venerdì 25 marzo 2011

Massimo Scaligero

“Il 26 gennaio 1980 “alle prime luci dell’alba”, mentre attendeva al lavoro con la sua abituale solerzia, Massimo Scaligero penetrava cosciente in quel mistero che già piú volte aveva indicato come l’unica realtà, con cui ha a che fare l’operatore dello spirito”. Con queste parole io annunciavo la scomparsa di un Amico e di un Maestro insuperabile, uno di quei testimoni dello Spirito che compaiono sulla scena del mondo forse solamente ogni cinquecent’anni.
In quella tristissima circostanza mi ricordai di una pia narrazione che correva fra gli Ebrei ortodossi, gli Hassidim, secondo la quale nella comune Umanità è sempre presente, inconosciuto da tutti, un Uomo Giusto, uno teodéo, che a cagione della sua rettitudine, misteriosamente sopporta il peso dei peccati, delle speranze e delle attese di tutta la sua generazione, finché stremato da tale immane fatica non soccombe, per venire sostituito da un altro Uomo Giusto che ne eredita le funzioni, e cosí avanti nei secoli fino alla redenzione finale. I Mussulmani parlano, invece, di un Polo, o di un Asse del Mondo, al-Qutb, qualità alla quale assurge un derviscio a cagione della sua virtú, che, però, dopo un giorno di tale fatica, muore ed è sostituito da un altro suo simile. Orbene, questo è stato il mio pensiero quando Egli scomparve. Soltanto che un altro Uomo Giusto non venne a riempire il suo posto, poiché egli era l’epigono di una generazione di ricercatori dello spirito che da noi si incarnarono in Giovanni Colazza, Evola, Colonna di Cesarò, Arturo Onofri e, fuori d’Italia, in Guénon, Râmana Mahárshi, Shrî Aurobindo e qualcun altro. Massimo, lo sconosciuto, era il punto finale di un ciclo, la cui caratteristica fondamentale era l’esercizio di quell’Arte Regale che risolve il mistero della Materia nell’esperienza di una spissitudo spiritualis, in cui questa si svincola come pensiero puro. L’abituale opacità minerale del mondo che ci circonda essendo determinata non da una realtà obiettiva bensí da un pensiero – il nostro – paralizzato nella sua funzione riflessa, cerebrale, che tale se la rappresenta. Ma, a parte il necessario supporto filosofico, tutta la sua vita fu caratterizzata da un’incessante azione di ricerca e didisciplina interiore: il suo insegnamento, consegnato in una ventina di opere, è un energico stimolante del metafisico. Suscita come in nessun altro l’esigenza della correlazione dell’Io con Sé, su cui – fra l’altro – è basata la conoscenza, come rapporto fra Io e Altro, fra Atman e Brahman, come direbbe un Indiano. «L’unità dell’Io con il mondo è già realizzata nel percepire – dice Massimo – ma rispetto ad essa la coscienza ordinaria è in stato di sonno, onde la potenza magica dell’atto percettivo le sfugge».
Importantissima fu la sua interpretazione dello Yoga e di altri movimenti spirituali dell’Asia, di cui Evola fu il banditore nel suo Uomo come potenza.
Tutta la sua opera, e in particolare Dallo Yoga alla Rosacroce, quest’ultima un’autobiografia spirituale, volge ad una reinterpretazione dello Yoga, di cui riconosce i limiti, dovuti soprattutto alla diversa costituzione interiore dell’antico yogin, e in generale del pensiero orientale, rispetto all’uomo di occidente, assiato sulla funzione autocosciente del pensare, a cui paradossalmente non attribuisce importanza primaria nella sua Via interiore, pur vivendo in funzione di un mondo percepito nella sua modalità materiale, che è bensí il figlio del pensiero astratto, logico-discorsivo. Questa interpretazione, da Lui rigorosamente sperimentata sulla guida della Scienza dello Spirito, implica anche una esegesi delle modalità fisico-eteriche su cui opera lo Yoga classico. Dice, in particolare: «Le vie allo Yoga oggi non portano allo Spirito, bensí al corpo (qui tratta del prãnãyãma, la Scienza del Respiro) perché non muovono piú dallo Spirito, bensí dal corpo. Non è lo Yoga che va ritrovato, bensí lo Spirito: del quale lo yogi non aveva da preoccuparsi, perché lo aveva già: doveva solo giungere a servirsene».
