Tra tutte
le creature del Piccolo Popolo forse il folletto presentava e presenta
caratteristiche iconografiche meno marcate, soprattutto rispetto a nani, gnomi,
elfi e fate – per restare sul piano degli esseri fantastici antropomorfi – che
pullulano nel mondo irreale del Medioevo. Il folletto, infatti, c’è ma non si
vede mai; se si presenta come una persona è basso di statura (bimbo, fanciullo
o mezzo uomo), ma rifugge da ogni contatto con gli uomini. Sicuramente vivace,
è di carattere bizzarro, incline allo scherzo, spesso si lascia andare alla
burla improvvisa e malvagia; raramente trascende verso l’azione consapevolmente
cattiva e scellerata. Solo in parte gli sono attribuite azioni benefiche nei
confronti dell’uomo.
Folletto deriverebbe dal latino follis,
il cui significato è “cuscino”, “palla”, “pallone pieno d’aria” e dunque, per
estensione, un individuo con la testa vuota, privo di senno, un folle per
l’appunto. Dalla radice fol, significante
“soffio d’aria”, trarrebbero origine altri termini latini come flare, “soffiare, “respirare”, flatus, “soffio”, e gli italiani folle, folata (di vento) e, forse, anche fola e favola. A sostegno
di questa tesi concorrerebbero le parlate dialettali: il foulot, in alcune zone della Svizzera, significa “piccolo mulinello
che si alza all’improvviso quando l’aria è calma”; in Piemonte fulëtún,
fultún e ancora fulét indica un soffio vorticoso; il romagnolo fulë’t è il turbinio della polvere; a Bienate (Milano) folletto è il nevischio e anche il
turbine. Appartengono, insomma, a tutta l’area gallo-romanza i tipi folle, follet, feulé, foulet, fouleton,
follot ecc. a designare il vorticare dell’aria che solleva dal suolo
pulviscolo, terra o neve.
Molte, infatti, sono le associazioni tra il vento e il folletto, che avrebbe la
possibilità di nascondersi nelle correnti d’aria, di girovagare per i prati
facendo mulinelli d’aria e di svolazzare leggero e impalpabile; tanto che
sarebbe facile per lui oltrepassare le serrature delle porte, forzando
silenziosamente l’intimità della casa, divenendone uno spirito permanente.
Non a caso sono folletti del vento a Bormio (Sondrio) i Sanzasánch, “senza sangue”. Anche in Valsassina (Lecco) e in Val
Cavargna (Como) i geni incorporei della casa sono i Senza os e i Senza sànc,
gli antenati veri e propri dei folletti. Secondo la tradizione di Voghera
(Pavia) lo Jábolo si aggirerebbe tra
le nuvole, cavalcandole, scatenando tempeste e piogge scroscianti.
Nel piacentino, Fulát è un termine
con cui si indicano indifferentemente sia i vortici del vento sia gli
spiritelli che presiedono agli incubi; in Guascogna (Francia) Fouletun è un venticello dispettoso che
può addirittura ingravidare all’insaputa. In Lombardia, questa prerogativa
permarrebbe, ma un poco sbiadita, nella predilezione che lo Sgranf, avvistato in provincia di
Bergamo, avrebbe di molestare le fanciulle: voyeur impertinente, amerebbe spiare
le belle donne mentre si cambiano d’abito o fanno il bagno; grazie alle sue
ridotte dimensioni sarebbe in grado di raggomitolarsi su se stesso e
nascondersi sotto le gonne per guardare le gambe delle malcapitate (in questo
caso come un vero e proprio refolo d’aria); altre volte, per spiare ancor
meglio le ragazze, si trasformerebbe in un piccolo gomitolo di lana per farsi
raccogliere e nascondere nel seno. Solo allora sarebbe facile sentirlo
sghignazzare di piacere.
A Brescia e nel Bresciano, era distinto il Quagg
o Squàsuagg o QuaggIQuagg che disturberebbe il sonno e provocherebbe
incubi.
Nel Comasco, in Val Bregaglia (Sondrio) e Valsassina (Lecco), l’Encof indurrebbe a fare brutti sogni;
nelle campagne di Bergamo il Gambastorta
è uno spiritello che toglie le coperte, fa il solletico sotto i piedi e fa
tintinnare i vetri per interrompere il riposo notturno.
