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mercoledì 18 aprile 2012

Dervisci e druidi



Alcuni studiosi dei Celti pensano che i dervisci derivino il loro nome dalla stessa fonte di quello dei druidi.
Darwīsh in lingua farsi (persiana, che appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee ed all'interno di questa, al ramo iranico dell'indoiranico, cioè ariano), significa letteralmente "cercatore di porte". In campo mistico nella spiritualità sufi il termine ha acquistato il significato di colui che cerca il passaggio che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale.
Anche la parola gallese derwydd da cui deriva la parola druido (che come ho scritto in un altro post significa “il molto veggente”) viene da dar che significa “sopra” e gwydd, “comprensione”, “apprendimento”, “conoscenza”, quindi conoscenza superiore o anche veggenza superiore (colui che vede oltre). Inoltre derwydd ha la stessa radice del termine gallese che designa la quercia, un albero molto sacro presso i Celti, considerato anch’esso una porta verso la Conoscenza.
I dervisci e i druidi si possono considerare quindi ambedue dei cercatori di porte che si spalancano sull’Altromondo

martedì 3 aprile 2012

Approccio spirituale e storico al druidismo



“Si sente dire spesso – di solito da parte di chi non ha studiato la materia – che la visione del mondo e la filosofia dei druidi del passato sarebbero andate irrimediabilmente perdute… ma non è affatto detto che lo spirito originario della filosofia dei druidi non possa essere recuperato nel tempo presente. È anzi indispensabile farlo, giacché una rinascita del vecchio modo di pensare druidico, che riconosceva la santità del mondo vivente e di tutte le sue creature, sembra l’unica alternativa alla dissoluzione del pianeta.”
John Michell, Stonehenge

Ne I druidi il professor Stuart Piggott si sforza di essere quanto più possibile obiettivo e “scientifico” nel presentare la storia del druidismo. Egli comincia con l’illustrare dettagliatamente le fonti di informazione che possiamo utilizzare per il suo studio, e poi le limitazioni e le difficoltà connesse con l’utilizzo di queste fonti.
Successivamente egli passa in rassegna i dati dell’archeologia e delle fonti scritte utili per uno studio del remoto passato del druidismo, e fa un resoconto della rinascita del druidismo, che ebbe inizio nel XVIII secolo e continua ancora oggi. Ne trae la conclusione che nella remota antichità i druidi erano “barbari” e “primitivi”, e alla fine della sua esposizione della loro estinzione così si esprime: “La civiltà romana e la barbarie celtica furono fin dall’inizio opposte per struttura e carattere… i druidi furono una vittima della più ampia lotta originata da quella che il professor Alföldi ha definito la “barriera morale” tra due culture inconciliabili: “l’antitesi di fondo tra l’umanità civilizzata sotto il dominio romano e il mondo della barbarie posto ai suoi margini” con la sua “prevalenza di istinti impetuosi e di passioni bestiali” che trovarono la loro espressione in attività come i sacrifici umani. Druidi, bardi, veggenti e tutto il resto non avevano posto nel nuovo mondo romano-celtico che stava venendo alla luce nelle province dell’Impero”.
Dopodiché egli apre le porte del suo studio sulla rinascita del druidismo con queste parole sprezzanti: “Quando passiamo a considerare… le pretese corporazioni di druidi che oggi rappresentano la misera fine del mito, entriamo in un mondo al contempo mistificante e un po’ patetico. È ancora da Stonehenge che possiamo iniziare questo nostro mesto pellegrinaggio attraverso l’errore”.
A leggere le conclusioni di una tale autorità accademica potremmo certamente essere tentati di lasciar perdere seduta stante qualunque interesse per il druidismo. A che scopo darsi da fare per indagare oltre, su un gruppo di persone che nel passato erano barbari assetati di sangue e oggi sono illusi e patetici? Sfortunatamente per il professor Piggott, ma fortunatamente per noi, possiamo renderci conto che le conclusioni che egli ha tratto dal suo studio sul druidismo  dipendono quasi esclusivamente dalla sua particolare ideologia, e che quando egli ce le presenta come “storia” diventano esse stesse pericolosamente fuorvianti. L’ideologia di Piggott è materialista. Egli ritiene che “la religione sia un prodotto della società, allo stesso identico modo della lingua e della letteratura, delle abitazioni e del vasellame, degli animali domestici o della lavorazione dei metalli. Essa viene alla luce all’interno di una società per esaudire certi bisogni psicologici, ed è intimamente legata agli usi e alle leggi, alle gerarchie della struttura sociale e al buon funzionamento delle istituzioni che definiscono e tengono unita la società stessa”.
Questo modo di considerare la religione è noto in psicologia come teoria “a partire dal basso”, in cui la religione viene vista come una sovrastruttura ideologica creata dall’uomo a partire dai suoi bisogni. Il punto di vista ad esso opposto è l’”approccio a partire dall’alto”: la spiritualità e le strutture religiose conseguenti che da essa si sviluppano, vengono viste come emanazioni del diritto, del mondo sovrannaturale, destinate a essere accolte dall’uomo come una manna, come un diritto di primogenitura, come un’ispirazione. La religione sorge non dall’uomo ma da Dio, non a partire dai suoi bisogni, ma in risposta ai suoi bisogni.
Gli storici della teologia sono naturalmente in grado di comprendere questa distinzione ed è questo il motivo per cui i teologi come Matthew Fox e quanti prendono parte ogni anno alla Conferenza di cristiani e druidi respingono la concezione che Piggott si è fatta del druidismo. (Nel 1989 venne istituita una conferenza annuale con lo scopo di fornire un luogo di dibattito per cristiani e druidi in cui essi potessero incontrarsi e discutere argomenti di comune interesse e aree di disaccordo. Capi e membri di molti ordini druidici si incontrano per più di tre giorni con scrittori come John Michell e Shirley Toulson, e con cristiani tanto laici che appartenenti al clero).
Gli studiosi di discipline esoteriche sono ancora più pronti a cogliere l’approccio a partire dall’alto. È un ben noto assioma delle scienze occulte che ciò che è spirituale è causa di ciò che è fisico, che gli eventi fisici si svolgono come risultato di impulsi spirituali. Quanti no si rendono conto della validità di questa concezione appaiono intenti ad affaccendarsi intorno al mondo degli effetti, incapaci di avere una rappresentazione nitida della storia perché non accettano la realtà metafisica dello spirito. Da questo punto di vista, un approccio storico che non arrivi a rendersi conto della causalità dei principi spirituali può essere paragonato a un approccio medico che non arrivi a rendersi conto della capacità che hanno gli stati spirituali, mentali ed emozionali di produrre effetti sul corpo fisico.
Uno studio del druidismo che manchi al dovere di rendere esplicito fin dall’inizio il modo di porsi ideologico dell’autore sarà inevitabilmente fuorviante. Il libro di Piggott cerca di farsi passare per uno studio scientifico “obiettivo”, senza però mettere in chiaro fin dall’inizio che l’autore assume un particolare punto di vista della storia che, per chi se ne renda conto, appare limitato e viziato da pregiudizi. Aveva ragione William Irwin Thompson quando diceva “la Storia non è mai una scienza e di rado è un’arte, e lo storico che tende alla prima dice addio alla seconda”. (The Time Falling Bodies Take to Light).
La maggior parte degli altri autori si accosta al druidismo con un’ideologia diametralmente opposta a quelle di Piggott. Mentre a Piggott i druidi, antichi e moderni, non piacciono, costoro mostrano con chiarezza di amarli. La maggior parte è favorevole all’approccio a partire dall’alto, senza però renderlo esplicito. Essi interpretano i dati storici in modo che ci presenta i druidi dell’antichità come venerabili saggi, ma evitano quasi sempre di prendere in considerazione il periodo della rinascita. Benché difficili da reperire, essendo perlopiù esauriti, i loro libri costituiscono una lettura migliore, ma anch’essi (con la sola eccezione di Flaming Door di Eleanor Merry, così palesemente esoterico) cercano di farsi passare per studi storici obiettivi.

Se potessimo dar voce alla creatura che vive in fondo al trabocchetto, essa direbbe più o meno così:
“Fai attenzione, o mortale, perché nell’atto stesso di accingerti allo studio delle tracce lasciate dai tuoi predecessori tu stai per entrare in un mondo incantato. Crederai di essere intento a uno studio storico, ma ti troverai alle prese anche con lo studio della mitologia e della scienza, con le profondità della natura umana e con le fonti della sapienza divina. In qualunque momento rischierai di farti sviare fino a ritrovarti a vagare in una stanza di specchi che riflettono solo i tuoi desideri e le tue convinzioni.”
 I druidi, e la potenza che essi controllavano, stanno alle radici della nostra civiltà. Queste radici si trovano sottoterra. Molti di noi ne sono inconsapevoli e credono che le nostra fondamenta stiano invece nel retaggio giudeo-cristiano. Quando ci si accinge a esplorare le fondamenta di un edificio o di una psiche si rischiano grandi mutamenti nella struttura sovrastante. È un affare pericoloso.
Negli ultimi milleduecento anni o giù di lì, noi abbiamo edificato, strato su strato, sopra il nostro retaggio druidico, finché questo non è stato dimenticato dalla maggior parte di noi. Quando cerchiamo di rimuovere, uno dopo l’altro, questi strati, dobbiamo rendere esplicite le nostre motivazioni, perché se esse rimanessero oscure o distruttrici, il guardiano del pozzo (che è di fatto il guardiano dei misteri, delle nostre fondamenta psichiche e spirituali che non saranno né dovranno essere violate) ci manderà a chiamare e noi cadremo nella trappola di fissare il nostro sguardo non in giù verso le radici ma dentro uno specchio affumicato che riflette semplicemente i nostri pregiudizi. Ma se le nostre motivazioni sono chiare, e se ci accostiamo all’argomento con buon senso, ci ritroveremo impegnati in quella che potremmo definire una terapia culturale. Per lenire il dolore psicologico di un individuo, dobbiamo risalire indietro nel suo passato fino a recuperare quei momenti e quei desideri dell’infanzia che sono stati dimenticati, repressi o negati. Così per lenire il dolore e le storture di una cultura anche noi dovremo esaminare il suo passato per determinare e recuperare quelle dinamiche e quegli avvenimenti che sono stati repressi, negati e dimenticati. Lungi dall’essere distruttiva, quest’opera si rivelerà vitale e salutare


Da: Riti e misteri dei druidi di Philip Carr-Gomm

lunedì 16 maggio 2011

La tonsura celtica


“Voglio che acconci i miei capelli.”
“Lo farò.”
Artù prese un pettine d’oro. Forbici dall’impugnatura d’argento, e gli acconciò i capelli. Poi gli chiese chi fosse.

