giovedì 29 settembre 2011

L’equinozio d’autunno e la libera volontà dell’uomo


La morte annuale della natura e il risveglio delle forze interiori di volontà si bilanciano nell’equinozio d’autunno. Esso segna un’inversione di polarità nella manifestazione delle forze divine, che nei mesi precedenti si erano espresse principalmente nelle forme della natura, nella luce trionfante del giorno e che ora incominciano a pervadere la libera volontà dell’uomo. Quando la luce del mondo declina, l’uomo inizia a percepire sé stesso come portatore di una luce invisibile, non soggetta a tramonto. In tal senso il “dramma spirituale” dell’equinozio ricapitola e sintetizza la vicenda della storia sulla Terra: fine dell’età dell’oro, oscuramento del divino nella natura, sorgere dell’autocoscienza, senso individuale di solitudine cosmica e di responsabilità.
Quel sentimento di malinconia, suggerito dalle foglie che ingialliscono e cadono, deve essere energicamente bandito. La nostalgia del passato, il lamento “tradizionalista” non si addicono all’uomo nobile (all’“arya”): egli sa che nel cosmo ciò che declina e muore è bilanciato secondo giustizia da ciò che sorge e si afferma. Nell’equinozio di autunno si celebra l’affermazione della volontà, la capacità “faustiana” di porsi obiettivi e di perseguirli.
L’elemento alchemico dell’autunno è il Ferro: al ferro materiale che ha forgiato la nostra civiltà tecno-industriale deve corrispondere il ferro spirituale della volontà, concretamente – e razionalmente – esercitata.
Gli Dei benedicono l’azione concreta, la volontà che si afferma in progetti ben definiti o che si volge alla formazione di sé (alla Bildung).
In autunno, gli spiriti di natura fanno ritorno alla Terra. Riaspirati alle radici del terreno si sottopongono alle forze della gravità. La festa d’estate svanisce, ma nell’animo dell’uomo libero non vi è spazio per la malinconia.
Quando la natura si spegne bisogna volgersi alla coscienza di sé. La festa dell’equinozio che apre l’autunno è la festa dell’autocoscienza forte e libera, è la festa dell’iniziativa piena di energia, della liberazione da ogni timore e da ogni condizionamento dell’animo. Quando la natura esteriore si spegne e la vegetazione appassisce, cresce in compenso tutto ciò che si lega all’iniziativa interiore. Forze di volontà si liberano, l’Anima del Mondo esorta l’individuo a diventare più coraggioso.
Nel giorno dell’equinozio si celebra la festa del forte volere.
Al culmine dell’estate erano divenuti visibili i grandi stormi meteoritici che contengono il ferro cosmico. Quel ferro piovuto dal cielo in direzione della terra contiene l’arma degli Dei contro il drago-Ahrimane che vuole rubare agli uomini la luce animica, avvincendoli tra le sue spire. Allora il sangue umano si pervade di ferro: milioni di sfavillanti meteore turbinano nel sangue donando all’organismo l’energia per combattere ogni paura, ogni terrore, ogni forma degradante di odio. Come il volto dell’uomo quando corre diventa rosso vermiglio, così il corpo sottile dell’uomo irradiato di ferro cosmico comincia a emanare energia.
Nelle antiche mitologie ricorrono figure di divinità solari, giovani divinità dorate che abbattono un drago o un serpente che sale dalle viscere della terra. Quando le giornate di autunno si rabbuiano e si rinfrescano, quando cadono le foglie e le prime piogge, evoca nella fantasia queste figure divine mentre abbattono il drago: esse sono il simbolo della autocoscienza vittoriosa, che si sveglia dal sonno dell’estate, pronta a realizzare con decisione i propri obiettivi.
Si immagini il drago, il cui corpo è formato dalle correnti sulfuree che salgono dalla terra accaldata d’estate: queste correnti gialle e azzurrognole formano le squame, le placche, le spire del drago. Ma ecco sul drago librarsi il dio dal volto di sole: egli brandisce la spada, in un’ atmosfera satura di saettanti stormi meteoritici. In virtù della luce dorata irradiante dal cuore del dio le meteoriti si fondono in una spada di ferro, che penetra nel corpo dell’antico serpente e lo distrugge. Alimenta con l’immaginazione la corrente che scorre dalla testa verso l’organismo, verso il basso: come uno stormo di meteoriti dal cielo stellato piove sulla terra, così una cascata di energia si riversa dal capo al cuore e seguendo le vie del sangue giunge agli organi e agli arti. Ovviamente all’immaginazione deve accompagnarsi l’azione: se qualcosa è in disordine deve essere ordinato, se qualcosa era stato lasciato in sospeso ora deve essere portato a termine, se qualche timore irretisce il nostro animo bisogna mettersi alla prova e con accortezza superare il timore, se ancora qualche fede, qualche credenza domina l’anima è tempo di dissolverla con la forza della razionalità, se qualche malumore aveva offuscato il rapporto con una persona è tempo di chiarire le cose con cordialità e amore. Così, agendo con energia, si onora lo Spirito dell’Autunno, tanto simile all’Arcangelo Solare venerato dagli antichi Persiani.
Tutta la nostra civiltà è costruita col ferro. Da quando i nostri antenati irruppero da Nord sui loro carri di battaglia brandendo asce di ferro, la nostra civiltà ha trasformato il volto della terra battendo il ferro, forgiando l’acciaio. Si pensi agli aerei che sfrecciano in cielo, ai ponti sospesi tra le sponde, alle strade ferrate, alle grandi navi. Grazie all’elemento del ferro si afferma il dominio della tecnica. Ma ciò che sulla terra si manifesta come ferro, nell’interiorità dell’uomo si esprime come volontà. Per questo si dice: “volontà di ferro”.
Nell’aria dell’autunno, quando le piogge spazzano via la sensualità dell’estate, si compie un processo alchemico: Ferro scaccia Zolfo. La corrente di ferro, fredda e metallica, che piove dal cielo smorza la corrente sulfurea che era fuoriuscita dalle viscere della terra nei mesi caldi d’estate. Respirando la fresca aria dell’autunno l’uomo prende parte a questo processo. Bisogna percepire questa corrente alchemica e alimentarla con la volontà. La divinità solare dallo sguardo metallico, col suo gesto indicante accompagna l’uomo nel cambio di stagione.