Propriamente lombarda è la definizione di Calcatrápole,
parente del Calcaròt conosciuto nelle
campagne del Veronese, del Trentino e del Bresciano: è un’entità degli incubi
notturni perché, alla lettera, calca, preme, schiaccia il petto (come il Quagg/Squàs) e toglie il respiro, come l’onomatopeico Encof. L’Encof, infatti, non si limiterebbe a provocare il delirio onirico,
ma si divertirebbe particolarmente ad ostruire il condotto del fumo del camino
per asfissiare i contadini con l’ossido di carbonio prodotto dalla combustione
del legno.
Presentandosi in sembianze femminili, soprattutto quando è identificata con
l’azione di disturbo nel momento del sonno, Encof
è l’unica “folletta” della regione: forse la lontana traccia di più maliziosi
incubi? In ogni caso, il folletto condivide quest’aspetto con altre creature
della mitologia europea: in Germania, Scraettlige
o Trude, in Svezia Mare o Marra, in Inghilterra Nightmare,
in Olanda Nachtmaer.
I folletti sono domestici. Anzi, proprio in questo settore, si manifesta e in
parte si mantiene un attributo fondamentale del folletto: la sua capacità
d’intervenire concretamente nel reale.
Non sappiamo dove stava quando non si doveva far vedere; ma non ci si
stupirebbe di trovarlo nella stalla, nella cappa del camino o nel solaio: l’Encof, presente nei racconti comaschi,
era stanziato nel camino che, come abbiamo visto, spesso ostruiva per dispetto,
nell’essiccatoio si stabilivano invece i Büti,
i Senza os e i Senza sànc che animavano lo spazio domestico delle case contadine
della Valsassina e della Val Cavargna.
Sono questi, infatti, i luoghi dell’abitazione dotati di un’indeterminatezza
ricca di significato: casa, ma non casa (solaio, stalla); spazio chiuso, ma in
comunicazione con l’esterno, come la cappa del camino, canale d’ingresso
rivolto “verso l’alto” prediletto dalle anime dei morti ritornanti, dalla
Befana e da Babbo Natale.
A Cadria di Valvestino (Brescia), sui monti alle spalle del Lago di Garda, il
feretro del defunto era trattenuto in solaio per tutto il periodo invernale,
ufficialmente perché il cimitero più vicino era quello di Magasa, oltre le
malghe del Rest e il cammino lungo e difficile; ma certo il solaio costituiva
anche il territorio imprecisato per il lungo decorso del morto verso lo spazio
indeterminato dell’aldilà. Bàrbiśi l’è
sö’l sulér/ch’el comincia a pésta i pè è l’incipit di una popolare canzone
piemontese nota anche nella sua versione bresciana. Qui, nella cappa, nel
camino o nella stalla, il folletto può occupare uno spazio commisurato alla sua
potenza: ancora una volta è nel mezzo del mezzo, tra la casa e l’esterno, tra
l’aria e la casa.
Secondo la credenza medievale, non era infrequente il caso in cui una volontà o
un’entità superiore comandasse a folletti di stare presso determinate persone o
gruppi familiari, in genere per un periodo di tre anni, come accadde nella
storiella che si tramandava a Pavia nel Duecento. Di questa dimensione
sovrastante non è noto il nome e non pare ricorra qualche particolare racconto
che li esaltava come protagonisti.
I Bragöla della Val Carvagna (Como)
collaboravano con gli abitanti della valle, soprattutto con le persone che
ispiravano loro simpatia, nelle faccende di casa o nei lavori dei campi, in
particolare nella mietitura dei prati. Nella stessa valle il mito dei folletti
si confondeva con quello dei Pelus di
Kongau, essere peloso che popolava il versante occidentale della valle,
denominato appunto Kongàu. Anch’essi aiutavano a falciare l’erba nei campi;
alcuni, minoritari, a trovare l’oro. I Fulecc
di Angolo Terme (Brescia) erano esseri vitali che, secondo i contadini, coprono
i prati con polveri magiche in modo da facilitare la crescita di funghi.
Soprattutto in merito ai vari Pelus
che circolano nelle leggende delle valli nostrane (oltre Como, anche Germignaga
in provincia di Varese), il richiamo è al variegato universo mitologico proprio
dell’Uomo Selvatico.