Da: Culhwch e Olwen

Come mai Culhwch chiede ad Artù di acconciargli i capelli? È una delle tante domande che mi sono fatta quando lessi questo racconto, sembra un particolare secondario, ma quando si studiano i miti celtici non va trascurato nulla.
Ora dopo un po’ di anni provo a darmi una risposta perché ho trovato delle indicazioni ne: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis:
Secondo le fonti irlandesi i druidi avevano una tonsura. Pare ovvio che anche tra i druidi di Britannia dovesse essere diffusa una simile forma di taglio dei capelli, nonostante non compaiano in questo senso affermazioni specifiche. Il concetto di tonsura è proprio di molte culture e religioni. I monaci buddisti e giaini, e anche gli Indù, tagliano i capelli come forma di iniziazione religiosa. Nei tempi antichi i bambini indù venivano sottoposti all’età di due anni alla cerimonia detta cudakarana, la quale comprendeva una tonsura, atta a mostrare la transizione dalla condizione di infante a quella di bambino. Oggi questa cerimonia è più simbolica che effettiva. Quindi non è sorprendente il fatto di ritrovare una tonsura druidica nell’antica società celtica.
La studiosa Maud Joynt parla della tonsura druidica nel suo articolo “Airbacc giunnae” (“Eriu”, X, 1928, pp. 130-34). Tirechán è una delle prime fonti a fare menzione di una simile tonsura. Di Lucat Mael e Caplait, i due druidi che furono tutori di Ethne e Fidelma, le due figlie del Re Supremo Laoghaire, si dice avessero tagliato i capelli alla maniera detta airbac giunnae; P.W. Joyce ritiene che si definiva in questo modo un “taglio di capelli a siepe”, sottintendendo che il taglio presentava una sorta di scriminatura lungo la testa, che andava da un orecchio all’altro, lasciando rasata la parte frontale del capo. Joynt, comunque, ritiene che si voglia con ciò indicare “la curva frontale della tonsura”. Il nome Mael, “calvo”, poteva allo stesso modo presupporre l’idea di tonsura. Gli scrittori latini, parlando di Lucet Mael, lo chiamano Lucat Calvuc, ovviamente dal termine latino calvus (calvo).
Quando il cristianesimo cominciò a fare presa sui Celti, la tonsura druidica fu conservata e divenne la tonsura dei religiosi cristiani celtici, nonostante il fatto che nel glossario di Ferfesa o’Mulchonry (Annales Ríoghachta Éireann) il nome della tonsura fosse divenuto berrad mog o tonsura civilis. La più esplicita descrizione della tonsura ci è data dalla lettera di Ceolfrid a Naiton, re dei Pitti, che la descrive come una rasatura della parte frontale del capo, lungo una linea che va da un orecchio all’altro, e che lascia i capelli lunghi sulla parte posteriore. Ovviamente, gli scrittori celtici cristiani successivi non parlarono di un’origine druidica per questa tonsura, sostenendo anzi che si trattasse della Tonsura di San Giovanni.
Gli oppositori romani della Chiesa Celtica, in particolare Aldelmo di Malmesbury, sostenevano che si trattasse della tonsura di Simon Mago.
Sia la Vita Tripartita di San Patrizio sia la Vita di Patrizio di Tirechán asseriscono che quando Cass Macc Glais, il porcaio del Re Supremo Laoghaire, venne battezzato da San Patrizio, gli vennero tagliati i capelli in questo modo. (Dall’esame delle più diverse tradizioni si evince che il maiale tende a essere collegato alla casta sacerdotale. Presso i Celti il porcaio è un druido, il porcaio più celebre che conosciamo è San Patrizio in persona. Come fonte di nutrimento la scrofa rappresenta la Dea; a prova del fatto che il druidismo fosse originalmente centrato sulla Dea, i druidi erano chiamati “maialini”, e la Dea, a volte Ceredwen, era raffigurata come una scrofa, il suo druido era chiamato cinghiale o cinghiale selvatico e il suo Alto Prelato guardiano dei porci. Il nome di Culhwch, che nel racconto Culhwch e Olwen si fa acconciare i capelli da Artù, significa “recinto per maiali”, poiché egli nacque in un porcile e venne allevato da un porcaio, probabilmente ha compiuto tutta la sua istruzione in una scuola druidica e questo viene riconosciuto da Artù quando gli pratica la tonsura alla maniera dei druidi).
Secondo Dom Gougard, tuttavia, Patrizio si oppose alla tonsura celtica e ordinò la scomunica di quei clerici irlandesi che rifiutavano di radersi more romano. L’eccellente studio di Dom Gougard è rigidamente trincerato all’interno della sua dottrina romana, e di questa attitudine dobbiamo tenere conto nel considerare l’opera. Se Dom Gougard ha ragione, dobbiamo concludere che il tentativo di San Patrizio non ebbe successo, e che egli stesso alla fine accettò la tonsura celtica.
La tonsura celtica fu uno degli argomenti di discussione durante il conflitto svoltosi a Whitby nel 664 d.C tra gli avvocati celtici e quelli romani. Il concilio di Toledo nel 633 d.C. aveva già condannato la tonsura dei Celti britannici, che si erano stabiliti in Galizia e in Asturia. Essa era comunque ancora diffusa in Bretagna in una data di molto successiva, vale a dire l’818, anno in cui presso Landévennec all’abate Marmonoc fu ordinato di istituire la regola benedettina per rimpiazzare quella di Guénolé, conosciuto in Cornovaglia anche con il nome di Winwaloe. Landévennec fu il centro intellettuale della Chiesa celtica di Bretagna.
Secondo gli Annali di Tigernach, la tonsura romana non fu accettata a Iona fino al 714 d.C. circa. Dopo questa data, inoltre, i Celti britannici ancora adottavano la tonsura celtica. È difficile stabilire per quanto tempo questa moda sia durata tra di loro. Esistono anche alcuni riferimenti ai Culdees, Cele Dé, Servo di Dio, un ordine istituito da Mael Ruain, fondatore del monastero di Tallaght (morto nel 792 d.C.), dei quali si dice portassero la tonsura celtica vagabondando per la Scozia ancora nel quattordicesimo secolo d.C.
Avendo visto nei druidi meramente dei sacerdoti, i commentatori hanno trovato difficoltà nello spiegare i motivi per cui altre persone, e non solo i funzionari religiosi, avessero adottato questa tonsura. “Indubbiamente”, dice Dom Gougard, “la tonsura non costituiva un privilegio esclusivo dei druidi. Essa veniva con tutta probabilità ostentata da altre classi nell’antica società celtica”. Tuttavia questo fatto non fa che confermare l’opinione secondo la quale i druidi non erano semplicemente sacerdoti. Inoltre, bisogna anche considerare che in molte parti del mondo, la tonsura costituiva un segno distintivo della casta dei guerrieri quanto di quella degli intellettuali e dei sacerdoti. Nella società celtica scopriamo che alcuni campioni del re bretone Waroc’h II (577 d.C. ca. – 594) si rasavano il capo con la stessa tonsura celtica. Waroc’h con successo chiamò a raccolta la Bretagna contro gli attacchi dei Franchi.
Strana questa tonsura perché non scopre completamente il VII chakra, al vertice del cranio, ma lo lascia coperto a metà con i capelli, a differenza della tonsura che avevano i monaci medievali e i monaci buddisti. Probabilmente i druidi non volevano distaccarsi completamente dal mondo fisico, chissà.
Da http://www.energiainmovimento.it/La%20scuola/Mercoled%EC/280503.htm:
Il VII Chakra è quello che permette di connettersi con energie superiori. Prima di arrivare a questa connessione è necessario fare un buon lavoro su se stessi.È bene innanzi tutto fare attenzione a come si manovrano quel tipo di energie. Il nostro pensiero non è qualcosa che rimane solo presso di noi, o è qualcosa di non conoscibile oppure difficilmente percettibile; sappiamo che ogni nostro pensiero modifica sempre qualcosa dentro e fuori di noi. Chi ha il settimo chakra aperto, sviluppato, in espansione, non vive con la testa fra le nuvole, vive attaccato al cielo, ma molto bene anche attaccato alla terra, è il Realizzato, l'Illuminato, il Maestro. Se stiamo con la testa lassù e i piedi a mezz'aria è chiaro che la nostra realtà è abbastanza difficile da gestire, se abbiamo costruito bene la base e gradino per gradino siamo arrivati lassù, siamo agganciati al padre celeste e alla madre terra, e chi sta meglio di noi! Il nostro scopo, nel VII° Chakra, è quello di entrare in contatto con il Divino, ma anche di manifestare la divinità nel nostro corpo e nelle azioni, e, in tal modo di trasformare il mondo. Dobbiamo sì liberare il nostro spirito, ma per non perderci nell’infinito dobbiamo conservare una casa in cui lo spirito possa far ritorno.
È questa l’impresa di un VII° Chakra equilibrato
.

domenica 15 maggio 2011

L'uovo di serpente dei druidi



Nella Naturalis Historia, la sua opera principale e l’unica che sia giunta sino a noi, Plinio ci dà uno dei più completi resoconti dei druidi che ci siano rimasti, presentandoli come scienziati naturali, medici e maghi. Plinio stesso era affascinato dalla magia e si può quindi comprendere perché egli indugiasse su questo aspetto nel suo accostarsi ai druidi.
Fu forse il fascino della magia che spinse Plinio a parlare di anguinam, ossia delle “uova dei druidi” o “uova di serpente”. Egli dice che durante il regno di Claudio, un capo dei Galli, Voconzi, fu messo a morte perché si scoprì che egli portava con sé un “uovo di serpente” mentre stava assistendo a un processo.
Plinio afferma che i druidi consideravano tale uovo come un talismano capace di recare vittoria nei tribunali. È stato sottolineato che, quale che sia la realtà circa questo episodio, esso testimonia che chiunque fosse connesso con il druidismo, anche in modo remoto, era esposto alle punizioni della legge romana. Plinio afferma di avere una volta visto un “uovo di druido”: esso era simile al cristallo, e grande quanto una mela di moderate dimensioni, il guscio era cartilaginoso con numerose cupole come quelle dei tentacoli dei polipi. Se ne loda l’effetto meraviglioso per vincere i processi e accedere ai re. Inoltre egli aggiunge che l’uovo veniva formato con la bava di due serpenti sibilanti uniti. La bava che colava dalle loro bocche formava un umore viscido, con cui si faceva una piccola palla, che veniva lanciata in aria: se essa veniva ripresa da un druido, poteva essere usata per neutralizzare le magie. Bisognava raccoglierlo in un saio prima che toccasse terra. Il rapitore doveva fuggire a cavallo perché i serpenti lo inseguivano fino a che non ne erano impediti dall’ostacolo di un fiume. Si riconosceva quest’uovo dal fatto che fluttuava contro corrente. I druidi affermavano che occorreva attendere una certa luna per raccogliere l’uovo.
Vi sono divinità celtiche che portano delle uova; si pensi a Sirona, la dea della fertiità, della guarigione e della rinascita, la cui immagine a Horchscheid, in Germania, la ritrae mentre porta una ciotola con tre uova. È piuttosto interessante se si pensa all’”uovo di serpente”, che Sirona sia ritratta con un serpente attorcigliato intorno al suo braccio, che si sporge per afferrare le uova. È chiaro che le uova sono considerate un potente simbolo di fertilità. Nella tomba di un capo guerriero gallico le uova furono effettivamente seppellite come beni sepolcrali. Le uova compaiono inoltre nella mitologia celtica. La dea irlandese Cliodna possedeva due uccelli del mondo ultraterreno, di colore rosso e con le teste verdi, che deponevano uova di colore blu e cremisi. Se esse venivano mangiate dai mortali, questi si trasformavano in uccelli, dotandosi di un piumaggio.
Anzi, l’idea dell’uovo dei druidi compare in gran parte del folklore celtico. Gli echinati o ricci di mare fossili sono definiti cestini fatati e si dice che coloro che ne posseggono non avranno mai bisogno di cibo ed avranno sempre l'assistenza delle Fate. Nelle tradizioni fatate viene consigliato di sistemare un echinato sul proprio caminetto o in un altro punto ben visibile del salone di casa.
In Scozia era noto il glain-nan-Druidhe, o “cristallo del druido”. William Camden nella sua Britannia (1586) parla delle gemmae anguinae come di “piccoli amuleti di vetro, in genere grandi quanti i nostri anelli per le dita, ma molto più spessi, solitamente di colore verde, benché alcuni siano blu ed altri abbiano curiose onde blu, rosse e bianche”. Thomas Kendrick crede che Plinio abbia visto un conglomerato di piccoli ammoniti.
Scrive Pina Andronico in “La magia dei Celti":
“Si dice che il serpente donasse l'immortalità, come una sorta di pietra filosofale alchemica e che l’uovo di serpente esaltasse ancora di più i significati di rinascita, rigenerazione, fertilità, e che contenesse in sé anche la componente oscura dell'esistenza. L'uovo di serpente è anche l'unione dell'elemento femminile, l'ovulo cosmico, e di quello maschile fallico…È un simbolo universale, contenente il germe da cui nasce il mondo. Le spirali, tipiche nelle raffigurazioni celtiche, non sono che la rotazione dell'energia che usciva da un corpo e ornava una specie di uovo di serpente detto ovum anguinum, al quale i druidi attribuivano qualità straordinarie. Probabilmente si trattava di "ricci di mare, simili a quelli trovati nei dintorni di Arras, in Vendèe. Queste uova fossili avevano parvenza di volto umano".
Specialmente presso i Celti della Gallia francese, veniva tributato un vero e proprio culto all’esoscheletro dei ricci di mare tanto che in Francia, a Saint-Amand (Deux-Sèvres) e a Barjon (Costa d’Oro), sono stati ritrovati dei ricci fossili alla base o al centro di alcuni monticelli privi di resti funebri. Il simbolo fondamentale del riccio di mare è, infatti, quello di “uovo del mondo”. Simbolo della vita concentrata, uovo primordiale, nella dottrina dei Catari indicava la doppia natura del Cristo, la potenza riunita del divino e dell’umano. Come sostengono Jean Chevalier e Alain Gheerbrant: “Il riccio fossile ha seguito nella sua storia simbolica la curva ascendente più perfetta: uovo di serpente, uovo del mondo, manifestazione del Verbo. Al contrario dell’involuzione, rappresenta l’evoluzione giunta al culmine”.
Per comprendere la creazione del mondo i cristiani fanno riferimento alla Genesi. Per i Celti l'universo non aveva né inizio né fine, nessuna narrazione strutturata spiegava la sua creazione. Per essi la creazione avveniva in ogni istante e ogni giorno era un inizio. I druidi erano consapevoli che il tempo e lo spazio fossero illusori e che non potessero che essere relativi perché solo Dio è assoluto. Invece di spiegare concretamente la genesi del mondo i principali miti celtici esprimevano la congiunzione tra lo spirito, la forza creativa attiva maschile e la materia, la forza passiva femminile.
Uno di questi miti è proprio quello dell'uovo di serpente, alla ricerca del quale i druidi partivano per mare. Gli storici studiosi dei celti vedono in quest'uovo solo un talismano, un oggetto materiale.
Ma come ha spiegato il grande specialista Yann Brekilien "si tratta piuttosto di una ricerca finalizzata a conoscere la struttura della sostanza di cui il nostro universo è composto".
L'uovo è il prodotto della vita ed esso stesso produce la vita.
Questa contraddizione traduce il mistero dell'esistenza, una conoscenza che i druidi volevano acquisire.
Ma perché proprio un uovo di serpente marino?
Affinché dall'uovo nasca la vita, questo frutto del grembo materno deve essere fecondato dal principio maschile portatore di energia vitale. Poiché il serpente deve essere esso stesso uscito da un uovo, non si riesce a trovare l'inizio.
Ecco perché il serpente del mare, l'elemento primordiale. Nell'acqua la vita è presente senza bisogno di esservi indotta e il serpente marino non ha dunque bisogno di provenire dall'uovo. Questo mito ci induce a riflettere sull'importanza dell'acqua, fonte di ogni forma di vita sulla terra e senza la quale non potremmo esistere.
Il serpente è presente ovunque nella vita umana.
Lo sperma che corre verso l'ovulo per dare origine a una nuova vita e la forma degli spermatozoi (tanto simili al serpente con la testa d'ariete...) sono i rappresentanti di questo animale; i nostri intestini vengono paragonati a un grande serpente e così il cordone ombelicale che ci nutre; il fluire delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri somigliano al sinuoso moto del serpente, così come il rapido scivolare delle correnti dei mondi spirituali riprende il suo movimento.
Il ciclo dell' anno (il cui significato deriva da annulus, “anello”) che regola le stagioni e la vita umana, viene paragonato a un cerchio formato da un serpente che si morde la coda, l'Ouroboros, simbolo d'infinito, di ciclo che si ripete in eterno sempre uguale a se stesso ma sempre diverso.
Il serpente è chiuso in cerchio su se stesso in modo tale che la testa (vuoto, attrattivo, passivo) cerca di divorarsi continuamente la coda (pieno, repulsivo, attivo) che fugge in un eterno movimento.
Il serpente che si morde la coda sta a significare l’eterno processo del divenire, il cerchio magico che non ha né principio né fine.
Kundalini è l’energia che risiede nel corpo umano a livello sottile, manifestazione dell'energia universale cioè shakt, che allo stato latente, risiede alla base della colonna vertebrale sopra al più basso dei chakra, quindi, nell'osso sacro. Essa è tradizionalmente rappresentata da un serpente addormentato, avvolto intorno alla base della spina dorsale in tre giri e mezzo.
Il serpente è associato a Bel-Belenos ed era sacro alla dea Brigit, il cui emblema era un serpente.
I Druidi in Galles chiamavano loro stessi Nadredd, “serpenti”, e sembra che al momento dell'iniziazione i Druidi gridassero “lo sono un Druido. lo sono un serpente”, forse significando che l'iniziato aveva acquisito la conoscenza antica, era giunto a dissetarsi alle fonti della saggezza, di cui il serpente è simbolo.
Inoltre era associato anche al dio Cernunnos, il Signore del Mondo Sotterraneo (dio sciamano) e degli animali.
Un mito greco (vedi il mito e simbologia dell’uovo cosmico anche in http://damadiavalon.blogspot.com/2011/03/simboli-di-oestara.html), racconta che Eurinome, Dea di Tutte le Cose, per scaldarsi si mise a danzare nuda sulle onde delle acque primordiali e strofinò tra le proprie mani il Vento del Nord.
Da questo gesto nacque un serpente, Ofione, che si accoppiò con la grande Dea. Eurinome si tramutò in colomba e dopo l'accoppiamento depose l’uovo universale. Quindi l’originale uovo primordiale era un uovo di serpente.
La croce ansata non è altro che la croce (tempo e spazio che si incontrano in un punto) con sopra un uovo di serpente.
“Dapprincipio – scrive in proposito Robert Graves – non c’erano dei maschili contemporanei alla Dèa che potessero sfidarne il prestigio e il potere. Essa però aveva un amante che era alternativamente il benefico Serpente della Saggezza e la benefica Stella della vita, suo figlio.”
Il Figlio e il Serpente rappresentavano, rispettivamente, la parte chiara e la parte scura dell’anno, così come il celtico Mabon, Figlio della Luce, che a Beltane sposa la Figlia dei fiori (la Dea Madre nella sua versione di fanciulla). Mabon morirà a Samhain, per lasciare posto al cervo, il Cernunnos, il quale, avendo nella mano sinistra un serpente con la testa d’ariete, rappresenta la fase ctonia dell’anno, quando la natura si rifugia nelle profondità per poi risorgere, come Mabon, a primavera.

Da: Il segreto dei druidi di Peter Berresford Ellis
http://spiritodellanatura.forumfree.it/?t=41515081
http://lagrandedea.forumfree.it/?t=46831731
http://www.silvanodanesi.org/?page_id=418

mercoledì 11 maggio 2011

Druidi e Bramini


Secondo il parere di tutti gli storici delle religioni, i druidi sono gli equivalenti celtici dei Bramini indiani e dei Flamini romani, anche se il loro nome è completamente differente Bramini e Flamini sono linguisticamente apparentati.
Jean Markale fa notare che i Bramini vengono reclutati esclusivamente in base alla nascita all’interno di una casa normale conseguenza delle credenze induiste che riguardano il ciclo delle reincarnazioni, e che i Flamini romani costituivano un collegio al quale si poteva accedere esclusivamente per cooptazione. I Bramini rappresentano la casta sacerdotale e rappresentano la prima delle quattro caste: 1) sacerdoti o bramini, 2) guerrieri, 3) coltivatori, 4) artigiani e piccoli commercianti. I fuori-casta o impuri vengono detti "intoccabili" o parìa, cioè coloro che svolgono i mestieri più umili. Al contrario, i druidi non formavano una classe chiusa: chiunque, che fosse membro di una famiglia reale, o guerriero, o artigiano, o pastore, o agricoltore, fosse anche schiavo poteva accedervi – non fosse che in una categoria inferiore – a condizione di aver seguito degli studi lunghi e approfonditi. La religione cristiana, per più di un titolo erede della religione druidica, saprà conservare memoria per quanto concerne il reclutamento dei suoi sacerdoti.
Tuttavia su Wikipedia ho letto:
“Da precisare che nel Rgveda non vi è alcun riferimento al primato di questa casta a riprova del fatto che nel primo periodo vedico qualsiasi componente della tribù degli Arii poteva candidarsi a questa funzione.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Brahmano#cite_note-1)
(Che bello poter rettificare il grande Jean Markale che sono andata a leggere per approfondire le convinzioni di Peter Berresford Ellis sull’equazione druidi – bramini; ma già una volta mi sono trovata in disaccordo sul suo forte sdegno riguardo la divisione della ruota dell’anno in 8 feste, senza gli equinozi e i solstizi, anche se sono in disaccordo pure con i gruppi druidici che celebravano solo i solstizi. Stupendo! L’albero del druidismo cresce soprattutto dentro di noi, come c’era scritto nel libro dell’Anguana Madre da me citato).
Georges Dumézil, accademico di Francia e storico delle religioni, nella sua opera Flamines-Brahamanes vede non solo una probabile etimologia comune ma anche un parallelismo funzionale fra i Flamini ed i Bramini, la casta sacerdotale indiana ed attraverso l’esame comparativo delle rispettive religioni individua le tre funzioni, tra loro poste in armonica gerarchia, che reggevano e regolavano la società indeuropea.
La prima funzione è la sovranità religiosa ossia il potere magico-giuridico, la seconda la forza, la potenza bellica e la terza la fecondità ossia la procreazione, la pace (la classe sacerdotale, la classe regale-guerriera, la classe lavorativa).
Come accade per tutto il clero di struttura indo-europea, quantomeno agli inizi, la classe sacerdotale druidica aveva come missione quella di organizzare e di amministrare ad un tempo le cose divine e le cose umane. Gli attuali Bramini, a causa dell’evoluzione storica e delle vicissitudini della società indiana, di questa missione hanno conservato soltanto il suo aspetto spirituale, abbandonando il potere politico a sistemi sempre più laici. Ed è di laicizzazione che bisogna parlare a proposito dei Flamini e del ruolo minore che essi hanno svolto nella Repubblica romana. In effetti, se, al momento della monarchia romana, il rex era il capo indiscusso della dimensione sacra e di quella profana, si è giunti assai presto, in Roma, a tener conto delle contingenze tra il potere temporale e il potere spirituale: la laicità è stata effettivamente inventata dalla Repubblica romana, quantunque, paradossalmente, vi si sviluppasse una religione di pura forma, nettamente nazionalista e civica, alla quale erano integrati i grandi corpi dello Stato. Per quanto concerne i druidi, dato che essi sono scomparsi, assorbiti dalla romanità e nel cristianesimo, non è possibile dire alcunché su una ipotetica evoluzione del loto statuto. Ma una cosa è certa: non esisteva, nella società celtica, alcuna sfumatura tra il sacro e il profano. A dire il vero, la questione non si poneva neppure. Il fatto che, durante la cristianizzazione dell’Irlanda, sono quasi esclusivamente i re e i fili (bardi), vale a dire gli eredi dei druidi, a divenire vescovi o abati, cumulando i poteri temporali e spirituali, è insomma la prova assoluta di questo monismo che è talvolta difficile da comprendere considerando quella che è la nostra attuale mentalità.
Bisogna comunque ammettere che la denominazione druidi è assai vasta ed ingloba numerose specializzazioni. Sarebbe ridicolo voler paragonare un druido gallico e un sacerdote cattolico del XX secolo, soprattutto nei paesi dove è in vigore la separazione tra Chiesa e Stato. In qualche modo, possiamo trovare una certa equivalenza tra il druido e un prete di villaggio nel XIX secolo, prima delle leggi sull’insegnamento primario obbligatorio e la comparsa dell’insegnante laico. Giacché, se il druido è un sacerdote, egli è anche ben altra cosa. E, all’interno della classe druidica, esistono molte distinzioni. Gli autori greci e latini, ne avevano piena consapevolezza, quantunque sembri che non avessero per niente compreso con esattezza le sottigliezze di queste distinzioni e del sistema gerarchico. Talvolta chiamavano i druidi “filosofi”, talaltra “maghi”, ciò che non risulta essere proprio la stessa cosa. Si parla anche di “poeti cantanti” e di indovini. E Diodoro Siculo precisa che non poteva compiersi alcun sacrificio senza l’assistenza di uno di questi “filosofi”.

Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti di Jean Markale

martedì 12 aprile 2011

Etimologia della parola druido


Le forme moderne, druide in francese, druid in inglese, derwydd in gallese e drouiz in bretone-armoricano, sono tutte dotte ricostruzioni che non risalgono affatto ad un periodo più lontano della fine del XVIII secolo. La parola popolare, che risulta dalla logica evoluzione della lingua, è draoi in gaelico moderno, che significa “stregone”, e dryw, “reuccio”, in gallese contemporaneo, essendo andato perso tale termine nel vocabolario bretone-armoricano. Queste dotte ricostruzioni sono state compiutamente sul termine più anticamente accertato, quello impiegato da Cesare, e che è latinizzato in druis (genitivo druidis), al quale corrisponde strettamente l’antico gaelico drui.
Queste osservazioni sono di grande importanza, giacché rappresentano la prova che il druidismo, e conseguentemente i druidi, sono scomparsi nella memoria popolare in quanto istituzione religiosa, e ciò dopo molti secoli. Solo l’Irlanda e il Galles ne hanno conservato un vago ricordo che testimonia d’altronde di una formale svalutazione. È altamente significativo che l’evoluzione semantica dell’antico irlandese drui abbia condotto al significato di “stregone”: ciò è da mettersi in rapporto con la disaffezione che si è prodotta in Irlanda, durante la cristianizzazione, a proposito dei druidi, degradati al rango di maghi di second’ordine, a vantaggio dei fili (indovini) che hanno trovato – o conservano – la loro collocazione in seno alla società celtico-cristiana. È dunque impossibile scoprire, come vogliono certi esegeti pur animati da buone intenzioni, una qualsivoglia menzione dei druidi in un racconto o in una canzone della tradizione popolare, soprattutto nella Bretagna armoricana. Un tale tentativo dipende dal più puro delirio celtomaniacale.
Ciò detto, nessuno vieta di porsi delle domande al riguardo del significato della parola “druido”. Da molti secoli, si è adottata, senza riflettere, l’etimologia che ne fornisce Plinio il Vecchio (Historia Naturalis, XVI, 249) in un passaggio celebre in cui egli parla della venerazione dei druidi per il vischio e per l’albero che lo porta, vale a dire la quercia. E Plinio aggiunge: “Essi non compiranno alcun rito senza la presenza di un ramo di questo albero al punto che sembra possibile che i druidi derivino il loro nome dal greco”. Se ne è concluso che la parola druido provenisse dal greco drus, “quercia”, e questa spiegazione, che è dura a morire, si ritrova ancora in certe opere per altro serie del nostro secolo.
Si tratta di una simbologia analogica, costruita sopra una semplice somiglianza e rafforzata dal ruolo effettivo della quercia nella religione druidica. Gli autori greci e latini hanno fatto grande uso di questo genere di etimologia, e ugualmente gli autori del Medio Evo. Quanto poi alle innumerevoli etimologie popolari, esse sono tutte dello stesso ordine, e talvolta queste ultime istituiscono una sottile relazione che la linguistica pura tende ad eliminare. La cabala fonetica è una realtà, e bisogna sempre diffidare di ciò che si nasconde dietro un ragionamento in apparenza aberrante. Ma in questo caso, la relazione tra la parola druido e il greco drus è inesistente. D’altronde, perché il nome dei druidi galli dovrebbe derivare da una parola greca? A rigor di logica, dovrebbe invece essere di origine celtica. Orbene, “quercia” in gallico si dice dervo (si tratta di una delle rare parole galliche di cui siamo certi), daur in gaelico, derw in gallese, derv (collettivo, dervenn al singolare, deru nel dialetto del Vannes) in bretone armoricano. È davvero difficile agganciare a queste parole il termine “druido” nelle sue diverse forme.
Per di più, il testo di Plinio è assai confuso. Il naturalista non dice espressamente che l’origine è la parola greca drus: i druidi traggono il loro nome dal greco, ed è tutto. Sono i commentatori successivi che hanno in effetti deciso questa etimologia, e vedremo che, in fondo, e contrariamente a quanto si pensa, Plinio il Vecchio non era molto lontano dalla verità.
In effetti, se ci si riferisce alla forma proposta da Cesare, druides, che suppone un singolare druis al nominativo, ed anche alla forma irlandese druid, la parola non può che risalire ad un antico celtico druwides che può scomporsi facilmente in dru, prefisso accrescitivo di significato superlativo (che si ritrova nell’aggettivo francese dru, folto, fitto, forte), e in wid, termine apparentato alla radice indo-europea del latino videre, “vedere”, e del greco idein, ugualmente “vedere” e “sapere”. Il significato è dunque perfettamente chiaro: i druidi sono i molto veggenti o i molto sapienti, ciò che sembra conforme alle diverse funzioni che sono loro attribuite.
Orbene, i celebri scolii (glosse, chiose, annotazioni) che si trovano nel manoscritto de La Farsaglia di Lucano, scolii assai preziosi perché ci forniscono utili informazioni sui Galli e sui loro costumi, al riguardo danno un’indicazione che corrobora la tesi di Plinio: i druidi “sono chiamati secondo gli alberi perché abitano delle foreste remote”. Si potrà notare che il passo de La Farsaglia su cui si esercita il talento dello scoliaste è quello che concerne una grande foresta, vicina a Marsiglia, dove i druidi officiavano all’aria aperta in santuari che sono i nemeton, vale a dire delle radure sacre. Si noterà anche che non si tratta di quercia, ma di alberi in generale. Ed è quanto in realtà dice Plinio il Vecchio.
Ciò conduce ad una curiosa constatazione: nelle lingue celtiche esiste un innegabile legame tra la parola che significa scienza e quella che significa albero, in gallico vidu (la cui radice darà koed in gallese e nel bretone del Vannes, koad negli altri dialetti brettoni). Si tratta di una semplice omonimia? O si tratta ancora una volta di cabala fonetica? Gli studiosi della lingua e della storia celtica parlano unicamente di omonimia. Ma come spiegare allora, in altre tradizioni indo-europee, questa stessa ambiguità, in particolare a proposito dell’Odino germanico? Odino-Wotan (in sassone Woden) risale ad un antico Whotanaz attestato da Tacito, e i germanisti vi vedono la radice wut che significa “passione sacra”, e dunque “scienza totale”, che rientra alla perfezione nel carattere attribuito all’Odino delle saghe nordiche, egli che è divenuto volontariamente guercio per essere magicamente veggente, e che è il signore delle “rune”, vale a dire delle iscrizioni magiche, incise come per caso su dei pezzi di legno, allo stesso modo in cui i druidi autori di satire irlandesi incidevano gli incantesimi sui rami, soprattutto di nocciolo e di tasso. Giacché la radice Wut presenta una parentela davvero straordinaria con il nome germanico del legno riconoscibile nell’inglese wood. D’altronde, uno dei poemi dell’Edda scandinava ci descrive Odino appeso ad un albero (rituale sciamanico che si ritrova nell’Irlanda pagana) e che si libera con la forza delle rune che egli suscita. Wotan-Odino è il dio del Sapere, il dio-mago per eccellenza, che ci fa pensare a Gwyddyon, figlio della dèa Don, eroe della quarta parte del Mabinogi gallese. Orbene, il nome di Gwyddyon, se pure è da riferirsi ad una radice gwid che significa “scienza” (bretone-armoricano gwiziek, “sapiente”),  può altrettanto bene derivare dalla radice del vidu gallese, nel significato di albero (e divenuto coit in medio gallese prima di assumere la forma coed). Se Odino-Wotan e Gwyddyon sono legati ad un tempo all’idea di scienza e all’albero, proprio essi che sono degli autentici dèi-druidi, non è inverosimile ritenere che il nome dei druidi possieda questa stessa ambivalenza. Le relazioni tra la scienza, soprattutto la scienza religiosa o magica, e gli alberi non hanno niente che possano stupirci. Il mito fondamentale dell’Albero della Conoscenza impregna le tradizioni di tutti i popoli. E se i druidi sono i molto sapienti, essi sono anche gli “uomini dell’Albero”, coloro che officiano e insegnano nelle radure sacre, al centro delle foreste

Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti di Jean Markale

sabato 26 febbraio 2011

Un druido autentico

Il dottor Angelo Bona, medico psicoterapeuta specializzato in ipnosi regressiva, dopo anni di ricerche e numerosi segnali, ha scoperto che in una vita precedente era stato un druido.
Oggi ho dato un’occhiata all’anteprima Google di un suo libro, Vita nella vita. Ipnosi regressiva a vite precedenti e mi sentivo svenire da quanto è ricco di esperienze straordinarie! Mi ci sono immedesimata molto, dato che anch’io ho una vera fissa per i celti e il druidismo. Chissà che non scopra anch’io di essere la reincarnazione di una druidessa! Però mi emoziona tantissimo anche lo stile country Old America e per ora qualche mio sogno ha avuto a che fare con gnomi, leprechaun, pixie e fatine… se non altro abitatori di terre celtiche… ho fatto anche un sogno ricchissimo di simboli che dopo 10 anni non ho quasi del tutto decifrato, ma ha a che vedere con Cristo e l’alchimia, non col druidismo. Peccato, visto che i druidi non hanno lasciato nulla di scritto, mi sarebbe tanto piaciuto arrivare alla conoscenza del druidismo per via interiore, ma chissà, non è detta l’ultima parola.
Da un’intervista di Renzo Allegri che potrete trovare sul sito:
http://www.tonyassante.com/renzoallegri/bonadruido/indice.htm
“In una vita precedente sono stato un sacerdote druido”, mi ha detto. “Ero uno di quei sacerdoti che gli antichi Celti, il popolo vissuto in Europa oltre duemila anni fa, consideravano i custodi della terra. A questa conclusione sono giunto dopo molti anni di ricerche inseguendo una precisa e forte intuizione interiore riguardante le mie origini. Ho fatto molti viaggi in Irlanda, in Bretagna, in Galles e alla fine, attraverso sogni, regressioni ipnotiche e coincidenze perfette e inoppugnabili, ho fatto la mia incredibile scoperta”.
Se queste parole fossero state pronunciate da una persona qualunque, sprovvista di cultura e di conoscenze storiche e scientifiche, probabilmente mi avrebbero fatto sorridere. Mi avrebbero di certo affascinato ma le avrei anche giudicate frutto di fantasia, quasi sicuramente prive di fondamenti reali. Ma il dottor Angelo Bona è un medico psicoterapeuta, specialista in anestesia, presidente della “Società Italiana Ipnosi Regressiva” e noto saggista. È insomma, un uomo di scienza, al di sopra, quindi, di ogni sospetto. Le sue parole perciò fanno riflettere.
Autore di numerosi e fortunati volumi (l’ultimo, L’amore dopo il tramonto, pubblicato da Mondadori, è nei posti nobili delle classiche), il dottor Bona si dedica soprattutto allo studio dell’ipnosi regressiva, in cui vanta un’esperienza professionale di oltre vent’anni.
“La mia storia può sembrare incredibile ma è reale”, riprende a raccontare il dottor Bona dopo una breve pausa di riflessione. “È un cammino interiore, una vera e propria ricerca che mi ha dato l’esatta percezione di ciò che sono e che sono stato. Fin da bambino, ho sempre avuto strani ricordi, frammenti di una memoria passata. Erano immagini di sacerdoti vestiti di tuniche bianche, incappucciati, con lunghe barbe e capelli candidi. Inoltre, ho sempre avuto una fortissima attrazione verso la Gran Bretagna e il nord della Francia, verso i territori dove un tempo vissero i Celti, verso i “dolmen” e i “menhir”, cioè quegli antichissimi monumenti come Stonehenge, verso le foreste di querce che erano gli alberi sacri dei Druidi.
Poi, anni fa, un vecchio druido mi apparve in sogno. Mi parlò e mi disse: “Ecco il tuo vero nome. Il tuo vero nome è Sir Môn Idrakun.” Da quel sogno straordinario nacque in me l’esigenza di cercare le mie origini, di comprendere la mia vera natura. Con l’aiuto di un collega, psicoterapeuta come me, andai in trance. Tramite l’ipnosi regressiva, volevo sapere qualcosa di più sul mio lontano passato, quello “inciso nel mio DNA”. Quando mi svegliai, il mio amico mi disse che durante l’ipnosi gli avevo raccontato di tre sacerdoti dalle bianche vesti e di un rituale. Avevo descritto una spiaggia, una sorta di anfiteatro in riva al mare, e tanta gente che assisteva al rito. Disse che avevo usato un linguaggio lirico, poetico e che la mia voce era piena di emozione.
Da quel momento dedicai il tempo libero a viaggiare, in costante ricerca di me stesso. Un giorno, mi trovavo in Bretagna. Entrai in una chiesetta, vidi una signora e con la massima spontaneità le chiesi dove potevo trovare i druidi. Lei mi guardò come se fossi un pazzo. Ma poi la sua espressione cambiò. Qualcosa nel mio sguardo le fece capire che non stavo scherzando ma che ero disperatamente sincero. Mi sorrise e mi disse che nella foresta di Broceliande, ad un centinaio di chilometri da lì, c’era il “Grande Collegio dei Druidi”, uno degli ultimi sopravvissuti. Se cercavo i druidi, dovevo dirigermi là. Mi disse che dovevo parlare con Jean Tosh, il Druido anziano. Lui avrebbe potuto aiutarmi.
 Conoscevo di nome la mitica foresta di Broceliande. Le leggende dicono che lì si trovi la tomba di Mago Merlino. Pieno di emozione mi misi in viaggio e quando arrivai in una piccola libreria, sede del Collegio dei Druidi, mi venne incontro una donna anziana. Mi trattò come fossi stato suo figlio e mi disse di chiamarla “Mamy”. Era Yvette Nicol, la moglie del Druido anziano. “Bentornato a casa”, mi disse. Ma non feci in tempo a riflettere sulle sue parole che comparve Jean Tosh. All’epoca aveva già 75 anni. Era vestito in modo normale, aveva i capelli lunghi e bianchissimi. E un’espressione di meravigliosa serenità sul viso. Mi abbracciò e mi diede da leggere Le fatiche di Ercole dicendomi: “Vai sulla costa, in riva al mare, e leggi con calma. Preparati, perché tra una settimana ci sarà un raduno con tutti i druidi d’Europa. Voglio ci sia anche tu.”
Mi pareva di vivere in un sogno. Lessi il libro e le vicende di Ercole. La sua ricerca attraverso le terribili fatiche, mi sembrava l’inizio di un cammino iniziatico. Poi venne il giorno del raduno. C’erano molti Druidi provenienti da tutte le parti d’Europa e tanta gente accorsa per assistere. Molte persone erano lì per chiedere a Tosh di entrare nel cerchio dei Druidi. Non dimenticherò mai quei momenti.
Durante la cerimonia, Tosh mi venne vicino e mi chiese: “Chi sei? Quale è il tuo vero nome?”. Io gli risposi con quel nome che il druido mi aveva confidato in sogno. “Mi chiamo Sir Môn Idrakun.” Tosh mi guardò un attimo, sorpreso. Poi mi sorrise e mi disse: “Tu sei stato druido. E ora tornerai druido” e mi accompagnò tra i membri Anziani del Collegio. Era incredibile. Ci vogliono anni e anni per essere accolti nel “Collegio dei Druidi”, e io, in un attimo, avevo avuto quel privilegio. In quel momento capii che per davvero ero stato un druido in un tempo passato. Ma solo due anni fa scoprii quale fosse la mia terra d’origine.
Non era la foresta di Broceliande, come pensavo in un primo momento. Era il Galles. Due anni fa andai a visitare l’isola di Anglesey, a nordovest del Galles perché avevo scoperto che il nome gaelico dell’isola era Ynys Môn. “Môn”, proprio come il mio nome. Giunto nell’isola, mi sentii subito strano. Da una parte ero felice, come se fossi tornato a casa dopo un lungo viaggio. Ma provavo anche una sorta di angoscia, come qualcosa che mi opprimeva. Mi fermai al museo di Oriel Ynys Môn e chiesi alla signora che lo gestiva se c’era qualcuno che potesse darmi spiegazioni sulle tradizioni del luogo, sulla storia dell’isola. Pensavo che, forse, quelle conoscenze potevano aiutarmi a capire che cosa mi stava succedendo. “Ci sarebbe il professor Gwilym Jones, che è un esperto di tradizioni druidiche”, mi disse la signora senza sapere che io ero interessato proprio ai druidi. “Ma siamo in agosto”, continuò, “e di questo periodo il professore è sempre lontano, in vacanza. Se vuole, provo lo stesso a telefonare”. Beh, non solo il professor Jones rispose subito ma disse anche che stava proprio per venire da quelle parti. Una coincidenza? Non lo so. Ma quando parlammo, confidai al professore il mio nome di druido e lui fu molto sorpreso. Mi disse che l’isola non solo si chiamava Ynys Môn ma era anche conosciuta come Sir Fôn. “Môn” e “Sir”, due parti del mio nome druidico. Mi raccontò che i Romani, nel 61 d.C, per spegnere un’insurrezione dei Britanni, appiccarono un immane incendio sull’isola, bruciando tutte le foreste di querce, gli alberi sacri dei Druidi. Distruggere i santuari dei capi spirituali dei Britanni, era l’unico modo per vincere. Il professor Jones mi disse che, a causa di quell’incendio, sull’isola non si trovava più alcuna traccia delle foreste di un tempo. I ricercatori non avevano trovato pollini di quercia nel terreno se non in strati risalenti a circa duemila anni prima. Io avevo in qualche modo memoria di quella tragedia: ecco perché mi sentivo angosciato nel camminare su quei luoghi. L’isola di Ynys Môn era la mia antica patria.
Ecco, questa è la mia storia. Io sono un druido. Lo sono stato in passato e lo sono tuttora. I druidi erano musicisti e amavano la poesia. Bene, io non conosco la musica, eppure compongo canzoni, scrivo i testi e la melodia. Insieme ad un gruppo, stiamo incidendo queste musiche e sono canzoni che hanno per tema proprio le vite precedenti e i druidi. E per scrivere le parti più poetiche dei miei libri, io vado in trance. Mi addormento, inizio a dettare e la mia segretaria scrive ciò che dico. E sono pagine liriche, con un linguaggio che non sarei capace di usare normalmente. Un giorno venne da me una ragazza. Era oppressa da forti sensi di colpa e non ne capiva la ragione. Decidemmo di indagare con l’ipnosi regressiva nel suo passato. In trance, mi raccontò di essere stata una druidessa di nome Benedicta e mi disse di avermi incontrato, di aver incontrato Sir Môn Idrakun. In seguito quella ragazza mi fece dono di un suo disegno. Vi è raffigurato un Druido anziano, “Sir”, seduto sulla luna, “Môn”, che domina l’idra, cioè “Idrakun”, simbolo del Galles.”


martedì 14 dicembre 2010

La Ruota dell'Anno nel druidismo - Seconda parte


La ruota delle otto festività fu portata nel druidismo da Ross Nichols, che alla fine degli anni Quaranta faceva parte dell’Antico Ordine Druidico, il quale all’epoca celebrava soltanto i due equinozi e il Solstizio d’Estate. A quanto si dice avrebbe anche voluto festeggiare il Solstizio d’Inverno ma erano disincentivati dal clima. Durante le sue ricerche nelle tradizioni popolari irlandesi Nichols si imbatté nelle feste di Samhain, Imbolc, Beltane e Lughnasadh e decise che queste dovessero essere immesse nel druidismo moderno.
Quando la sua idea fu respinta dalla gerarchia dell’Ordine, Nichols mostrò il suo mandala di festività all’amico Gerald Gardner. Questi, che stava mettendo assieme gli elementi della Wicca moderna, incluse immediatamente il mandala nelle sue idee. Il suo gruppo di stregoneria fu probabilmente il primo a metterlo in pratica all’inizio degli anni Cinquanta, mentre Nichols dovette aspettare fino al 1964, quando portò un gruppo a distaccarsi dall’Ordine per costituire l’Ordine dei Bardi, Vati e Druidi.
La ruota scorre con tanta bellezza, contrassegnando ogni sei settimane circa un punto nel ciclo  di cambiamento, portando assieme la comunità, facendo affiorare la nostra coscienza, che molti neofiti di questa tradizione ritengono difficile credere che non sia sempre stato così.

Samhain
Sebbene la grafia dell’irlandese sia variabile, la pronuncia tende a rimanere uguale, per cui Samhain viene anche scritto Samhuinn e Samain ma viene sempre pronunciato sauin. Il significato è probabilmente “fine dell’estate”. Il nome gallese è Calan Gaeaf, che significa “calende invernali”.
Per coloro che misurano secondo le stagioni, Samhain arriva con il primo gelo. Alcuni programmano il rito attorno alla luna piena dello Scorpione che attraversa il Toro. Coloro che preferiscono una data fissa celebrano Samhain il 1° novembre, con inizio dei riti la sera prima,  poiché nel druidismo la giornata comincia al tramonto le celebrazioni partono sempre la sera prima.

Solstizio d’Inverno
Gli antichi germanici, che chiamavano questa festa Yule, avviarono la tradizione di festeggiare per dodici giorni: un altro aspetto del paganesimo accolto dal cristianesimo.
Nel druidismo il solstizio d’inverno viene celebrato attorno al 21 dicembre, quando il sole entra nel Capricorno, oppure tre giorni dopo, il 24 dicembre, notte di mezzo inverno, quando dopo una pausa sul punto più basso il sole ricomincia il suo viaggio verso il centro.
Questa festa è chiamata anche Alban Arthan. La parola alban si ritiene derivi da un antico termine celtico britannico che significa “luminoso”, mentre arthan è una più tarda parola gallese forse riferita alla costellazione dell’Orsa Maggiore del cielo settentrionale invernale. L’alternativa Alban Arthuan è una corruzione successiva e si riferisce all’antico re eroe britannico Artù.

Imbolc
Imbolc o Imbolg (pronuncia imolc), viene celebrato il 2 febbraio.
Alcuni assegnano il momento di Imbolc alla nascita dei primi agnelli, mentre altri cercano i primi bucaneve. Per alcuni è la festa della luna piena dell’Acquario che passa davanti alla costellazione del Leone.
In gallese la festa è chiamata Gwyl Fair, “festa di Maria”, oppure nell’alternativa più recente Gwyl Forwyn, “festa della vergine”, anche se alcuni druidi, perfino i pagani, utilizzano il termine cristiano Candelora. In Irlanda e in alcune parti della Scozia è la festa di Brigit, Bride o Brigida, antica dea il cui culto fu trasferito a una santa cristiana.

Equinozio di Primavera
L’equinozio di primavera si celebra fra il 20 e il 23 marzo, nel momento in cui il sole si sposta in Ariete e il giorno ha la stessa durata della notte. Viene anche chiamato Alban Eilir, a volte scritto Eiler, dove eilir significa in gallese “rigenerazione” o “primavera”. Alban Eiler viene tradotto poeticamente “luce della terra”. Il nome germanico di questa celebrazione pagana è Ostara: è il nome di una dea della fertilità da cui derivano l’inglese Easter e il tedesco Oster (Pasqua).

Beltane
La grafia di questa festa varia da Belteinne a Bealtine, ma la più comune è Beltane, che è la più vicina alla pronuncia (beltein). Il termine può essere tradotto “il fuoco luminoso” (o fortunato)” e alcuni tracciano collegamenti con l’irlandese Balor, il dio gallico Belenus e il gallese Beli Mawr, tutte divinità ancestrali associate a luce e fuoco. Questa è la prima festa dell’estate, celebrata secondo il calendario il 1° maggio, con i riti che cominciano la sera precedente, oppure alla Luna Piena del Toro che attraversa lo Scorpione. Coloro che segnano le feste trimestrali secondo il fluire della natura celebrano con i primi fiori bianco-rosati del biancospino.
In gallese si chiama Calan Mai, “calende di maggio”.

Solstizio d’Estate
Il Solstizio d’Estate è la festa più spesso associata ai druidi, anche se in questa tradizione non è più importante di ogni altra festa. Viene celebrato attorno al 21 giugno, quando il sole sorge nel suo punto più settentrionale, raggiungendo il punto più alto nel cielo, mentre passa dai Gemelli al Cancro, oppure nel giorno di mezza estate tre giorni dopo, il 24 giugno, quando dopo una pausa il sole comincia la sua discesa.
La festa è chiamata anche Alban Hefin, talvolta scritto Heruin, dove il termine gallese hefin significa “estate”. Alban Heruin viene tradotto “luce della costa”.

Lughnasadh
Lughnasadh, Lughnasad o Lugnasa, pronuncia lunassa, è la festa del dio Lugh. Nei testi medievali irlandesi viene anche chiamata Bron Trogain, ovvero il primo giorno del mese di Trogain, e in Inghilterra è oggi chiamato comunemente Lammas, che deriva dal termine sassone Hlafmasse (loafmass), “messa del pane”, dal momento che in questa occasione veniva offerto del pane fatto con il grano appena mietuto. Oppure con il termine gallese Gwyl Awst che significa “festa d’agosto”. Alcuni celebrano il rito alla Luna piena del Leone che attraversa l’Acquario. Secondo il calendario, Lughnasadh è il 1° agosto.

Equinozio d’Autunno
L’Equinozio d’Autunno viene celebrato tra il 20 e il 23 settembre, quando la notte è di nuovo lunga quanto il giorno e il nostro sole passa davanti alla costellazione della Bilancia.
Chiamato anche Alban Elfed, talvolta scritto Alban Elued, dove elfed significa “autunno”, viene tradotto “luce dell’acqua”.

Da: I principi del druidismo di Emma Restall Orr, Armenia

La Ruota dell'Anno nel druidismo - Prima parte


L’anno celtico, basato su un calendario lunare, con un mese aggiunto ogni cinque anni, è diviso nettamente in due stagioni, inverno ed estate; ne deriva che il suo asse principale va dal primo novembre al primo maggio. Il calendario celtico, e dunque le ricorrenze festive druidiche, non hanno a rigore nessun legame con i solstizi.
Nessun testo antico menziona la festa celtica attorno ai solstizi d’inverno e d’estate. La festa di San Giovanni, che è cristiana, ha recuperato certi riti del primo maggio e deve la sua struttura a una religione pre-celtica. La festa di Natale è cristiana, ma di origine romana (i Saturnali e il culto di Mithra). In realtà, le feste druidiche hanno luogo quaranta giorni dopo un solstizio o un equinozio; la cosa si spiega perfettamente, essendo la quarantena un periodo di attesa, di incubazione, di preparazione allo schiudersi della festa, considerata quest’ultima come un’orgia, vale a dire una cristallizzazione di tutte le energie liberate.
La festa principale è quella del primo novembre, Samhain o Samhuin, in irlandese, che corrisponde al termine gallico samonios del Calendario di Coligny, testimonianza incontestabile dei Celti e del paganesimo. Samhain etimologicamente è “la fine dell’estate”, in altri termini l’inizio dell’inverno. È il primo giorno dell’anno nuovo, o piuttosto la prima notte, poiché i Celti contano per notti. Ci si può stupire che l’Anno Nuovo coincida con il periodo invernale che comincia: non dimentichiamo però che la credenza druidica, attestata da Cesare, fa di Dis Pater, vale a dire di una divinità notturna, l’origine degli esseri e delle cose.
È una festa di rilievo, alla quale ogni membro della comunità deve obbligatoriamente assistere: “Ogni uomo degli Ulaid che non veniva in occasione della notte di Samhain perdeva la ragione e veniva costruito il suo tumulo, la sua pietra e a sua tomba l’indomani mattina”, da  La nascita di Conchobar. La festa consisteva in un’assemblea di tutti gli uomini  e di tutte le donne che componevano la comunità. Vi si discuteva degli affari politici, economici e religiosi. Si svolgevano dei banchetti interminabili caratterizzati da carne di maiale e da vino. La carne di maiale dà in effetti l’immortalità, come dimostra la leggenda dei “maiali di Mananann”, e il vino procura l’ebbrezza, vale a dire quello stato di trance grazie al quale si può superare il reale apparente e afferrare il sovrannaturale. In effetti, in quel giorno, la comunità dei viventi e la comunità dei morti s’incontrano. I sidh, cioè i Tumuli in cui vivono gli dèi e gli eroi, sono aperti. I due mondi si compenetrano. Il giorno della festa cristiana di Ognissanti, che è poi l’erede di Samhain, ha conservato questo aspetto di “comunione dei santi”, e, nei paesi anglo-sassoni, i festeggiamenti più o meno pagani di Halloween sono un proseguimento dei banchetti e dei travestimenti della festa celtica.
Questi banchetti erano evidentemente riservati alla classe dirigente. Il re e i guerrieri ne erano il nucleo essenziale, ma è mal visto che i druidi ne siano stati esclusi. L’uomo comune del popolo si accontentava della fiera, con tutto ciò che questo comportava, in termini di transazioni diverse e, ad un tempo, di divertimenti. I giuristi, ugualmente, si riunivano per mettere a punto tutto ciò che concerneva i rapporti tra gli individui e la collettività. In qualche modo, essi costituivano un vero Parlamento in cui venivano discusse questioni di diritto e di politica.
Il rituale è mal conosciuto. Si sa, comunque, che la vigilia tutti i fuochi d’Irlanda dovevano essere spenti. È evidentemente il segno che l’anno muore. Rinascerà nel momento in cui i druidi avranno acceso un nuovo fuoco. Tutto ciò è stato trasferito, dai cristiani, dal primo novembre a Pasqua. Ma è sempre a Samhain che si ritiene si svolgano grandi avvenimenti mitici, battaglie, spedizioni nell’Altro Mondo, conflitti con i Tuatha Dé Danann, morti rituali di re, morte violenta di un eroe che ha violato un grave divieto. È inoltre a Samhain che il Mac Oc viene concepito e che nasce, in un “tempo ristretto” che equivale all’eternità. In effetti, se Samhain è il punto d’incontro tra il mondo divino e il mondo umano, significa che il tempo normale è stato abolito, o sospeso. Si tratta di una zona temporale neutralizzata: quando il Mac Oc si impadronisce del dominio di suo padre, egli se lo è fatto fare dare per una notte e un giorno, vale a dire lo spazio temporale di Samhain, ciò che equivale all’eternità. Questa idea si è perpetuata nella festa cristiana di Ognissanti, più in particolare nella Bretagna armoricana, malgrado la contaminazione del Giorno dei Morti, che è il 2 di novembre. In realtà, nel pensiero celtico, non vi sono né morti né viventi a Samhain, non più di quanto vi siano dèi o esseri umani. Vi è tutto.
Senza che sia possibile affermarlo, è verosimile che, in questa occasione, si svolgessero delle rappresentazioni drammatiche, che richiamavano i grandi miti primordiali, ognuno recitando un ruolo in questo affrontarsi generalizzato di forze rese presenti. Del resto, la festa durava tre giorni, ciò che permetteva di moltiplicare le attività – e i banchetti.
Tre mesi dopo Samhain si svolgeva la festa di Imbolc, il primo di febbraio, verosimilmente sotto il patrocinio della dèa Brigit. La festa di Inbolc, recuperata dal cristianesimo e divenuta la festa della Candelora, individua il periodo centrale dell’inverno. Vi si esalta il fuoco, ma anche l’acqua lustrale. È una festa di purificazione, significato che mantiene ancor oggi la Candelora. Ma siamo assai male informati sulle componenti di Imbolc, essendo stati eliminati tutti i riferimenti pagani dai cristiani, imbarazzati – lo si sarebbe per meno – dal problema della dèa Brigit che riappariva con i tratti della badessa Brigitte di Kildare, e la cui festa si svolgeva il primo di febbraio. Detto ciò, Imbolc sembra avere un’importanza assai minore di Samhain. Questa festa non riguarda la classe guerriera, né il re: era forse più intima, più locale.
Per contro, Beltaine, la festa del primo maggio, ha un’importanza considerevole. Il nome significa “Fuoco di Bel” e fa riferimento ad un’idea di luce e di calore. È la fine dell’inverno e l’inizio dell’estate. Di qui i riti del fuoco, particolarmente abbondanti, e la sacralizzazione della vegetazione nascente. In una società pastorale come quella dei Celti primitivi, ed in particolare degli Irlandesi, si tratta del momento cruciale dell’anno in cui gli armenti escono dai rifugi e vanno a pascolare nella campagna. I famosi Fianna del re Finn avevano l’abitudine di trascorrere i sei mesi d’inverno nelle case degli irlandesi, case che avevano la missione di proteggere; ma, dal primo di maggio, se ne andavano per tutta l’Irlanda, a vivere una vita nomade. È del pari a Beltaine che hanno luogo le mitiche invasioni dell’Irlanda. Con ogni evidenza, la festa di Beltaine è un’apertura sulla vita e la luce, un’introduzione nell’universo diurno, mentre Samhain segna l’ingresso nel mondo notturno, che in Bretagna chiamano ancora “i mesi neri”.
Il rituale di Beltaine rimane molto incerto. Si trattava, è vero, di una festa sacerdotale, e i druidi dovevano esservi in onore. Senza dubbio vi erano delle cerimonie, dei giochi, delle assemblee, dei banchetti. L’usanza dei rami piantati nei campi, nei giardini e nelle stalle, usanza che continua anche ai giorni nostri, è un lontano ricordo di questo rituale. I fuochi detti di San Giovanni si svolgevano in questa data, e il re d’Irlanda doveva essere il primo ad accendere il fuoco. Tutti coloro che si fossero permessi di farlo prima di lui sarebbero stati condannati a morte. È noto che San Patrizio lo fece, d’altronde impunemente, e che questo atto ebbe un grande peso, a quel che si racconta, nella conversione degli Irlandesi alla nuova religione. Ma, dopo l’estinzione del druidismo, il primo maggio è tuttavia rimasta la festa popolare dell’attività umana, soprattutto dell’attività economica. Non per niente in questo giorno è stata fissata la Festa del Lavoro. Nei paesi germanici, la notte di Beltaine è la “Notte di Walpurga”, durante la quale si danno convegno tutti gli stregoni e le streghe. Ciò significa che, quel giorno, o meglio quella notte, la classe sacerdotale è all’opera. Ma, siccome i druidi sono scomparsi in quanto sacerdoti, filosofi e giuristi, ricompaiono nella memoria popolare sotto l’aspetto spregiativo di stregoni. Ciò spiega, in particolare, i rituali di esorcizzazione estremamente numerosi che si osservano nella tradizione popolare a proposito del primo maggio: benedizione degli animali e delle stalle, passaggio degli armenti attraverso i filari di fiamme o di braci, purificazione magica dei locali dove hanno soggiornato gli animali, diversi incantesimi per proteggere gli armenti dalle malattie e dagli animali selvaggi.
Se, a Samhain, si entra in “sonno”, a  Beltaine, si dà il segnale del risveglio. Durante l’inverno, il fuoco è invisibile, nascosto nelle pietre, nel legno, nella materia inerte. Ma l’energia che rappresenta il fuoco esiste allo stato potenziale. In occasione della festa di Beltaine, questa energia si manifesta, realizza una vera “epifania”. Le fiamme che scaturiscono dal rogo della collina di Tara, acceso dal re d’Irlanda, sotto la protezione dei druidi, erano più che un simbolo: nel ciclo delle stagioni e dei giorni esse costituivano la prova che dalla morte poteva scaturire la vita.
La quarta festa, Lughnasadh, cadeva il primo agosto. Secondo la tradizione, Lughnasadh (etimologicamente, la “Festa di Lug”) era stata istituita dallo stesso dio Lug, a Tailtiu, in memoria di sua madre adottiva, la dèa Tailtiu, simbolo della Madre-Irlanda. La festa consisteva in giochi diversi e soprattutto in assemblee plenarie. Sembra che Lughnasadh sia prima di tutto una festa regale. In effetti, il re vi presiede corse di cavalli, certami poetici, ma non vi sono giochi guerrieri, né morti rituali. Si suppone che il re, in questo periodo dell’anno, sia in possesso del massimo della sua potenza. Ed è necessario, peraltro, poiché sta per cominciare il periodo in cui si raccolgono i frutti dell’anno. Non si può dimenticare che tutto ciò si svolge sotto la protezione di una dèa-madre che, secondo il mito, è morta essa stessa per assicurare la prosperità ai suoi numerosi figli. Lughnasadh è una festa che è scomparsa dal calendario della cristianità, ma sopravvive in parte, dispersa in altre feste, come quella, religiosa, delle Rogazioni (nella liturgia cattolica, almeno sino al 1969, rito penitenziale con preghiere e processioni per ottenere da Dio la fecondità dei campi, che veniva celebrato in alcuni giorni di primavera). Sopravvive anche nelle numerose feste profane del Raccolto. Ad ogni modo, l’estate non è propizia alle lunghe festività, ancor meno agli interminabili banchetti. È epoca d’intenso lavoro, in cui si prepara l’arrivo dei “mesi neri” al fine di poterli superare senza danno.
E così, dunque, il calendario delle festività celtiche è articolato attorno a quattro momenti, due dei quali sono particolarmente importanti,  Samhain e Beltaine. E siccome queste feste riguardano e radunano un considerevole numero di individui, si può dire, una volta di più, che il druidismo è una religione sociale. In questo contesto, l’atteggiamento individuale non ha alcun senso se non si integra all’attività del gruppo. Ciò non significa che ciascun individuo non abbia autonomia: al contrario, sembra che il druidismo abbia privilegiato la nozione di Libero Arbitrio. Ma è una questione di giustificazione: l’attività individuale non ha alcun significato ed è dunque ingiustificabile se non rientra nel quadro della società nel suo complesso, essendo questa società – la realizzazione della società divina. Le feste, come i riti, riguardano tutti. Coloro che non vi partecipano si autoescludono, essi stessi, dalla comunità. E se, per una ragione o per un’altra, una festa non viene celebrata (ma si tratta di eventi molto rari), l’equilibrio della società, e dunque del mondo, è minacciato. Giacché le feste, come i riti, sono delle operazioni di tipo magico o religioso (o l’uno e l’altro insieme) che stabiliscono dei rapporti di armonia tra gli esseri e le cose, tra gli uomini e gli dèi, tra le forze visibili e le forze invisibili.
Di qui la necessità di una liturgia organizzata, gerarchizzata, e concepita in quanto proiezione, su scala umana, di quanto accade sul piano cosmico.

Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti, di Jean Markale, Edizioni Mediterranee