Sua opera fondamentale, non solo per sé, ma per l’Umanità avvenire, fu l’aver tracciato una “Via rosicruciana” di cui, date le regole per la sua attuazione, ne afferma la connessione con «il Mistero cosmico del Cristo», «ossia con ciò che il Cristo è, oltre ogni rappresentazione o sentimento umano: il senso ultimo della Iniziazione solare» ...«la meditazione rosicruciana, come la piú alta che operi sulla terra, porta il discepolo a scoprire che, non nell’anima, ma nell’intimo Io, egli reca il Principio che vince i due Ostacolatori», cioè quelli denominati: Lucifero – vettore delle forze di entusiasmo, ma anche di orgoglio, vanità e presunzione – e Ahrimane – il “Satana” della tradizione persiana, quello che induce all’illusione materialistica e meccanicistica del mondo, che conducono alla paralisi delle forze pensanti ed all’esaustionedi quelle viventi.
Il Rosicruciano, piú che combatterle, deve saper utilizzare queste forze cosmiche e trasformarle in strumenti dello Spirito, perché tale è la loro funzione mediatrice. Il punto dipartenza per lo Scaligero resta sempre l’ascesi del pensiero, tramite le discipline della concentrazione e della meditazione, sí da ricondurlo alla sua primordiale natura di Verbo, essenziata di “volontà di essere”. Da questo momento in poi inizia la Operatio Solis, volta a riconquistare la verticalità operante dell’Io, di là dai poteri dell’anima, vincolati ad un’esperienza sensibile del mondo materiale. E la restituzione di quest’ultimo alla sua primordiale dimensione di luce, che è il fine della Grande Opera alchemica, a cui Massimo si era dedicato sin dall’adolescenza.

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In una splendida giornata di primavera, immaginiamo di avventurarci in aperta campagna: in lontananza, i profili dei monti si innalzano fino al cielo, immersi in un mare di luce.
Ovunque un calore vitale si riversa dall'alto verso il basso.
Chiniamo il nostro sguardo per contemplare il verde manto vegetale: teneri boccioli si aprono ai raggi del Sole, robusti alberi affondano le loro radici nella terra per strapparne gli umori e trasformarli - in virtù di una segreta alchimia - in linfa vitale.
Nell'erba, piccole creature si muovono e riposano. La lucertola orienta la sua testa con rapidi scatti; i suoi sensi sono fini e sempre vigili, perché troppi esseri sono in agguato in un luogo che solo sulle tele dei pittori può sembrare idilliaco.
Quando al tramonto abbandoniamo questo paesaggio che abbiamo evocato con l'immaginazione e ci ritroviamo sulle strade asfaltate della nostra città, che ne è di tale mondo meraviglioso?
Qualcuno potrebbe dire che esso è ormai "dietro" di noi, qualcun altro forse più saggio potrebbe osservare che è "dentro" di noi.
Anche in una stanza buia, chiusi tra quattro mura, noi portiamo la "natura" dentro di noi.
Ognuno tocchi con l'indice e il pollice il proprio polso: sentiremo la durezza dell'osso - è la durezza di un minerale.
Nella durezza e nella freddezza del nostro scheletro noi portiamo il regno minerale, quello che non ancora conosce la vita.
Ma di una ragazza graziosa, di una bionda ragazza che con la sua bellezza rallegri la vista si dice: "è una ragazza in fiore", è un fiore di ragazza.
Giustamente. Perchè le forze eteriche che "fuori" fanno germogliare i fiori e fruttificare gli alberi, sono le stesse forze che fanno crescere e maturare gli esseri umani. "E' bella come un fiore", "E' robusto come una quercia": la floridezza di un corpo umano sano istintivamente evoca il confronto con il regno vegetale.
Per descrivere il carattere di un individuo ci rivolgeremo però ad un altro mondo per trarre ispirazione. Un mondo che alla "vita" aggiunge "l'anima": il regno animale.
Di una persona coraggiosa si potrà affermare che ha un "cuor di leone", di un'altra più pavida che è un "coniglio".
