinserirsi nel suo corpo fisico, l'Iniziato va a conoscere l'illuminazione; un fuoco eterico, luminoso ed estremamente vivente si anima in lui, una corrente di energia sale, a partire dalla base della colonna vertebrale e percorrendo l'Iniziato, decuplica il suo fuoco. Durante la salita dell'energia, l’Iniziato diventa un diamante fiammeggiante, tutti i suoi chakras si animano e si aprono ad una coscienza in comunione con l'energia Divina; l'Iniziato diventa un fuoco ardente, cosciente e vivente.
Tutto il suo essere vibra e risponde all'energia Divina che si scarica in lui; l'intensità del fuoco decresce ed egli reintegra piano piano il suo corpo, apre gli occhi. Adesso conosce che la sua Opera è solamente iniziata; la sua fede, da questo momento, è sostituita dall'esperienza dello Scibile e niente, in nessun modo, potrà mai cancellarla.


Da: http://www.rosacroceoggi.org/pagine.esotertiche/iniziazione.fuoco.htm


venerdì 25 marzo 2011

Massimo Scaligero

“Il 26 gennaio 1980 “alle prime luci dell’alba”, mentre attendeva al lavoro con la sua abituale solerzia, Massimo Scaligero penetrava cosciente in quel mistero che già piú volte aveva indicato come l’unica realtà, con cui ha a che fare l’operatore dello spirito”. Con queste parole io annunciavo la scomparsa di un Amico e di un Maestro insuperabile, uno di quei testimoni dello Spirito che compaiono sulla scena del mondo forse solamente ogni cinquecent’anni.
In quella tristissima circostanza mi ricordai di una pia narrazione che correva fra gli Ebrei ortodossi, gli Hassidim, secondo la quale nella comune Umanità è sempre presente, inconosciuto da tutti, un Uomo Giusto, uno teodéo, che a cagione della sua rettitudine, misteriosamente sopporta il peso dei peccati, delle speranze e delle attese di tutta la sua generazione, finché stremato da tale immane fatica non soccombe, per venire sostituito da un altro Uomo Giusto che ne eredita le funzioni, e cosí avanti nei secoli fino alla redenzione finale. I Mussulmani parlano, invece, di un Polo, o di un Asse del Mondo, al-Qutb, qualità alla quale assurge un derviscio a cagione della sua virtú, che, però, dopo un giorno di tale fatica, muore ed è sostituito da un altro suo simile. Orbene, questo è stato il mio pensiero quando Egli scomparve. Soltanto che un altro Uomo Giusto non venne a riempire il suo posto, poiché egli era l’epigono di una generazione di ricercatori dello spirito che da noi si incarnarono in Giovanni Colazza, Evola, Colonna di Cesarò, Arturo Onofri e, fuori d’Italia, in Guénon, Râmana Mahárshi, Shrî Aurobindo e qualcun altro. Massimo, lo sconosciuto, era il punto finale di un ciclo, la cui caratteristica fondamentale era l’esercizio di quell’Arte Regale che risolve il mistero della Materia nell’esperienza di una spissitudo spiritualis, in cui questa si svincola come pensiero puro. L’abituale opacità minerale del mondo che ci circonda essendo determinata non da una realtà obiettiva bensí da un pensiero – il nostro – paralizzato nella sua funzione riflessa, cerebrale, che tale se la rappresenta. Ma, a parte il necessario supporto filosofico, tutta la sua vita fu caratterizzata da un’incessante azione di ricerca e didisciplina interiore: il suo insegnamento, consegnato in una ventina di opere, è un energico stimolante del metafisico. Suscita come in nessun altro l’esigenza della correlazione dell’Io con Sé, su cui – fra l’altro – è basata la conoscenza, come rapporto fra Io e Altro, fra Atman e Brahman, come direbbe un Indiano. «L’unità dell’Io con il mondo è già realizzata nel percepire – dice Massimo – ma rispetto ad essa la coscienza ordinaria è in stato di sonno, onde la potenza magica dell’atto percettivo le sfugge».