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Celebrare l’equinozio di autunno


Gli equinozi, tempi di attività sospesa, sono periodi in cui le persone cambiano i loro ritmi vitali, adattandoli ad una fase stagionale diversa. Per questo motivo sono epoche di turbolenza fisica e psichica. Anche meteorologicamente sono momenti in cui le masse di aria calda si raffreddano provocando le cosiddette tempeste equinoziali, che i navigatori conoscono fin troppo bene. È necessario conoscere il significato e l’importanza di queste fasi naturali così che la loro turbolenza ci dia energia invece di svuotarci. Tuttavia, se durante l’Equinozio di Primavera si andava verso una stagione di crescita e di azione, stavolta ci si muove verso una stagione di declino. Fisicamente quindi, sarà opportuno concederci pause di riposo, dopo lo stress della calura estiva e di vacanze spesso frenetiche, prima di affrontare i rigori dell’inverno. Se si ha la possibilità, ci si può concedere una breve vacanza settembrina a scopo esclusivamente riposante. Sono molto indicati in questo periodo anche esercizi di rilassamento e di respirazione. Ci possiamo concedere attività fisiche non particolarmente impegnative:
questo è il periodo ideale per passeggiate ed escursioni in campagna e in collina, anche per salutare la Natura che si prepara al suo riposo invernale. L’immagazzinamento e la trasformazione dei prodotti della terra segna il completamento di un ciclo vitale che si riferisce non solo ad un evento vegetale e naturalistico esteriore ma, come abbiamo più volte ribadito, anche alla nostra esistenza umana. Se il tema cosmico del declino della luce ci spinge alla riflessione, all’introversione, all’entrare in noi stessi dopo la frenesia primaverile ed estiva, il tema vegetale e agrario ci suggerisce un atteggiamento di ringraziamento: per i frutti della terra e per le esperienze dell’anno trascorso, le lezioni imparate che sono il raccolto delle nostre esistenze. Infatti, psicologicamente è tempo di riflessione e di contemplazione, di ringraziamento per i frutti della terra e per le esperienze che abbiamo avuto durante l’anno. Uno dei temi su cui possiamo meditare, ispirandoci all’immagazzinamento dei frutti.della terra, riguarda tutto quello che è avvenuto nella nostra vita. Prendiamoci un po’ di tempo per riflettere su quello che ci è accaduto e su quello che abbiamo raccolto o imparato durante l’anno. Approfittiamo quindi di questo periodo per fare “il punto della situazione”: possiamo a questo scopo trascrivere in un diario tutto quello che siamo riusciti a realizzare, come pure le cose che non siamo riusciti a fare secondo i nostri progetti e i motivi che ci hanno impedito la loro realizzazione. Come ogni festa dell’anno anche l’Equinozio va visto come una piccola iniziazione ad un nuovo livello di consapevolezza. Ora la parte alta dell’anno è terminata ed è tempo di volgersi all’interiorità. Noi entriamo nella parte declinante della Ruota dell’Anno: è tempo di viaggiare nell’oltremondo e di esplorare il sé, incontrando quegli aspetti di noi che ostacolano la nostra vita interiore. Entriamo nel tempo del buio, ma privati della luce esteriore, possiamo incontrare l’illuminazione interiore. Così, riflettiamo sui misteri della trasformazione attraverso la morte e prepariamoci per l’arrivo dell’inverno e alla nostra trasformazione interiore. Ricordiamoci soprattutto che come la morte del Dio della Vegetazione significa trasformazione, rigenerazione e rinascita, così anche noi rivedremo la luce rigenerati e rinnovati. Quindi possiamo dedicare il periodo dell’Equinozio alla meditazione, alla visualizzazione guidata, alla riflessione sui nostri sogni. È un buon momento per dedicarci a tutte quelle attività che ci pongono a contatto con il nostro inconscio. Se ce la sentiamo e soprattutto se abbiamo l’occasione di incontrare validi maestri, possiamo praticare tecniche sciamaniche, come quelle dei Nativi Americani, particolarmente adatte ai viaggi nei mondi spirituali. È una buona cosa ringraziare la Grande Madre Terra con un piccolo festino: invitiamo i nostri amici, offriamo loro i frutti di stagione e ammiriamo il fresco tramonto di settembre ricordando i giorni trascorsi insieme nell’anno! Possiamo decorare la tavola con foglie, noci e frutti di stagione. Se desideriamo fare qualcosa di più complesso per celebrare questo periodo dell’anno possiamo celebrare un piccolo rito di ringraziamento, all’aperto o al chiuso, come desideriamo. Sarebbe preferibile il tardo pomeriggio, osservando il sole che tramonta. Si può accendere una candela blu: è il colore dell’oceano cosmico in cui tramonta il sole, il colore sacro dell’Occidente. Diciamo “Ti salutiamo Dio Sole e aspettiamo la tua rinascita”. Su un tavolo o su un altro ripiano possiamo aver disposto frutti di stagione e una coppa di vino. Dopo averli presentati al sole che tramonta diciamo:“Ti ringraziamo Madre Terra per i doni che ci hai dato”. Meditiamo quindi sui temi di questa stagione e sulle buone cose che abbiamo ottenuto nelle nostre vite durante l’anno trascorso. Poi consumiamo i frutti e beviamo il vino, ricordandoci, come abbiamo imparato a fare, di lasciarne una parte per la terra e le sue creature.

Da: Feste pagane di Roberto Fattore

23 settembre: la Luce dell'Autunno (Alban Elued)

Il giorno 23 settembre cade l'equinozio d'autunno, il Sole attraversa l'Equatore Celeste, passando dall'emisfero Nord a quello Sud,: finisce l'estate ed inizia l'autunno. Dopo 6 mesi il Sole viene a trovarsi nuovamente sul piano dell'equatore terrestre ed il circolo di illuminazione passa per i poli; in questo giorno il Sole passa allo zenit all'equatore, sorge al polo sud, tramonta al polo nord e la giornata dura esattamente 12 ore in tutto il resto della Terra.
L'equinozio, oltre che dalla durata del giorno e della notte, che è uguale, può essere riconosciuto con una semplicissima esperienza di gnomonica: osservate l'ombra di un chiodo infisso su un muro esposto al Sole. Il vertice dell'ombra, nel corso di ogni giorno dell'anno, disegna una curva che, agli equinozi, diventa una retta. Questa retta ed almeno le due curve giornaliere dei solstizi sono generalmente presenti sui quadranti degli orologi solari.
L'Equinozio d'Autunno viene chiamato nella tradizione druidica Alban Elfed, Luce d’Autunno, o Alban Elued, Luce dell'Acqua).
Esso rappresenta la seconda festività del raccolto, segnando per parte sua, la fine della mietitura, così come Lughnasad ne aveva segnato l'inizio.
Ancora una volta il giorno e la notte sono in perfetto equilibrio, come lo erano all'Equinozio di Primavera, ma ben presto le notti cresceranno fino ad essere più lunghe dei giorni, e l'inverno sarà di nuovo tra di noi.
L'equilibrio è più intenso in questo momento che nell'agitazione della primavera, e questa è spesso la più tranquilla tra le feste.
Il raccolto è completato; è un momento di accettazione di tutto ciò che abbiamo e di ciò che ci manca, un momento di riflessione su ciò che abbiamo realizzato.
È forte l'elemento acqua, il flusso e riflusso delle maree, mentre noi ci mettiamo nell'ovest del nostro cerchio sacro, cercando di capire i misteri dell'equilibrio.
È un momento per scambiarsi doni di abbondanza e forza, un momento in cui i partecipanti portano al rito offerte e regali per gli altri e per gli Dei.
Nella cerimonia rendiamo grazie per i frutti della terra e per la bontà della Dea Madre. E così il ciclo si completa e ritorniamo di nuovo al tempo di Samhuinn.
Alban Elued è posto ad Occidente, quando l'energia si avvia ad essere piuttosto favorevole al raccoglimento, al tranquillo raccolto delle esperienze dell'estate.
In molti Boschi (congreghe druidiche) è consueto benedire e condividere cibi e bevande in tutti i riti festivi. Spesso si tratta di una grande pagnotta rotonda fatta in casa e di idromele (oppure sidro, vino o birra) fatto passare in un cerchio dentro un corno per bere.
Dopo aver reso grazie alla dea del territorio e al signore della luce e avere riconosciuto l'alchimia che trasforma il grano in pane e il nettare dei fiori in idromele, la congregazione invocherà la benedizione del pane e del corno. Il primo pezzo di pane, il primo sorso di idromele sono restituiti al suolo, alla Madre Terra, agli spiriti del luogo, e se indicato per il rito se ne consegnano altri agli antenati attraverso le fiamme del fuoco.
Se il Bosco non celebra questo banchetto ad ogni rito, quasi sempre lo farà all'equinozio d'autunno.

Philipp Carr Gomm ed Emma Restall Orr

mercoledì 21 settembre 2011

Equinozio di autunno - il tramonto dell’anno



All’Equinozio di Autunno il sole, nel suo cammino apparente nel cielo, incrocia nuovamente l’equatore celeste e ancora una volta nel corso dell’anno giorno e notte si equivalgono nella loro durata, ma stavolta il percorso segue una direzione opposta a quella dell’equinozio primaverile, passando dall’emisfero settentrionale dello zodiaco a quello meridionale. Il sole scende letteralmente agli “inferi” e le tenebre cominciano a prevalere sulla luce. In molti circoli druidici contemporanei l’Equinozio autunnale viene chiamato Alban Elued, “Luce dell’Acqua” in gallese:
infatti l’acqua raffigura l’oceano cosmico in cui si immerge il sole nella parte calante dell’anno, la misteriosa profondi­tà marina che diviene sempre più scura man mano che i giorni si accorciano.
Gli antichi concepivano la terra come galleggiante nell’acqua (o meglio indicavano col nome di terra la regione dello spazio sovrastante la fascia dell’equatore celeste e acqua quella sottostante) e il Solstizio estivo era connesso con le spiagge, il luogo di mutamento ed equilibrio tra l’anno crescente e quello calante al punto più alto del sole. L’acqua è la sfera dell’Equinozio autunnale, l’anno discendente nell’oceano. È un momento di passaggio, critico come tutti i momenti sacri dell’anno di cui abbiamo parlato, quando la barriera tra il mondo visibile e quello invisibile si fa più sottile. Gli antichi lo consideravano un periodo propizio ai riti misterici. Si celebravano ad esempio quelli di Mithra, signore e animatore del cosmo e allo stesso tempo mediatore fra le divinità e gli esseri umani, così come l’asse degli equinozi è intermediario tra le due fasi dell’anno. Mithra veniva spesso raffigurato in mezzo a due portatori di fiaccola, uno (Cautes) con la torcia sollevata in alto a simboleggiare l’equinozio di primavera e l’altro (Cautopates) con la torcia abbassata a indicare l’Equinozio di Autunno. Più tardi le funzioni di Mithra vennero assunte dall’arcangelo Michele, la cui festa, insieme a quella degli altri due arcangeli Gabriele e Raffaele ricorre il 29 settembre. Il periodo equinoziale di autunno è chiamato appunto Michaelmas nei paesi anglosassoni. Michele è arcangelo di fuoco e di luce, alter ego e gemello di Lucifero: ora è il momento di congedarci dalla luce. Ma il mese di settembre era anche il periodo in cui si svolgevano i Grandi Misteri di Eleusi. I rituali eleusini, basati sul simbolismo del grano, celebravano il mito di Demetra e sua figlia Perséfone: il loro momento culminante era la presentazione agli iniziati di una spiga di grano accompagnata dalle parole “nel silenzio è ottenuto il seme di saggezza”. Nel mito classico Persefone venne catturata da Ade, Dio degli Inferi. Sua madre Demetra, Dea del Grano, la cercò ovunque lamentando la perdita della figlia e rifiutando di fare fiorire e fruttificare la terra. Il suolo divenne spoglio e desolato, e l’umanità invocò il soccorso degli dei. Alla fine, stanca, Demetra sedette per nove giorni e nove notti e gli dei le fecero sbocciare papaveri tutt’intorno. Respirando il loro profumo soporifero Demetra si addormentò e nel frattempo gli dei riuscirono ad ottenere da Ade il ritorno di Persefone. Ma siccome la giovane Dea aveva mangiato tre semi di melograno, cibo dell’Altro mondo offertole da Ade, fu destinata a trascorrere tre mesi ogni anno nel mondo infero, mesi durante i quali l’inverno cadeva sulla terra. Persefone era discesa agli inferi come il sole discende negli inferi celesti, e come il sole ne sarebbe ritornata con la promessa della rigenerazione della Natura. Se Lughnasadh è l’inizio del raccolto, rappresentandone l’aspetto sacrificale, il tema stagionale dell’Equinozio è la fine del raccolto, il suo completamento. Ma è anche il momento del secondo raccolto dopo quello dei cereali: quello della frutta e dell’uva. Dioniso, nato secondo certi miti proprio dalle nozze di Persefone e Ade-Plutone, è il dio della vite e dell’ebbrezza. Il processo che conduce alla fabbricazione del vino era per gli antichi così misterioso e il prodotto finale così sacro (come ogni altra sostanza capace di indurre modificazioni nello stato di coscienza) che ogni fase della raccolta dell’uva veniva accompagnata da rituali. Il vino pressato veniva poi messo in botti dove il succo alcolico passava attraverso una seconda fermentazione fino a diventare vino. Questo processo era per gli antichi affine alla trasformazione spirituale che ha luogo durante le iniziazioni. Sembra quasi che la fermentazione nel buio delle cantine sia immagine speculare alla trasformazione che avveniva negli iniziati durante i riti misterici nel buio dei santuari sotterranei. Non per nulla l’alcool è stato chiamato “spirito”... Se il vino dominava i culti misterici mediterranei, nelle Isole Britanniche si celebrava John Barleycorn, lo “spirito” del grano che rinasce nel whisky, “l’acqua di vita” dei Celti. I Celti chiamavano l’Equinozio autunnale anche col nome di Mabon, il giovane dio della vegetazione e dei raccolti. Mabon, indicato col nome di Maponus nelle iscrizioni romano-britanne, è il figlio di Modron, la Dea Madre: rapito tre notti dopo la sua nascita, venne imprigionato per lunghi anni fino al giorno in cui venne liberato dal Re Artù e dai suoi compagni. Il suo rapimento è l’equivalente celtico di quello di Persefone: un simbolo evidente dei frutti della terra che sono immagazzinati in luoghi sicuri e poi “sacrificati” per dare la vita agli uomini. In questo periodo, un po’ ovunque si tengono feste del raccolto, con abbondanza di cibo e di bevande. C’è grande sollievo, ora che le messi e i frutti sono stati raccolti e immagazzinati. Un tempo, il raccolto costituiva la riserva di provviste da conservare per il sostentamento durante l’inverno. Le divinità della terra venivano ringraziate per i loro doni, auspicando un futuro ritorno dell’abbondanza negli anni successivi.
Queste celebrazioni avevano un’atmosfera di dolce malinconia. Il Dio del Grano era morto, così come moriva il Dio del Sole. Egli viaggiava ora nell’Altro Mondo, discendendo agli inferi per addormentarsi nel grembo della Dea Madre, da dove sarebbe rinato al Solstizio d’Inverno. Più che una morte dunque, si trattava di un lungo sonno. Il poeta e scrittore Robert Graves, parlando degli aspetti della Grande Dea ci dice che se all’Equinozio di Primavera lei si presentava sotto l’aspetto dell’iniziazione, all’Equinozio di Autunno era nel suo aspetto di riposo, il riposo che attendeva gli iniziati dopo le fatiche della vita. La malinconia era dunque dolce perché c’era la consapevolezza di una rinascita a una diversa condizione di vita. I due temi stagionali del sole e del raccolto condividevano con l’umanità un universale ciclo di nascite, morti e rigenerazioni. Nelle feste del raccolto aveva un posto d’onore un oggetto simbolico che abbiamo incontrato più volte nelle feste sacre: la Bambola del Grano, formata dalle ultime spighe raccolte e legate con un filo solitamente rosso. La bambola, se non veniva sepolta nei campi a scopi propiziatori, era conservata fino alla fine del raccolto dell’anno successivo. Essa veniva chiamata a volte “Ragazza dell’edera”, perché l’edera, che rimane verde durante l’inverno, è il simbolo della vita che continua: crescendo a spirale appare come un simbolo di rinascita (la vita che ritorna ciclo dopo ciclo) e come pegno di rinascita del Dio, sia come nuovo sole al Solstizio, sia come nuovo raccolto in primavera. La pianta sacra dell’Equinozio di Autunno è la mora selvatica. In molti luoghi si dice che le more non dovrebbero essere più mangiate dopo la fine di settembre, perché “il diavolo le guasta”. Ciò è legato ad antiche usanze secondo le quali i prodotti della terra non raccolti nel loro momento stagionale appartengono agli spiriti di Natura: in realtà si trattava delle offerte lasciate alle divinità. La mora selvatica è un sostituto della vite nel simbolismo agrario dei paesi nordici. Robert Graves aveva ipotizzato l’esistenza di un antico calendario arboreo nel quale l’Equinozio autunnale viene prima della fine del “mese della Vite” e dell’inizio del “mese dell’Edera”, due piante che crescono a doppia spirale, simbolo di rinascita come abbiamo già visto. Sempre secondo Graves il cigno è l’uccello dell’Equinozio in quanto simbolo dell’immortalità dell’anima e guida dei morti nell’aldilà (Apollo, dio solare greco, vola su un carro trainato da cigni fino alla sua nordica dimora invernale, tra gli Iperborei).

Da: Feste pagane di Roberto Fattore

domenica 4 settembre 2011

La Dea Artemide




 Artemide, nota ai romani come Diana, era la dea della caccia e della luna. Slanciata e incantevole figlia di Zeus e di Leto, vagabondava nel folto della foresta per montagne, prati e radure, con il suo stuolo di ninfe e i suoi cani da caccia. Vestita di una corta tunica, armata di un arco d’argento, una faretra colma di frecce sulla spalla, tirava con l’arco con mira infallibile. Come dea della luna viene rappresentata anche nell’atto di portare la luce, con in mano una torcia o con il capo circondato dalla luna e dalle stelle.
Come dea della vita selvaggia, e in particolare dei piccoli degli animali, veniva associata a molti animali selvatici, simbolo delle sue qualità. Il cervo, la daina, la lepre, la quaglia, che hanno tutti in comune con la dea una natura sfuggente. La leonessa era il simbolo della sua regalità e della sua abilità di cacciatrice, e l’orso feroce rappresentava il suo aspetto distruttivo. L’orso era anche un degno simbolo del suo ruolo di protettrice dei piccoli (in Grecia, le fanciulle consacrate ad Artemide e poste sotto la sua protezione, durante la fase preadolescenziale, erano dette arktoi, o “orse”). Era poi associata anche al cavallo selvatico, che girava libero con i suoi compagni, come Artemide con le sue ninfe.

Genealogia e mitologia
Artemide era la sorella gemella di Apollo, dio del sole, nata prima di lui. La madre, Leto (Latona per i romani), era una divinità della natura, figlia di due Titani, il padre era Zeus, re dell’Olimpo.
Quando venne il tempo per Leto di dare alla luce i suoi figli, sorsero grandi ostacoli. Ovunque si rivolgesse era infatti sgradita, perché tutti temevano la collera vendicativa di Era, moglie legittima di Zeus. Trovò finalmente rifugio sulla desolata isola di Delo, e diede alla luce Artemide che, appena nata, l’aiutò nel lungo travaglio e difficile parto di Apollo. Per nove giorni e nove notti Leto soffrì dolori atroci a causa degli sforzi vendicativi di Era. Artemide, che fu la levatrice di sua madre, venne quindi considerata anche la dea del parto. Le donne si rivolgevano a lei come “soccorritrice del dolore, lei che dal dolore non viene sfiorata”.
La pregavano di porre fine al loro travaglio o facendo nascere il bambino o dando loro una “morte dolce” con le sue frecce.
Quando Artemide compì tre anni, Leto la portò sull’Olimpo per mostrarla a Zeus e alla sua divina parentela. Nell’Inno ad Artemide il poeta Callimaco la descrive seduta sulle ginocchia di suo padre, che estatico “si chinava su di lei e la carezzava dicendo: “Quando le dee mi portano figlie come questa, la collera della gelosia Era mi turba assai poco. Figlioletta mia, avrai tutto ciò che desideri”.
Artemide chiese arco e frecce, una muta di cani con cui andare a caccia, ninfe che l’accompagnassero, una tunica abbastanza corta per correre, montagne e terre selvagge come luoghi tutti suoi e castità eterna: tutte cose che il padre le concesse, con in più il privilegio di poter fare personalmente le sue scelte.
Artemide si recò quindi nei boschi e presso il fiume per scegliere le ninfe più belle. Andò sulle rive del mare in cerca dei Ciclopi, gli artigiani di Poseidone, perché le forgiassero un arco d’argento e le frecce. E infine, con l’arco in mano, seguita dalle sue ninfe, andò a scovare Pan, il dio mezzo uomo e mezzo capro che suonava il flauto, e gli chiese alcuni fra i suoi migliori cani da caccia. Poiché la notte stava scendendo, impaziente di provare i doni appena ricevuti, andò a caccia al lume delle torce.
Nei miti che la riguardano, Artemide agiva in maniera rapida e decisa, per portare protezione e soccorso a chi si rivolgeva a lei chiedendo aiuto ed era altrettanto rapida nel punire chi la offendeva.
Un giorno, sua madre Leto era in viaggio verso Delfi per andare a trovare Apollo, quando il gigante Tizio cercò di violentarla. Artemide corse in suo aiuto, puntò l’arco e le frecce con mira infallibile e lo uccise.
Un’altra volta, l’arrogante e stolta Niobe fece l’errore di insultare Leo, vantandosi di avere molti bellissimi figli e figlie, mentre lei ne aveva solo due. Leto chiamò Artemide e Apollo a vendicare questo insulto, ed essi lo fecero immediatamente. Con arco e frecce Apollo uccise i sei figli e Artemide le sei figlie di Niobe, la quale fu poi trasformata in una rupe grondante lacrime.
Degno di nota è il fatto che Artemide sia venuta ripetutamente in aiuto a sua madre. Non si ha notizia di dee che abbiano fatto altrettanto. Altre donne si rivolsero a lei con successo. La ninfa dei boschi Aretusa la invocò quando fu sul punto di essere violentata. Aretusa, di ritorno da una battuta di caccia, si era spogliata e si stava rinfrescando con un bagno in un fiume, quando il dio di quel fiume, Alfeo, la scorse e, acceso dal desiderio, la inseguì. Artemide, udite le grida della ninfa che fuggiva nuda in preda al terrore, la nascose in un alone di nebbia e la trasformò in fonte.
Con coloro che la offendevano Artemide era spietata, come dovette constatare lo stolto Atteone. Mentre vagava con i suoi cani per la foresta, il cacciatore Atteone si imbatté per caso nella dea e nelle sue ninfe che si bagnavano in uno stagno nascosto e rimase attonito a guardare. Offesa da quell’indiscrezione, Artemide gli spruzzò dell’acqua sulla faccia, trasformandolo in un cervo, così che i suoi cani si scagliarono contro il loro padrone. Preso dal panico, Atteone cercò di fuggire, ma venne raggiunto e sbranato.
Artemide uccise anche un altro cacciatore, Orione, da lei amato: una morte non voluta da lei, ma provocata da Apollo, che si sentiva offeso da quell’amore. Un giorno Apollo vide Orione nuotare in mare, con la testa a pelo dell’acqua. Artemide era poco distante; Apollo le indicò un oggetto scuro nell’oceano e le disse che non sarebbe riuscita a colpirlo. Provocata dalla sfida del fratello e non sapendo che l’oggetto contro cui mirava fosse la testa dell’uomo da lei amato, Artemide scoccò una freccia che lo uccise. Successivamente la dea pose Orione fra le stelle e gli diede uno dei suoi cani, Sirio, la stella principale della costellazione del Cane, che lo accompagnasse nei cieli. Così, il solo uomo da lei amato fu vittima della sua natura competitiva.
Benché conosciuta soprattutto come dea della caccia, Artemide era anche la dea della luna. Si sentiva a suo agio la notte, quando vagabondava nel suo regno selvaggio alla luce del pianeta o di una torcia. Nelle sue sembianze di dea della luna era collegata con Selene ed Ecate, e insieme erano considerate una trinità lunare: Selene aveva potere in cielo, Artemide in terra, Ecate nell’arcano e misterioso mondo sotterraneo

Da: Le dee dentro la donna di Jean Shinoda Bolen

sabato 3 settembre 2011

Il Manoir du Tertre



In Bretagna, su una collina che domina la foresta di Brocéliande, l’attuale foresta di Paimpont, si trova una maison d’hôtes molto particolare, il Manoir du Terte (“maniero del colle”).
Il maniero è una grande casa di pietra del 1600, Madame Anne-Marie Ordelman Quintin lo comprò nel 1995 da Hervé Gougenheim per continuare la tradizione magica in onore dell’antica proprietaria, Geneviève Zaepfell, morta nel 1971, già anziana e molto ammalata, ovvero la Dama Bianca del grande ritratto che si trova nel salone.
Quando Anne-Marie capitò “per caso” nel Manoir du Tertre, il 5 maggio del 1995, per festeggiare l’anniversario di nozze dei suoi genitori, il proprietario incredibilmente le disse che l’aspettava perché sarebbe stata lei la nuova proprietaria! Lei non ci pensava nemmeno, anche perché viveva in Olanda, avendo sposato un olandese, eppure poche settimane più tardi acquistò il maniero.
Attualmente sono subentrati altri proprietari poiché nel 2000 l’hotel era rimasto chiuso di nuovo per lavori di ampliamento che probabilmente necessitavano di fondi molto cospicui, ignoro se sia ancora un luogo dove si continuano le tradizioni druidiche e le attività di cui parlo più avanti.
Il “maniero del colle” era la casa di famiglia di Geneviève, dove vi era vissuta con i suoi genitori. Di salute cagionevole, era una bimba malinconica, più matura della sua età. Sin da quando aveva sette anni si rese conto di possedere facoltà paranormali. In quell’angolo selvaggio, propizio all’iniziazione, alla meditazione, antica terra di druidi, le cui ceneri emettevano ancora radiazioni di fuoco vivo, terra che aveva accolto le protezioni occulte di Viviana, la fanciulla crebbe in un’atmosfera incantata dalle sue visioni. Decise, così, di continuare nella sua ricerca spirituale per l’antica strada dei suoi antenati druidi.
Studiò a Parigi, alla Sorbona, scrisse molti libri oggi introvabili e si sposò, coinvolgendo il marito nella sua dimensione magica; era fermamente decisa a combattere il male col potere della luce. La sua anima celtica la spingeva a vivere costantemente nel soprannaturale. Scrisse anche un volume di profezie che, nel tempo, cominciarono ad avverarsi. Allora la gente iniziò a recarsi da lei per consiglio e aiuto; molto generosamente aprì la sua dimora agli ospiti.
Proprio a causa delle sue vesti era soprannominata “la Dame Blanche”. Prima della guerra i visitatori che andavano a trovare la grande veggente erano migliaia.
Anche Anne-Marie ha cercato di continuare l’antica tradizione celtica, organizzando feste e incontri, durante i solstizi, attorniata da un piccolo “circolo” di persone che, durante quelle notti magiche, compivano riti sacri; narrava di magnifiche notti prodigiosamente chiare in cui l’astro lunare, enorme, guarda sulla terra per benedirla. Notti magiche e rassicuranti in cui, seduti attorno a un fuoco, si medita in silenzio e in assoluta comunione spirituale, rendendo grazie agli antichi dèi per avere permesso loro di vivere in quel modo diverso, immersi in un grande spazio universale. Notti irripetibili, non oscure ma permeate da una lattiginosa luce bianca, quando si manifesta la presenza di Geneviève, che torna, per brevi istanti, nella loro dimensione iniziatica. E questi Celti arrivano da ogni parte d’Europa, dalla Scozia, dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, qualcuno anche dall’Italia, perché essere “Celti” non è solo una questione di nascere in determinati paesi ma un modo di pensare tutto particolare.
Tornando a Geneviève, ella passava nel maniero la maggior parte del suo tempo. Ormai la sua missione mistica era quella; il suo karma la portava a operare per “la forza del bene”. Così, circondata da persone adeguate creò, con le stesse, una sintonia spirituale. Purtroppo la salute continuava a non aiutarla molto, essendo costantemente affetta da una grave malattia che la faceva soffrire. Ma le sue forze scaturivano dall’interiorità dell’anima. Formò una cerchia di amici che si riunivano periodicamente per festeggiare la natura durante i solstizi e gli equinozi, con rituali nella foresta di Brocéliande.
In seguito il maniero si trasformò in un hotel, che passò a Monsieur Gouguenheim, il quale cercò di continuare la tradizione druidica. Geneviève, nata nel 1892, morì il 21 giugno del 1971. Ora riposa nel cimitero di Paimpont, sotto una semplice lastra di marmo scuro insieme alla sua famiglia.
Ospiti-clienti del maniero assicurano di aver visto il suo fantasma salire le scale o aggirarsi nel salone.
Esiste un giornale che viene stampato per i membri del Cerchio, denso di notizie interessanti, che comprendono intensi programmi culturali che si tengono nel maniero durante l’anno. Oltre ai riti si fanno spettacoli di musiche tradizionali, concerti di arpa celtica, ballate e diverse altre manifestazioni che tendono a rafforzare sempre più il carattere mistico del luogo.

Da: La magia dei celti di Pina Andronico Tosonotti

mercoledì 27 luglio 2011

Celebrare Lughnasadh


Questo momento dell’anno, dominato dal calore solare e dalla generosità della Natura, vede la fine degli sforzi umani per portare a compimento il ciclo agrario con il raccolto. Lughnasadh per noi dovrebbe essere tempo di gioia e di vacanze, un periodo in cui raccogliamo e godiamo i frutti delle nostre fatiche. Le cose che abbiamo portato a termine al Solstizio ora sono mature e possiamo vedere i primi risultati delle nostre azioni intraprese nei mesi precedenti. Ma è anche un momento di preparazione per il futuro, di riflettere che presto sarà autunno e che dovremo affrontare una fase diversa. Per capire l’importanza di questa festa nella nostra vita psichica, ci occorre comprendere l’importanza del tema di morte e di rinascita nelle nostre vite. Diventiamo consapevoli che la vita umana cresce e poi declina, è una ruota che deve continuamente essere equilibrata. Questo è il culmine dell’anno ma anche l’inizio del processo del suo declino. È utile comprendere l’idea del sacrificio in termini di trasformazione, non tanto di morte bensì di lasciare andare via qualcosa per arrivare ad un più alto livello creativo nella nostra vita. Il grano sacrificato diventa pane, il frutto viene raccolto in modo che ci possa nutrire. Lughnasadh è festa di trasformazione e la rinascita è la legge perpetua della Natura. Proviamo ad andare nei campi dopo la mietitura: se saremo fortunati potremo trovare alcune spighe sopravvissute alle implacabili mietitrebbiatrici. Raccogliamole e formiamo con esse una bella ghirlanda intrecciata con nastri dorati, il colore del dio Lugh. Conserviamola in casa o regaliamola alla persona più cara, come auspicio d’abbondanti raccolti materiali e spirituali nelle nostre vite. Se vogliamo provare a celebrare in maniera rituale questa festa, potremmo farlo all’alba del l° agosto oppure nel pomeriggio della stessa giornata. Ci si procura alcune spighe di cereali, alcune manciate di chicchi di grano, una pagnotta di pane e una coppa di vino. Si accendono tre piccoli fuochi oppure (se non possiamo celebrare questo rituale all’aperto) tre candele gialle o dorate. Si inizia da quello di destra dicendo: “In onore di Lugh, Dio della Luce”. Poi si passa ad accendere il fuoco o la candela di sinistra dicendo: “In onore della Dea della Terra”. Infine si accende il fuoco (o la candela) centrale dicendo: “In onore del Re del Grano che muore per donarci la vita”. A questo punto con le spighe che ci siamo procurate formiamo un mazzo, legandolo con un nastro giallo o dorato e collocandolo nello spazio davanti alle tre candele o ai tre fuochi. Si prende una manciata di chicchi di grano e si compie lentamente un giro a spirale attorno al nostro mazzo di spighe, verso l’esterno e in senso antiorario. Camminando si lascia cadere lentamente il grano dietro di noi, dicendo: “Percorro il sentiero della Madre Terra”: dopo aver compiuto tre giri intorno al mazzo, ci si ferma in meditazione sul significato del grano e poi si ritorna verso il mazzo, sempre muovendo a spirale ma stavolta in senso orario. Si lasciano cadere altri semi di grano, dicendo: “Percorro il sentiero del Dio della Luce”.
Ci si ferma in meditazione sul Dio Sole che sta per iniziare il suo viaggio nell’Altro Mondo. Poi si leva in alto il pane, indi la coppa di vino e si consumano questi cibi, lasciando briciole e gocce di vino da versare sulla terra

Da: Feste pagane di Roberto Fattore

Lughnasadh - la festa del grano


Uno dei più importanti eventi dell’anno agrario nell’antica Europa era ed è ancora il raccolto del grano. Risalente all’Età Neolitica, la coltivazione dei cereali ha letteralmente plasmato tutte le civiltà europee e mediterranee. La farina e il pane erano letteralmente la vita per le antiche popolazioni.
La mitologia più antica narrò di due entità femminili, madre e figlia, che rappresentavano forse il raccolto maturo e il futuro raccolto da seminare, entrambe simboleggiate dall’ultimo covone mietuto quasi a raffigurare la loro somiglianza e identità. Il folklore europeo ne parlò come la Vecchia del Grano, il vecchio spirito o la vecchia divinità che moriva al momento del raccolto per incarnarsi nella Fanciulla del Grano, raffigurata come una bambola formata con le spighe dell’ultimo covone e conservata come un talismano per tutto l’anno. In epoche precristiane queste due figure venivano chiamate Demetra e Persefone, o Cerere e Proserpina.
Ma non era solo una storia di raccolti e di vegetazione quella che raccontavano gli antichi miti. No, era una storia di morte e resurrezione che coinvolgeva tutti i regni della natura, compreso quello umano. I misteri iniziatici in onore di Demetra e Persefone che si tenevano ogni anno nell’antica città greca di Eleusi rivelavano che la morte è solo un passaggio verso una diversa esistenza. Così come Persefone ritornava dal regno dei morti, anche gli iniziati potevano aspirare alla resurrezione. Il chicco di grano muore ma per rinascere come nuova spiga. Più tardi la divinità del grano assunse aspetto maschile, il Re o Dio del Grano, figlio o amante delle grandi dee. Tali furono Tammuz e Adone, il primo riportato in vita dalla sua sposa Ishtar, il secondo destinato a trascorrere metà dell’an­no con la Regina dell’Oltretomba e l’altra metà con Afrodite, dea dell’amore e della fertilità. Entrambi erano giovani dei che morivano per risuscitare a nuova vita, come il grano. Suggerisce nulla tutto ciò? C’era un bosco sacro dedicato ad Adone nei pressi di Betlehem (“Casa del Pane”)...
In molti templi neolitici dell’Europa orientale sono state rinvenute statuette di donne-uccello (la Dea Uccello) e statuette umane che preparano il pane. Ciò richiama i motivi del tempio di Afrodite a Pafo, nell’isola di Cipro dove Afrodite e Adone furono amanti.
Nei paesi celtici del Nord Europa il raccolto dei cereali avveniva più tardi e prima delle dure fatiche del raccolto ci si concedeva una pausa di festa, contrassegnata il I° agosto dalla celebrazione di Lughnasadh (pron. Luunasa), la “commemorazione di Lugh” (nasadh commemorazio­ne o assemblea). In gaelico irlandese Lunasa indica il mese di agosto, in gaelico scozzese la ricorrenza è chia­mata Lunasda. L’Irlanda è una terra dove le usanze di Lughnasadh sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Nei secoli in cui la religione cattolica era perseguitata dai protestanti, le masse rurali si radunavano su cime di colline o vicino a sorgenti per celebrare i momenti di passaggio dell’anno, obbedendo a tradizioni molto più antiche del cristianesimo. L’Irlanda ha ancora un cuore pagano, basti pensare al film “Ballando a Lughnasa” dove tra l’altro è mostrato anche un festino intorno a un falò in cima ad un colle... Lugh, dio del fuoco e della luce, può avere derivato il suo nome dalla stessa radice del latino lux, e pare sia una più tarda e più sofisticata versione di Bel/Beli/Balor che regna su Beltane. Lugh è legato alle popolazioni agricole che si unirono a quelle pastorali: Beltane è una festa pastorale, Lughnasadh è una festa più agraria. Lugh nelle leggende irlandesi era un capo dei Tuatha Dé Danann, il “Popolo della Dea Dana”. Nella guerra contro i precedenti abitatori dell’Irlanda, i Fomori, egli scambiò la vita di Bres, capo nemico, con i segreti dell’agricoltura: aratura, semina, raccolto. Il re dei Fomori era Balor (l’antico Bel), ritenuto nonno o padre di Lugh; ciò non deve sorprendere poiché nelle mitologie di tutto il mondo un dio che rimpiazza una divinità più antica, viene sempre collegata ad essa da legami di parentela per poterne ereditare anche violentemente le funzioni. I Tuatha Dé Danann furono i penultimi invasori dell’Irlanda (gli ultimi furono i Milesiani, cioè i popoli gaelici) e si imposero ai più antichi Fomori. Lugh appare così un Balor rigenerato. Lugh è anche divinità delle arti, chiamato “ugualmente abile in tutte le arti” e “luminoso dalla mano abile” per indicare le sue capacità. Nel grande racconto mitologico “La battaglia di Mag Tured” si descrive l’arrivo di Lugh a Tara, capitale sacra dove possono essere accolti solo coloro che possiedono un’arte. I due portinai di Tara interrogano Lugh il quale elenca a una a una tutte le sue specializzazioni ed essi cercano di rifiutargli l’ingresso dicendo che a Tara esistono già persone maestre in ciascuna delle arti nominate. Al che Lugh ribatte dicendo che non sarebbe entrato a Tara solo se il re avesse avuto al suo servizio un uomo abile in tutte le arti. Poiché nessuno possedeva contemporaneamente tutte le capacità di Lugh, egli entrò trionfalmente nella capitale!
Lugh era patrono di molte città, come Lione in Francia, l’antica Lugdunum, per l’appunto e ciò può essere spiegato col fatto che le città dei Celti nacquero quasi tutte come fiere di artigiani e costoro trovavano naturale consacrare i nuovi insediamenti al loro patrono.
Lugh era detto anche Lamfhada “dal lungo braccio”, appellativo che lo avvicina al dio solare egizio Aton, raffigurato con raggi dalle lunghe mani. In alcune leggende egli appare nato da un parto trigemino (cioè possedendo una triplice forma), in altre egli sposa tre dee. Questo aspetto trino lo avvicina molto a Brigit, anche essa divinità della luce e delle arti, di cui forse era la controparte maschile. Lugh è il padre spirituale del grande eroe irlandese Cu Chulainn, e divenne Llew Llaw Gyffes (“leone dalla mano veloce”) in Galles e Lud in Inghilterra, figure mitiche i cui miti passarono in quello arturiano di Lancillotto. Nei tempi cristiani il suo posto fu preso dall’arcangelo Michele, una più tarda forma di Lucifero che come Lugh è portatore di luce.
Le origini della festa di Lughnasadh sono collegate però non tanto a Lugh quanto alla sua madre adottiva Tailtiu, la quale si affaticò per preparare le pianure irlandesi all’agricoltura e così morì, dopo aver chiesto che la pianura diventasse la sua tomba. Lugh ordinò che gli uomini di Irlanda tenessero una festa annuale all’anniversario della sua morte, istituendo i giochi funebri in suo onore. La tradizione di giochi funerari ha paralleli in molte culture, basti ricordare le cerimonie funebri dei guerrieri morti ricordate nell’Iliade. Il vero scopo della festa è il raduno delle popolazioni al momento del raccolto sulle terre coltivate, terre che costituiscono il corpo materiale della Dea della Terra. Gli stessi raccolti sono anche essi parte del corpo della Madre Terra.
In questo periodo dell’estate avanzata, si erano lasciate alle spalle le fatiche e le preoccupazioni del raccolto del fieno e ci si preparava al raccolto di grano e orzo, le messi che il calore del sole ha fatto maturare. Lughnasadh era occasione di raduni e feste per le tribù celtiche, in cui ci si dedicava a giochi, gare e banchetti. Era tempo di mostrare la velocità dei propri cavalli e di competere in gare di abilità e forza: ciò era anche un allenamento alle fatiche del raccolto, in cui la velocità e la resistenza erano doti essenziali in epoche prive di macchine. Spesso bisognava fare i conti col cattivo tempo che poteva rovinare il lavoro di un intero anno! Così i giovani partecipavano a gare di lotta, lancio di aste, tiro con l’arco e corse di cavalli, giochi tenuti in grande conto in società guerriere come quella celtica; molte di queste usanze sono state conservate nei Giochi Gaelici che si tengono ancora in Scozia nel mese di agosto. Ma anche le arti erano sotto il patrocinio di Lugh e si tenevano quindi anche competizioni poetiche di Bardi e di musici.
I raduni erano occasioni per tenere fiere in cui venivano ingaggiati braccianti e venduti animali. La festa durava due settimane e si diceva che finché sarebbe durata questa tradizione, ci sarebbe stato “grano e latte in ogni casa, pace e bel tempo per la festa e il raccolto”.
Era tempo di baldorie propiziate dal calore estivo e si celebrava l’inizio del raccolto e l’offerta dei primi frutti agli dei (la festa era detta “del primo raccolto”), così come pure la potenza della luce solare e l’abbondanza generosa della natura. Il sole aveva trionfato su venti, gelo e nebbie e ora il raccolto era pronto, ma la fertilità è anche un concetto legato alla sessualità umana, così nell’antica Irlanda si celebravano i cosiddetti matrimoni di prova che duravano un anno e un giorno. La località principale dove si celebrava­no questi matrimoni era in Irlanda a Teltown, località che ha preso il nome dalla Dea Tailtiu. Vicino a una fossa dove sgorgava una sorgente era eretto un muro con un foro: uomini e donne stavano sugli opposti lati del muro, senza potersi vedere ma spingendo insieme le mani attraverso il foro le loro mani. Se agli uomini piaceva l’aspetto delle mani delle donne le afferravano e ciò sigillava il patto matrimoniale. Il contratto era rinnovabile, ma se alla scadenza del periodo la convivenza aveva avuto cattivo esito, la coppia non doveva fare altro che ritornare al luogo della cerimonia, mettersi schiena scontro schiena e allontanarsi in direzione opposte. Una separazione consensuale e tranquilla, senza spese per il divorzio!
Questa usanza in realtà è il ricordo di un’antica pratica rituale. La ragione di dare il nome di Lugh alla festa era dovuta alla sua associazione con la Dea Erin alla quale si unì in matrimonio con“nozze di sovranità” (banais rigi in gaelico) in occasione del suo accesso alla sovranità dei Tuatha Dé Danann. Allo stesso modo tutti i re d’Irlanda si univano ritualmente alla Dea della Terra, la sola che concedeva loro la sovranità sul paese. A Lughnasadh troviamo il parallelo dell’accoppiamento rituale di Beltane, dove il Dio dell’anno crescente sposava la Dea della Terra. Allo stesso modo i “matrimoni nei boschi” di maggio hanno un corrispondente nei matrimoni di Teltown e degli amori nei campi di grano a Lughnasad.
Ma occorre tener presente che le nozze rituali di Lugh rappresentano un accoppiamento sacrificale, in armonia del resto col sentimento di morte che aleggia su questa prima festa di autunno. Secondo lo studioso James Frazer, questo era il tempo in cui il re sacro era ritualmente ucciso e il nuovo re sposava la Dea Madre. Così Lugh moriva e rinasceva in accoppiamento con la Dea, unendo in un unico tema di sacrificio la fertilità umana e quella della terra. A noi tutto ciò può sembrare paradossale, come pure il collegamento dei giochi funerari in onore di Tailtiu con le feste nuziali di Lugh. Per comprendere il paradosso delle nozze di Lugh dobbiamo comprendere che le più tarde aggiunte alla leggenda hanno deformato il ruolo della Dea: infatti, pare che in origine i funerali fossero tenuti in onore del Dio che moriva in quanto Dio del Grano e dell’anno crescente. Le nozze erano quindi quelle del Dio dell’anno calante, suo gemello e sostituto. Troviamo questi aspetti nella leggenda gallese di Llew (figura che come si è detto ripete quella di Lugh). Egli visitò il castello di sua madre Arianrhod recandosi là con un coracle, antica e tipica imbarcazione irlandese che simboleggia forse il cesto del raccolto con cui le divinità solari viaggiavano per recarsi dove li attende la Grande Dea. Caer Arianrhod, il castello della Ruota d’Argento era un altro nome della costellazione della Corona Borealis, costellazione circumpolare che non tramonta e quindi ritenuta dimora ultraterrena di divinità e di eroi defunti. Il viaggio di Llew altro non è che il viaggio compiuto in qualità di re dell’anno crescente dopo il proprio sacrificio e in attesa di rinascita. Llew nelle leggende sposò Blodeuwedd, donna creata con i fiori e quindi figura rappresentativa della Giovane Dea della Vegetazione. In seguito Blodeuwedd tradì Llew con Grown il Forte e lo uccise, sacrificandolo e sposando il suo sostituto, il re dell’anno calante.
Anche in Irlanda gli aspetti sacrificali sono adombrati dalle leggende su Crom, dio sacrificale associato a Lughnasadh e chiamato anche Crom Cruach (“il piegato del tumulo”) o Crom Dubh (“il piegato dal nero colore). L’ultima domenica di luglio in Irlanda è la domenica di Crom Dubh, in cui ha luogo un grande pellegrinaggio sul monte Croagh Patrick dove si dice che San Patrizio sconfisse una schiera di demoni. Il sacrificio di Crom era compiuto anticamente sacrificando un suo rappresentante umano presso una pietra fallica circondata da altre dodici pietre, essendo questo il tradizionale numero dei compagni del re-eroe sacrificale. Il Libro di Leinster cita dodici idoli di pietra e la statua d’oro di Crom. Più tardi i sacrifici umani furono rimpiazzati da quelli di un toro. Crom, come pure Balor o Bres, è una forma antica del dio luminoso che produce raccolti, rimpiazzata da Lugh in qualità di nuovo Dio che gli sottrae i frutti del suo potere. Nelle leggende Crom Dubh era sepolto nel terreno fino al collo per tre giorni e poi liberato una volta che i frutti del raccolto erano stati garantiti: un segno del successo del rituale era l’abbondanza di mirtilli, presagio di raccolti abbondanti. Ciò rimase nel folklore col nome di Domenica del Mirtillo dato alla Domenica di Crom Dubh, con i giovani che vanno a raccogliere questo frutto. La sepoltura di Crom e la sua liberazione ci rinviano dunque al tema di sacrificio e di rinascita di Lughnasadh. Lughnasad passò nel folklore britannico con il nome di Lammas, abbreviazione di Loaf-mass (dall’Anglo-Sassone “Hlaf-maess”) o “messa della pagnotta” poiché con il primo grano raccolto si preparava un pane propiziatorio, offerto nelle chiese come parte di riti eucaristici. L’antica divinità divenne John Barleycorn, lo spirito del grano o dell’orzo che muore stritolato nella macina per donare farina agli uomini o annegato nella distillazione per produrre whisky. Non a caso nel mito celtico la dimora funebre di re ed eroi era rappresentata come una costruzione circolare e rotante, il Castello della Ruota d’Argento: non è forse questa una raffigurazione poetica del mulino con la sua macina sacrificale? Ma lo stesso simbolo viene raffigurato dalla ruota che viene accesa e fatta rotolare giù per il pendio di una collina, usanza ancora oggi celebrata in Scozia, Germania e Svizzera. A volte la ruota finisce in un fiume, così come la ruota delle stagioni inizia il suo declino. Questa ruota è nuovamente la ruota solare che abbiamo già visto nelle feste del Solstizio estivo. Lughnasadh ripete in un certo senso alcuni simboli solstiziali, essendo il culmine e l’inizio del declino nel ciclo delle feste celtiche allo stesso modo in cui il Solstizio estivo è culmine e inizio di declino nelle feste astronomico-solari. La festa viene celebrata anche con fuochi rituali accesi in cima alle colline, come in Galles, nell’isola di Man e in Irlanda, dove i falò sono anche occasione di danze di licenziosità. La pianta sacra di Lughnasadh è la spiga di grano o di orzo. Lugh e Llew sono divinità del grano, di morte e di rinascita, perché il grano tagliato rinasce come farina e pane. Durante i raccolti si credeva anticamente che una forza sacra (chiamata dai russi il Vecchio, da altri popoli slavi la Vecchia, e nei paesi germanici la Madonna del Grano) si incarnasse nell’ultimo covone mietuto. Questo spirito del grano era identificato spesso nell’ultimo mietitore che raccoglieva l’ultimo covone. In tempi antichi egli era sacrificato e le sue ceneri sparse nei campi. Poi si passò a sacrificare animali e bruciare fantocci, ma il significato era sempre quello: il sacrificio della divinità primordiale, che moriva come Re del Grano e il cui sangue benediceva la terra, garanzia di futuri e abbondanti raccolti. La festa del sole calante è il punto di svolta in cui l’Uomo Verde di Beltane si prepara a diventare l’Uomo Grigio della morte in autunno, quando inizia il suo viaggio verso l’Altro Mondo. Ora, infatti, è il tempo in cui si arresta la crescita nel mondo vegetale per permettere al raccolto di maturare. Nel folklore europeo, durante i rituali dell’ultimo covone, si estraggono i chicchi del futuro raccolto e si spargono le ceneri delle spighe per fertilizzare la terra. Il tema di morte e rinascita non negava quello della fertilità, espresso dalle orge rituali durante le feste del raccolto che, riattualizzando il mitico caos primordiale, rinnovavano il ciclo dell’anno e la fecondità della terra: fertilità umana e fertilità della Natura. Eros (amore) e Tanathos (morte) costituiscono un binomio inscindibile anche in questo periodo dell’anno

Da: Feste pagane di Roberto Fattore