Poco oltre i confini della Lombardia, i folletti avrebbero mantenuta intatta la
funzione attiva nei confronti del gruppo entro il quale la leggenda è stata
elaborata e tramandata. I Crüsc di
Cavagnago (Val Leventina, Canton Ticino) erano caratterizzati dalla piccola
statura e dalla manifestazione prevalentemente notturna (uscivano col
crepuscolo o di sera, mentre durante il giorno stavano rannicchiati nelle
grotte o sotto le rocce strapiombanti) a denotare il carattere schivo.
Soprattutto, sarebbero stati fortissimi (e quindi utili per alleviare la fatica
del lavoro contadino), malgrado l’aspetto esile e avrebbero conservato il
segreto delle erbe e del linguaggio per parlare agli animali.
Più spesso, però, il folletto appare nelle fonti più recenti come spiritello
caratteriale. Un censimento napoleonico accertava che nel 1812 era “generale”a
Como e dintorni l’opinione su queste creature.
Gli Ana sosana (Bergamo) e Ana sonana (Brescia) lancerebbero
rametti e foglie secche nelle pentole di polenta; nella Bergamasca, entità
presenti nella casa farebbero scricchiolare i mobili, metterebbero a soqquadro
armadi e cassetti, rovescerebbero i secchi d’acqua, nasconderebbero gli oggetti
di cui le persone hanno immediato bisogno. Di questo genere sono il già
ricordato Gambastorta, e l’Anima Balzaruna che circolerebbe in
Brianza.
Il Fulet di Cataeggio e Albosaggia
(Sondrio) disturberebbe le capre; avrebbero anche la facoltà di saper imitare
la voce umana dilettandosi ad interrompere o confondere i discorsi e a parlare
in piena notte, lasciando credere che ci siano persone estranee in casa.
Frequenti sono i dispetti verso i viandanti. I Paledròns si renderebbero invisibili al solo scopo di infastidire i
passanti; gli Squass, di cui si
novella a Clusone (Bergamo; ma la terminologia si sovrappone a quella
bresciana), si prenderebbero gioco degli ubriachi di ritorno dal mercato; i
citati Bragöla del Comasco si
lancerebbero addosso alle persone che rientrano tardi per i sentieri.
Allorquando il folletto rendesse un dono all’uomo, questo sarebbe destinato a
svanire immediatamente o a tramutarsi, quando meno lo si attende, in un oggetto
sgradevole. Lo Squàs, ad esempio, si
sarebbe tramutato in un asinello che, apparentemente d’aiuto per
un’improvvisata viandante sulle pendici bresciane del gruppo di Monte Alino,
diventerebbe però sempre più alto fino a disarcionare la povera donna. Saprebbe
anche dar vita ad un gomitolo di lana. Chi se ne serviva, trovandolo per caso
fuori della chiesa, doveva presto costatare che il vestito completato con esso
era soggetto a disfarsi improvvisamente, magari in chiesa e nei momenti più
imbarazzanti. Se l’offerta era di cibo poteva divenire addirittura “roba di
latrina”, soprattutto quando aveva assunto un invitante aspetto di polenta o di
pezzo di carne o di caramelle.
Alcune versioni sono relativamente recenti. I Farfarelli berrebbero la birra nei moderni frigoriferi e
spalmerebbero di burro le scale.
I Vissinei di Como avevano una
consistenza ridotta a poco più di un alito; visinél,
infatti, è in dialetto veronese il turbine, un nome attribuito anche ad un
vento impetuoso e improvviso, ma di breve durata, che si alza sulle rive del
Lago di Garda; visinèl nella parlata
dei contadini del territorio di Bergamo era una parola con significato di
“vivace” composta sulla base onomatopeica bis,
sibilare (da cui ape, vespa, brulicare, mostrarsi irrequieto, cercare); in
milanese bisi-à è pungere, in
lombardo visinel è vispo e, ancora,
in bergamasco, bislàch è monello.
Nei Grigioni il folletto non è più da solo, ma sciama in grandi stormi da una
valle all’altra.