Importantissima fu la sua interpretazione dello Yoga e di altri movimenti spirituali dell’Asia, di cui Evola fu il banditore nel suo Uomo come potenza.
Tutta la sua opera, e in particolare Dallo Yoga alla Rosacroce, quest’ultima un’autobiografia spirituale, volge ad una reinterpretazione dello Yoga, di cui riconosce i limiti, dovuti soprattutto alla diversa costituzione interiore dell’antico yogin, e in generale del pensiero orientale, rispetto all’uomo di occidente, assiato sulla funzione autocosciente del pensare, a cui paradossalmente non attribuisce importanza primaria nella sua Via interiore, pur vivendo in funzione di un mondo percepito nella sua modalità materiale, che è bensí il figlio del pensiero astratto, logico-discorsivo. Questa interpretazione, da Lui rigorosamente sperimentata sulla guida della Scienza dello Spirito, implica anche una esegesi delle modalità fisico-eteriche su cui opera lo Yoga classico. Dice, in particolare: «Le vie allo Yoga oggi non portano allo Spirito, bensí al corpo (qui tratta del prãnãyãma, la Scienza del Respiro) perché non muovono piú dallo Spirito, bensí dal corpo. Non è lo Yoga che va ritrovato, bensí lo Spirito: del quale lo yogi non aveva da preoccuparsi, perché lo aveva già: doveva solo giungere a servirsene».
Sua opera fondamentale, non solo per sé, ma per l’Umanità avvenire, fu l’aver tracciato una “Via rosicruciana” di cui, date le regole per la sua attuazione, ne afferma la connessione con «il Mistero cosmico del Cristo», «ossia con ciò che il Cristo è, oltre ogni rappresentazione o sentimento umano: il senso ultimo della Iniziazione solare» ...«la meditazione rosicruciana, come la piú alta che operi sulla terra, porta il discepolo a scoprire che, non nell’anima, ma nell’intimo Io, egli reca il Principio che vince i due Ostacolatori», cioè quelli denominati: Lucifero – vettore delle forze di entusiasmo, ma anche di orgoglio, vanità e presunzione – e Ahrimane – il “Satana” della tradizione persiana, quello che induce all’illusione materialistica e meccanicistica del mondo, che conducono alla paralisi delle forze pensanti ed all’esaustionedi quelle viventi.
Il Rosicruciano, piú che combatterle, deve saper utilizzare queste forze cosmiche e trasformarle in strumenti dello Spirito, perché tale è la loro funzione mediatrice. Il punto dipartenza per lo Scaligero resta sempre l’ascesi del pensiero, tramite le discipline della concentrazione e della meditazione, sí da ricondurlo alla sua primordiale natura di Verbo, essenziata di “volontà di essere”. Da questo momento in poi inizia la Operatio Solis, volta a riconquistare la verticalità operante dell’Io, di là dai poteri dell’anima, vincolati ad un’esperienza sensibile del mondo materiale. E la restituzione di quest’ultimo alla sua primordiale dimensione di luce, che è il fine della Grande Opera alchemica, a cui Massimo si era dedicato sin dall’adolescenza.

§ § § § §

In una splendida giornata di primavera, immaginiamo di avventurarci in aperta campagna: in lontananza, i profili dei monti si innalzano fino al cielo, immersi in un mare di luce.
Ovunque un calore vitale si riversa dall'alto verso il basso.
Chiniamo il nostro sguardo per contemplare il verde manto vegetale: teneri boccioli si aprono ai raggi del Sole, robusti alberi affondano le loro radici nella terra per strapparne gli umori e trasformarli - in virtù di una segreta alchimia - in linfa vitale.
Nell'erba, piccole creature si muovono e riposano. La lucertola orienta la sua testa con rapidi scatti; i suoi sensi sono fini e sempre vigili, perché troppi esseri sono in agguato in un luogo che solo sulle tele dei pittori può sembrare idilliaco.
Quando al tramonto abbandoniamo questo paesaggio che abbiamo evocato con l'immaginazione e ci ritroviamo sulle strade asfaltate della nostra città, che ne è di tale mondo meraviglioso?
Qualcuno potrebbe dire che esso è ormai "dietro" di noi, qualcun altro forse più saggio potrebbe osservare che è "dentro" di noi.
Anche in una stanza buia, chiusi tra quattro mura, noi portiamo la "natura" dentro di noi.
Ognuno tocchi con l'indice e il pollice il proprio polso: sentiremo la durezza dell'osso - è la durezza di un minerale.
Nella durezza e nella freddezza del nostro scheletro noi portiamo il regno minerale, quello che non ancora conosce la vita.
Ma di una ragazza graziosa, di una bionda ragazza che con la sua bellezza rallegri la vista si dice: "è una ragazza in fiore", è un fiore di ragazza.
Giustamente. Perchè le forze eteriche che "fuori" fanno germogliare i fiori e fruttificare gli alberi, sono le stesse forze che fanno crescere e maturare gli esseri umani. "E' bella come un fiore", "E' robusto come una quercia": la floridezza di un corpo umano sano istintivamente evoca il confronto con il regno vegetale.
Per descrivere il carattere di un individuo ci rivolgeremo però ad un altro mondo per trarre ispirazione. Un mondo che alla "vita" aggiunge "l'anima": il regno animale.
Di una persona coraggiosa si potrà affermare che ha un "cuor di leone", di un'altra più pavida che è un "coniglio".
Di un uomo dall'intelligenza acuta, facilmente si noterà lo sguardo e il profilo aquilino. Come gli animali, anche l'uomo ha brame, impulsi interiori e una particolare sensibilità al piacere e al dolore.
Vi è però nell'uomo un nucleo interiore che non trova riscontri nella natura manifesta. L'uomo parla, pensa. E non vi è altro essere che in natura sia capace di articolare pensieri.
Grazie alla forza creatrice del pensare gli uomini della nostra civiltà hanno costruito computer, satelliti artificiali, aerei.
Osservare le creazioni della moderna civiltà tecnologica riempie i nostri cuori di legittimo orgoglio: vedere un aereo che si innalza verso il cielo, col suo ventre metallico costellato diluci ad intermittenza, suscita anche un senso di bellezza: evoca quella bellezza metallica che il Novecento ha saputo produrre e che già i Futuristi cantavano all'inizio del secolo.
E tuttavia cos'è un aereo dinanzi al più gracile degli uccelli, a un colibrì? Nulla in quanto a complessità, a scioltezza, a grazia, ad efficacia nel volo. Un aereo sta ad un volatile come lo scarabocchio di un bambino sta alla Cappella Sistina.
"Dietro" un aereo sta, dietro qualsivoglia invenzione vi è l'intuizione delle menti più geniali del nostro tempo, cos'è infatti un aereo se non un "pensiero" impresso nel metallo?
Ma dietro un essere vivente vi è un pensiero superiore, il progetto di una intelligenza superiore; ecco perchè il confronto tra creazioni tecnologiche e realtà viventi è improponibile.
L'uccello che vola, il fiore che sboccia sono i "pensieri pensati dagli dei", si potrebbe dire usando una espressione "poetica".
Il pensiero umano è una scintilla di quella immensa intelligenza che dietro ogni forma della natura continuamente tesse e crea.
La ragione - il "logos" - che nell'interiorità dell'uomo è identica, consustanziale all'intelligenza cosmica che è la dimensione interiore (la "prima dimensione") di tutta la realtà visibile.
Ma se ogni uomo custodisce questa scintilla del Divino come è possibile che molti conducano una esistenza sotto tono ed alcuni addirittura si abbandonino alla disperazione?
Vi è chi, pensando male, giunge alla infelicità esistenziale. Vi è chi si ammala, a causa di un uso sbagliato del pensiero.
Il nodo della questione è proprio qui, l'uomo ha ricevuto in dono una mente consapevole ed un pensiero lucido; perchè egli è ben desto sulla terra, a seconda dell'uso che fa del proprio pensiero egli determina il proprio destino, fausto o infausto.
In un epoca che ha corrotto in una maniera del tutto singolare la forza del pensare, MassimoScaligero è venuto come un medico, come un terapeuta per guarire l'uomo, guardandone il pensiero malato.
Se il nostro pensiero non fosse malato, se esso non necessitasse di quella purificazione che per gli antichi medici greci era la premessa di ogni guarigione, cadrebbe fin d'adesso il velo che oscura l'identità del nostro spirito con lo spirito universale.
Scaligero ha voluto affidare il messaggio del suo Yoga del Pensiero Puro a libri che possiedono una chiarezza geometrica.
Si legga il primo capitolo del "Manuale pratico della meditazione", sembrerà quasi di leggere le prime pagine degli Elementi di Euclide.
Il più grave fraintendimento dell'opera di Scaligero consiste nel considerarla fredda, intellettualistica, proprio perché incentrata sulla necessità di coltivare il pensiero.
In realtà Massimo insegna che il pensiero liberato agisce nell'uomo come nella pianta agisce quella misteriosa forza che trasforma la zolla bruna in verde linfa vitale.
Scaligero ha mostrato che tra un uomo che pensa e un fiore che sboccia vi è uno stretto legame. E ancor più stretto è il legame tra la mente dell'uomo e il pensiero universale che tesse negli spazi cosmici.
A questo si riferiva Giovanni quando nel prologo del suo Vangelo parlava del "Logos" che è in Principio. Ma ad esso si riferiva anche Eraclito quando diceva: "Per quanto tu vada e per quanto tu cerchi, mai giungerai ai confini dell'anima".
A tal punto è profondo il suo "Logos".

venerdì 25 febbraio 2011

I Rosacroce

Franz Hartmann (1838-1912), fondatore della Società Teosofica Tedesca e dell'Ordo Templi Orientis
Alcuni secoli  or sono il nome di “Rosacroce”  ebbe una grande risonanza nel mondo. Ma come misteriosamente era spuntato all’orizzonte altrettanto misteriosamente non tardò ad eclissarsi.
Si diceva che questi “Rosacroce” formassero una società segreta di uomini dotati di poteri sovrumani se non addirittura soprannaturali. Si diceva che essi sapevano predire il futuro, che conoscevano i più reconditi misteri della natura, come trasformare il ferro, il bronzo, il piombo e il mercurio in oro; preparare un elisir di vita o “panacea universale” con la quale conservarsi giovani per tempo indefinito; e si affermava inoltre che essi sapevano comandare agli spiriti elementali della Natura e che conoscessero il segreto della “pietra filosofale”: quel portentoso elemento che conferiva l’onnipotenza, l’immortalità e la saggezza suprema. Molti fatti storici sembrano confermare la verità di queste asserzioni e vi sono tuttora documenti autentici nei quali si dimostra che l’oro, in alcune circostanze, è stato veramente preparato con mezzi artificiali. Nondimeno i Rosacroce affermavano ripetutamente che una tale arte non era che un lato insignificante della loro scienza divina e che essi possedevano segreti di ben altra importanza.
Alcuni terapeuti, che si diceva appartenessero ai Rosacroce, guarivano gli ammalati con la semplice imposizione delle mani o con qualche prodigiosa medicina e organizzavano cerimonie e feste pari in meraviglia a quelle di cui parlano la Bibbia, gli scritti sacri e la storia delle antiche religioni.
Di alcuni di questi Rosacroce si diceva che avessero vissuto parecchie centinaia d’anni e di altri che da secoli vivessero tuttora sulla Terra.
Gli stessi Rosacroce, lungi dallo smentire questo fatto, affermano che in natura vi sono leggi occulte e poteri misteriosi che la maggior parte degli uomini non immagina nemmeno e che resteranno ancora per molti secoli ignoti alla “Scienza”, poiché ogni scienza si fonda sullo studio dei fatti ed i fatti devono essere percepiti prima di essere studiati.
Ora però gli organi psichici di percezione non sono ancora sviluppati sufficientemente nella maggior parte degli uomini ed essi non possono perciò vedere le cose spirituali. Essi affermavano altresì che se i nostri occhi spirituali fossero perfettamente dischiusi, noi potremmo rilevare che il mondo è popolato da esseri differenti da noi, da esseri dell’esistenza dei quali non siamo minimamente coscienti. E soggiungevano che, se fossimo perfettamente sviluppati, potremmo percepire nell’universo esseri la cui divina bellezza trascende l’immaginazione più fervida e ci si svelerebbero misteri di tal natura che, in verità, l’arte di fabbricare l’oro ci apparirebbe, in confronto, una cosa di minima importanza.
Essi parlavano degli abitatori dei quattro regni della Natura (ninfe, cioè, ondine, gnomi, silfi, salamandre e fate) come di esseri coi quali essi erano in intimi rapporti e che, lungi dall’essere creature immaginarie, sono esseri ben reali, viventi, coscienti, e pronti a servire l’uomo, a istruirlo e ad esserne a loro volta istruiti; ma con il corpo composto di sostanza eterea e troppo fina per essere percepita dai nostri sensi grossolani.
Essi parlavano di spiriti planetari che furono, un tempo, uomini come noi, ma che sono ora altrettanto superiori a noi di quanto noi siamo superiori agli animali; e affermavano seriamente che se gli uomini conoscessero i divini poteri latenti nella loro mente e, anziché dedicare tutte le loro sollecitudini alle transitorie cose della terra e ai piccoli interessi loro personali, tendessero allo sviluppo delle loro facoltà spirituali, essi potrebbero un giorno raggiungere la gloria di detti spiriti planetari, diventare cioè altrettanti Dei.
Noi non siamo in grado di dimostrare quanto ci sia di vero nelle asserzioni degli antichi e dei moderni Rosacroce e se tali asserzioni non siano per avventura state male interpretate; né spereremmo esser creduti se portassimo argomenti e prove a sostegno di una dottrina che da parte degli adepti della scienza moderna (la quale non crede che ciò che è percepibile ai sensi fisici) è vivamente oppugnata.
Noi rifuggiamo dal discutere con coloro che nell’uomo altro non vedono che un animale intelligente, assolutamente scettici per quanto si riferisce all’esistenza di un mondo invisibile; scettici sì, in questo, ma d’altra parte vani e creduli tanto da ritenere che nulla possa esistere nell’universo senza che essi ne siano consapevoli e che dicono: “Se, per ipotesi, qualche cosa di divino e di spirituale esistesse effettivamente, come mai non l’avremmo noi scoperto fino ad oggi?”
Noi rifuggiamo dal discutere con gli scienziati su questa materia perché l’esistenza dell’Invisibile non può essere sperimentalmente provata fino a che questo Invisibile resta per essi Invisibile; infatti anche l’esistenza del sole resta sempre oggetto di opinione e di discussione per i ciechi dalla nascita. Che cosa può mai sapere una scienza puramente materiale di Dio e dello Spirito?
Una scienza che d’altro non si occupa che dei particolari dei fenomeni fisici che cosa può mai sapere dei principi fondamentali, invisibili che sono le cause intime dell’esteriore manifestazione di vita?
Nel Medio Evo ci sono stati dei veri e dei falsi Rosacroce come del resto non mancano anche oggi i veri e i falsi cristiani. I falsi Rosacroce furono assai numerosi. I veri furono raramente conosciuti. Alcuni personaggi sospetti di essere dei Rosacroce furono incarcerati e torturati con la speranza di costringerli a rilevare i loro segreti. Ma tutto fu vano giacché i saggi non rivelano mai le cose divine a coloro che non sono spiritualmente preparati a riceverle. Non si può imparare da altri ad usare poteri spirituali che non si posseggono; e nessuno possiede poteri spirituali senza essere egli stesso uomo spirituale. Non si può imparare la musica o un’altra arte senza avervi una naturale disposizione; allo stesso modo non si può apprendere l’uso di facoltà spirituali senza possedere gli organi animici corrispondenti.
Insegnare ad un materialista l’uso delle facoltà spirituali necessarie per diventare alchimista sarebbe come tentar di insegnare il linguaggio umano ad un animale.
Un tal tentativo sarebbe certamente sterile, poche le leggi naturali che sono immutabili e ciascun essere non può raggiungere che quella condizione, quello stato a cui la natura lo ha disposto. Intellettualità è altra cosa della spiritualità. Intellettualità non è che incipiente effetto dell’attività spirituale. Soltanto quando l’uomo si è affiancato dai suoi impulsi animaleschi, il suo organismo diviene un tempio degno di ospitare Dio.

Da: I simboli segreti dei Rosacroce di Franz Hartmann

mercoledì 23 febbraio 2011

La pepita d'oro


Durante una delle mie meditazioni, la mia Ombra di nome Spavento mi ha donato con le sue proprie mani una grossa e liscia pepita d’oro. Cercavo un aiuto per entrare in contatto col Divino. Poi ho saputo che:

 “L'Alchimia è un Dono del Divino, e chi vuole pervenirvi deve Leggere, Leggere, Leggere, Pregare, e Sperimentare, e se il suo cuore è puro, raccoglierà nel palmo della sua mano, quella pepita d'oro che, con nessuna moneta, si può comprare.”
http://ilfuoconarrativo.splinder.com/archive/2007-05