Di un uomo dall'intelligenza acuta, facilmente si noterà lo sguardo e il profilo aquilino. Come gli animali, anche l'uomo ha brame, impulsi interiori e una particolare sensibilità al piacere e al dolore.
Vi è però nell'uomo un nucleo interiore che non trova riscontri nella natura manifesta. L'uomo parla, pensa. E non vi è altro essere che in natura sia capace di articolare pensieri.
Grazie alla forza creatrice del pensare gli uomini della nostra civiltà hanno costruito computer, satelliti artificiali, aerei.
Osservare le creazioni della moderna civiltà tecnologica riempie i nostri cuori di legittimo orgoglio: vedere un aereo che si innalza verso il cielo, col suo ventre metallico costellato diluci ad intermittenza, suscita anche un senso di bellezza: evoca quella bellezza metallica che il Novecento ha saputo produrre e che già i Futuristi cantavano all'inizio del secolo.
E tuttavia cos'è un aereo dinanzi al più gracile degli uccelli, a un colibrì? Nulla in quanto a complessità, a scioltezza, a grazia, ad efficacia nel volo. Un aereo sta ad un volatile come lo scarabocchio di un bambino sta alla Cappella Sistina.
"Dietro" un aereo sta, dietro qualsivoglia invenzione vi è l'intuizione delle menti più geniali del nostro tempo, cos'è infatti un aereo se non un "pensiero" impresso nel metallo?
Ma dietro un essere vivente vi è un pensiero superiore, il progetto di una intelligenza superiore; ecco perchè il confronto tra creazioni tecnologiche e realtà viventi è improponibile.
L'uccello che vola, il fiore che sboccia sono i "pensieri pensati dagli dei", si potrebbe dire usando una espressione "poetica".
Il pensiero umano è una scintilla di quella immensa intelligenza che dietro ogni forma della natura continuamente tesse e crea.
La ragione - il "logos" - che nell'interiorità dell'uomo è identica, consustanziale all'intelligenza cosmica che è la dimensione interiore (la "prima dimensione") di tutta la realtà visibile.
Ma se ogni uomo custodisce questa scintilla del Divino come è possibile che molti conducano una esistenza sotto tono ed alcuni addirittura si abbandonino alla disperazione?
Vi è chi, pensando male, giunge alla infelicità esistenziale. Vi è chi si ammala, a causa di un uso sbagliato del pensiero.
Il nodo della questione è proprio qui, l'uomo ha ricevuto in dono una mente consapevole ed un pensiero lucido; perchè egli è ben desto sulla terra, a seconda dell'uso che fa del proprio pensiero egli determina il proprio destino, fausto o infausto.
In un epoca che ha corrotto in una maniera del tutto singolare la forza del pensare, MassimoScaligero è venuto come un medico, come un terapeuta per guarire l'uomo, guardandone il pensiero malato.
Se il nostro pensiero non fosse malato, se esso non necessitasse di quella purificazione che per gli antichi medici greci era la premessa di ogni guarigione, cadrebbe fin d'adesso il velo che oscura l'identità del nostro spirito con lo spirito universale.
Scaligero ha voluto affidare il messaggio del suo Yoga del Pensiero Puro a libri che possiedono una chiarezza geometrica.
Si legga il primo capitolo del "Manuale pratico della meditazione", sembrerà quasi di leggere le prime pagine degli Elementi di Euclide.
Il più grave fraintendimento dell'opera di Scaligero consiste nel considerarla fredda, intellettualistica, proprio perché incentrata sulla necessità di coltivare il pensiero.
In realtà Massimo insegna che il pensiero liberato agisce nell'uomo come nella pianta agisce quella misteriosa forza che trasforma la zolla bruna in verde linfa vitale.
Scaligero ha mostrato che tra un uomo che pensa e un fiore che sboccia vi è uno stretto legame. E ancor più stretto è il legame tra la mente dell'uomo e il pensiero universale che tesse negli spazi cosmici.
A questo si riferiva Giovanni quando nel prologo del suo Vangelo parlava del "Logos" che è in Principio. Ma ad esso si riferiva anche Eraclito quando diceva: "Per quanto tu vada e per quanto tu cerchi, mai giungerai ai confini dell'anima".
A tal punto è profondo il suo "Logos".

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