Queste flottiglie volanti, le Cialarere,
secondo la leggenda svizzera, spaventerebbero il bestiame inducendo le mandrie
a correre all’impazzata da un versante all’altro della valle. Non contenti,
questi folletti sceglierebbero anche alcuni bovini per trasportarli
magicamente, in una sola notte, fino in Lomellina.
Anche in Val Maggia (Canton Ticino) dispettose creature di puro spirito si
divertirebbero a rapire gli armenti. In entrambi i casi la corsa si concludeva
con il ritorno dei capi prelevati nei luoghi d’origine.
In Lombardia si racconta di stormi di folletti ad Albosaggia (Sondrio), dove
d’una probabile antica storia tramandata localmente rimane una versione recente
imbastita con tutti i crismi della mitologia germanica e, quindi, molto affine
al pathos descrittivo della Caccia Selvaggia.
A Cataeggio e San Martino, in Val Masino (Sondrio), per salvare le capre dal Fulet gli uomini dovevano brucare un ramo
d’ulivo perché lo spettro si dissolvesse prima di aver spinto nei burroni gli
armenti. A Gardone Val Trompia (Brescia), per impedire ai folletti si entrare
in casa a turbare il sonno, era usanza che le donne tenessero vicino al letto
una verga di ferro per batterli alla cieca. Ferro, metallo, rametti di piante
odorose bruciati sul camino erano esorcismi spicci che coincidevano con quelli
sperimentati da secoli per bandire le streghe e, prima di queste, quelle varie
presenze malvagie nella casa che avevano come unico obiettivo principale i
bambini.
Erano i Fulecc, altrove compagni
delle streghe, che coadiuvavano a scatenare i temporali, designati con
un’accezione dispregiativa rispetto ai vezzosi spiritelli dispettosi.
Nel Comasco per scacciare il folletto era necessario porre sulla porta o
finestra dalla quale entrava un sacco di miglio o di altri piccolissimi grani.
Questi entrando li rovesciava e dovendo prima di andarsene lasciare tutte cose
come le aveva ritrovate, era costretto a raccogliere fino all’ultimo grano di
miglio e così fuggiva per sempre.
A Parre, nella Bergamasca, ancora negli anni Settanta, per evitare che il
folletto mescolasse nel mulino il granturco con il frumento, bastava lasciargli
giù un setaccio per la farina, così quando si stancava di contare i buchi
perché erano troppi, allora smetteva.
Berbéch è molto diffuso a Bergamo. Ha
anche dei compagni: Malésen e Sblésen e con questi combina scherzi di
ogni tipo. Sono simili agli spiritelli raccolti nella tradizione di Biella che
hanno campi di azione differenziati: il ghignél
ride, lo spitásc sculaccia i bimbi,
il folét fa lo sciocco, la muleta intreccia criniere e il carchét provoca incubi.
Il Malésen bergamasco sarebbe il
tradizionale incubo notturno, infatti si apparenterebbe con Mara e Smara, rispettivamente voci per “folletto” nel Vicentino e nel
Bellunese, e con il friulano Smara
che vuol dire appunto “incubo”. A loro volta deriverebbero da Marantéga che in Veneto sarebbe una
vecchia strega che apparirebbe come spettro di notte; la quale, a sua volta, è
una figura parallela a quel Mara della
tradizione tedesca, dove è il fantasma che compare nei sogni a provocare i
turbamenti. In sostanza, il Malésen
potrebbe essere il vero Nightmare
nostrano.
I Quertur che vivrebbero al Pian
Mergo in Valtellina (Sondrio), sono una specie di fauni silvestri che sarebbero
quasi completamente ricoperti di pelo.
Più spesso, uno spiritello dispettoso e molestatore po’ essere smascherato,
nonostante i suoi possibili travestimenti, da particolari zoomorfi: è dotato di
zampe d’anitra, gambe da gallo e zoccolatura da capra o caprone, attributi che
derivava dall’iconografia di divinità pagane (pan, fauni, esseri silvani).
Appartengono a questa categoria il già citato Gambastorta della Bergamasca o lo Zampa de Gal che in Val di Genova, sulle pendici trentine dell’Adamello,
si presenterebbe inizialmente sotto forma di un bel giovanotto pronto ad
irretire nelle sue danze le giovani fanciulle
Da: Il grande libro dei misteri della Lombardia
risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti