venerdì 15 aprile 2011

La quercia - simbologia







Nome Comune: Farnia
Antico inglese: ak; antico norvegese: eik; antico alto tedesco: eih; teutonico: aiks; gallico: dervo; gallese: derw; bretone armoricano: derven: gaelico irlandese: duir;
Nome botanico latino: Quercus robur
Famiglia: Fagaceae
Ordine: Fagales

Descrizione: è un albero alto circa fino a 35 metri ma esemplari isolati possono raggiungere anche i 40 metri. La farnia è una pianta molto longeva che raggiunge e supera i 1000 anni. La chioma è irregolarmente ovale, globosa e molto ampia, con macchie dense di foglie che si interrompono, lasciando penetrare la luce. È per questo motivo che nei boschi di farnie cresce sempre un sottobosco, ricco di arbusti. Il tronco è robusto e ramoso con rametti glabri. La corteccia è grigio-verde e liscia da giovane, spessa, solcata, con lunghe fessure longitudinali da vecchia. Il tronco produce un legname pregiato; la quercia viene anche usata come ornamento nei giardini. Sui rametti, sulle foglie o sulle gemme delle querce può capitare di trovare delle galle, cioè escrescenze di aspetto legnoso che hanno forme diverse: a sfera, a cappellino, a stella. Le galle sono reazioni che la pianta ha quando viene punta da certi insetti.

Foglie: le foglie sono semplici, obovate, lobate, di 10 cm circa, a superficie ondulata, strette alla base con due orecchiette; hanno un picciolo brevissimo (0,5 – 1 cm), glabro; l’inserzione è alterna. Sono coriacee e di consistenza pergamenacea, da giovani sono pubescenti, poi la superficie superiore diventa glabra mentre quella inferiore rimane coperta da piccoli peli stellati.





Famosa per la sua resistenza e longevità, la quercia è stata a lungo associata alla forza, alla perseveranza, alla lealtà e alla virtù eroica;  simbolizza la presenza del tempo e della lunga memoria degli alberi.

Le foglie della maggior parte delle specie di quercia sono decidue, eppure restano attaccate ai rami tutto l’inverno, fiere e indomite, quasi a celebrare la continuità della vita, mentre la quercia si ritira nel suo mondo interiore così come facciamo noi in quel periodo, mettendo in evidenza la sua forma allargata verso il basso e facendoci così intuire la vastità delle radici che la nutrono e la sostengono.
Raggiungendo il Cielo con i suoi rami e gli Inferi con le sue radici, la quercia unisce le forze della vita e della morte.
Lunazione della quercia o lunazione dell’aquila (presso i Celti), così viene chiamato il periodo in cui si ritira in se stessa, dai primi di novembre ai primi di dicembre, tra  Samhain e Yule.




Pochi boschi sono ricchi di vita come un querceto ad alto fusto. L’aperta cupola delle querce consente che molta luce raggiunga il suolo della foresta: le sue foglie marciscono in fretta dopo la caduta concimando il terreno e consentendo la crescita di altri alberi o arbusti, specie frassini, noccioli, cornioli, e una grande varietà di piante erbacee. La quercia non è mai sola, il suo tronco ricco di pieghe e le sue radici a forma di archi offrono generosamente rifugio agli animaletti suoi amici anche nei mesi invernali, mentre le ghiande offrono ad essi cibo. Ospita anche insetti, fra cui le cicale, che i Greci chiamavano dryokóitai, “quelle che dormono nelle querce”.
Il suo legno è molto pregiato e viene usato nelle costruzioni e per la concia, è ottimo da ardere perché essendo compatto brucia molto lentamente, mantenendo la fiamma; viene usato tradizionalmente a Yule, per celebrare la rinascita del Sole sulla Terra, quando si fa ardere un grosso ceppo di quercia.




Nelle lingue celtiche il termine che designava la quercia significava porta e  probabilmente anche il verbo milanese dervir, aprire, ha origini celtiche e deriva dal gallico dervo, così come i nomi dei paesi di Dervio in provincia di Como e  Dergano, Derganino, in provincia di Milano.
La quercia è dunque una Porta per la Conoscenza, un passaggio tra i mondi; con travi di quercia si costruivano le soglie e i montanti delle porte, e si credeva che in questo modo il suo spirito continuasse a svolgere il ruolo di Guardiano della Porta, inoltre nel calendario celtico degli alberi il mese della quercia era quello in cui cadeva il solstizio d'estate, la Porta, appunto, per la seconda metà dell'anno e per le fate, in cui cade il giorno di San Giovanni.
Dal gallico dervo, “quercia”, sono attestati in epoca romana alcuni derivati utilizzati come nomi propri: fatis dervonibus, “fate delle querce”, a cui è dedicata un’iscrizione di Brescia e Matronis Dervonnis in un’iscrizione di Milano, apparentemente riferita alle medesime fate. Esistevano anche i nomi propri di donna Dervonia e Derva.
La farnia o quercus robur potrebbe raggiungere i duemila anni di vita, con un diametro di 10 metri, se non la si abbattesse per sfruttarne il legno durissimo usato, un tempo, per la costruzione delle navi. Per questo motivo i Romani chiamavano robur sia la quercia sia il vigore fisico e quello morale: da cui l’aggettivo robustus.
Nella creazione di Blodeuwedd “Viso di fiori” nei Mabinogion ad opera dei due dei-druidi Math e Gwydion, venne usato il fiore di quercia per dar vigore a Lleu nel fare l'amore e per dar loro molti bambini.
Vedo la quercia come l'albero "che genera", l’albero dell'unione del principio femminile con quello maschile.
Del resto la stessa pianta porta sia i fiori maschili che quelli femminili. I fiori maschili sono riuniti in amenti di colore giallo, quelli femminili sono di colore verde.






La quercia attira moltissimo i fulmini, se penso al significato dei fulmini presso gli etruschi comprendo che ben si adatta alle caratteristiche di questo albero. Nella mitologia etrusca, il fulmine (scagliato da un dio o da una dea) è l'elemento che feconda la Madre Terra. Il potere del fulmine, luce e calore, insemina la terra durante i temporali, genera i minerali, "pietre di luce",  i "geni" della Terra, come Tages e la stirpe dei Titani, detti anche Giganti. Il dono portato da Tages, il divino figlio della Terra agli etruschi era di grande valore: la conoscenza.
La quercia era sacra a Zeus e ad altri dei del fulmine in diverse religioni dell'antichità, era considerata l'albero del fuoco celeste e sacra al Dio Padre, ma probabilmente in origine era sacra a divinità femminili. Il più antico oracolo greco, la quercia sacra, appunto, a Zeus, si trovava a Dodona, nell’Epiro, ed era interpretato solo da donne. “In quella quercia” riferiva Pausania “c’era un oracolo le cui profetesse erano donne. Chi veniva a consultarlo si avvicinava alla quercia e l’albero si agitava un poco, poi le donne prendevano la parola dicendo: “Zeus annuncia la tal cosa o la tal’altra”. Nell’Odissea Omero narra che Ulisse si recò al santuario “per udire dalla quercia divina di alte fronde il volere di Zeus”.
Secondo il mito più popolare, riferito da Erodoto, due colombe nere partirono da Tebe, in Egitto: l’una giunse in Libia, fondando l’oracolo di Ammone, l’altra a Dodona dove si posò su una quercia affermando con voce umana che in quel luogo doveva esserci un oracolo. Così avevano annunciato allo storico greco le sacerdotesse di Dodona, dette peléiades, colombe, in ricordo della prima colomba. Erano tre: la maggiore si chiamava Promenia, “l’anima di prima”, la seconda Timarete, “la virtù onorata”, la più giovane Nicandra, “vittoriosa sugli uomini”.
In origine le peléiades non erano sacerdotesse di Zeus ma di Dione, la dea sposata da Zeus a Dodona: una divinità arcaica, preellenica, sulla cui identità esistono diverse versioni. Vi è chi l’assimila a Rea, sposa di Crono e madre di Zeus, alla quale era consacrata la quercia. La si chiamava anche Dia, ovvero “del cielo”, come la sposa di Issione sedotta da Zeus: sicché non sarebbe del tutto infondato congetturare che la prima divinità di Dodona fosse una misteriosa dea della quercia poi chiamata Dione. Dione era la dea della sessualità ed è l'unione sessuale, la fecondità, che caratterizza anche il mito della creazione di Blodeuwedd dal fiore della quercia.
A me la quercia dà l'idea che abbia in sé sia la saggezza femminile che quella maschile, è un albero maestoso che può vivere molto a lungo, che incute rispetto; stare vicino a una quercia presso i popoli antichi doveva essere come trovarsi al cospetto di uno sciamano o una sciamana di un villaggio per ricevere consigli, anche nella fiaba di Cappuccetto Rosso la casa della nonna (la vecchia saggia) si trova vicino a tre querce, tre come il numero sacro alla Dea.
La nave degli Argonauti venne costruita grazie al contributo di Atena, che aveva personalmente preparato la prua della nave con una quercia sacra.
La quercia è un albero a crescita lenta, ma inarrestabile.
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Ci parla quindi dell'importanza di non avere fretta e del valore delle piccole cose, perché anche un albero così possente nasce da una piccola ghianda che è simbolo di vita e di potenzialità.



Lo psicologo junghiano James Hillman ha chiamato "la teoria della ghianda" l'idea che le nostre vite siano formate da un'immagine particolare, come il destino della quercia che è contenuto nella piccola ghianda.
Nel suo bestseller Il codice dell’anima afferma che il nostro carattere e la nostra vocazione di vita sono qualità innate e che è la missione della nostra vita realizzare quelle spinte.




La ghianda era ritenuta il primo alimento degli uomini, con essa si faceva anche una specie di pane documentato ancora alla fine degli anni Sessanta: veniva preparato mescolando farina di ghiande con un tipo di argilla, secondo una tecnica già usata a Roma per la preparazione dell’alica, un pane di grano duro.
Dalla ghianda si ricavava (dopo prolungata bollitura) una farina poi utilizzata in panificazione o (dopo tostatura) una bevanda succedanea del caffè, ma anche decotti astringenti ed antidiarroici. Gli indiani d'America ne ricavavano una vasta serie di ingredienti secondari, dalla farina (con cui preparavano una specie di porridge), all'olio, alle bevande.
Le ghiande essiccate o la farina estratta hanno un alto valore energetico (circa 450 kcal per 100g), contengono proteine (6-8%), grassi (prevalentemente insaturi, 25-35%) e carboidrati (50-60%), sono ricche di calcio, fosforo e potassio, oltre che di niacina (vitamina PP): quest'ultimo fatto ne nobilitava l'aggiunta alle farine di altri cereali (generalmente povere di questa vitamina).
Il caffè a base di ghiande tostate fa la sua comparsa nel diciottesimo secolo, come eredità dei primitivi decotti, quando si diffonde il consumo del vero caffè, considerato troppo costoso per le classi meno abbienti.




Si diceva che le ghiande avessero proprietà fecondatrici e afrodisiache: d’altronde balanos in greco e glans-glandis in latino indicano sia questo frutto sia il glande del pene.
Le galle delle querce, che sono escrescenze provocate da punture di insetti, erano utilizzate nella concia delle pelli, nella tintura, nella produzione dell’inchiostro e anche in medicina per le loro proprietà astringenti.
Le querce avevano un privilegio rispetto agli altri alberi: ospitavano non una ma due specie di ninfe, le anime degli alberi: le driadi e le amadriadi. Le prime – da dryás, quercia sacra – avevano la possibilità di abbandonare l’albero: per questo motivo era proibito abbattere una quercia prima che i sacerdoti le avessero ritualmente abbandonate.
Le seconde – da háma, insieme, poiché erano congiunte indissolubilmente all’albero – morivano invece con la quercia. Ma poiché l’albero era ritenuto millenario, le si considerava quasi immortali. Appena una quercia era in pericolo, le amadriadi prorompevano in lamenti minacciosi.










Il dio celeste, reggitore del cosmo, in Italia era chiamato Giove. Tito Livio narra che dopo una vittoria contro i Sabini Romolo salì sul Campidoglio portando le armi del capo nemico ucciso, le depose ai piedi di una quercia venerata dai pastori e tracciò l’area del primo tempio di Roma dedicato a Giove, divinità “della quercia, della pioggia e del fulmine”. Ai suoi rami appendeva i trofei conquistati al nemico.
L’albero era anche l’emblema della sovranità. Una coroncina di foglie di quercia figurava sulle insegne degli antichi re di Alba Longa e dei loro successori, i re di Roma, a indicare che essi erano i rappresentanti umani del dio della quercia. Per questo motivo Ovidio nelle Metamorfosi, dopo aver tramutato la ninfa Dafne in un lauro, le predice: “Sarai fedele custode davanti alle porte imperiali/ e la quercia mirerai che è nel mezzo”.
Prima dell’era imperiale i generali vincitori che celebravano il trionfo e i magistrati che presiedevano ai giochi circensi indossavano la veste di Giove, presa a prestito del dio sul Campidoglio: il volto era tinto di vermiglio e uno schiavo reggeva sul loro capo una pesante corona di auree foglie di quercia.
Di autentiche foglie di quercia erano intrecciate le corone civiche, emblemi del valore di un cittadino. Chi la riceveva poteva portarla per sempre; se si recava agli spettacoli, al suo apparire il pubblico si levava in piedi. Aveva inoltre il privilegio di sedersi nei posti vicini a quelli dei senatori, godendo con il padre e il nonno paterno dell’esenzione di qualunque onere fiscale.
Un altro colle, il Celio, era chiamato anticamente Mons Querquetulanus per le querce che lo ricoprivano: vi si adorava Giove quale dio della quercia. Il tempio di Vesta, infine, era circondato da un boschetto di querce e il fuoco perpetuo doveva essere alimentato solo con la legna di questo albero.
Alla quercia era collegato anche il rito sanguinoso descritto da James Frazer nel Ramo d’oro, che si svolgeva intorno a una quercia del bosco nella valletta di Nemi dove si aggirava un uomo con la spada sguainata: sacerdote del bosco sacro a Diana, temeva di essere assalito da qualcuno che, uccidendolo, voleva succedergli nel sacerdozio. Ma il rivale, per riuscire nell’intento, doveva staccare il ramo d’oro che cresceva su quella quercia, il vischio, che altro non era se non la materializzazione del fuoco celeste, giunto dal cielo mediante un fulmine per consacrare quell’albero a Giove. Strappare il ramo d’oro dalla quercia significava toglierle il radicamento celeste e rendere dunque inerme colui che ne era il re-sacerdote.
Presso i popoli germanici questi alberi maestosi erano dedicati a Thor, un dio della stirpe degli Asi che in epoca precristiana contendeva la supremazia a Odino. Era il dio del tuono e della folgore, analogo ad altri della tradizione indoeuropea: Indra, Taranis, Giove, Dagda. Possedeva un’arma, il martello Mjöllnir, che aveva funzione antidemoniaca. Era protettore dell’ordine stabilito e promotore della fertilità.
I sacerdoti dei Germani e dei Celti rendevano giustizia sotto una quercia e la consideravano, come testimonia Massimo di Tiro - vissuto nel II secolo dopo Cristo – “la rappresentazione visibile della divinità”.
Sotto le fronde della quercia, gli antichi re prendevano decisioni importanti e amministravano la giustizia; l'istruzione, l'iniziazione e tutti i riti più importanti dei druidi dovevano avvenire in foreste di querce dette Drunemeton.
Ancora nel Medioevo san Luigi IX, re di Francia, usava amministrare la giustizia sotto questa pianta, trasformata evidentemente nel simbolo del Dio cristiano.
Nella prima fase della cristianità le querce suscitarono avversione perché venivano collegate al culto pagano degli alberi. È noto che gli evangelizzatori cristiani dell’Europa centrale, da san Martino a san Bonifacio, sradicavano o tagliavano alberi e boschetti sacri. Centinaia di querce furono abbattute, dalla Lituania alle Gallie. Nel secolo VIII san Bonifacio sradicò quella sacra al dio supremo Thor nei pressi di Gheisemer, per dimostrare ai pagani l’impotenza dei loro dei, e con il suo legname costruì una cappella in onore di san Pietro. Ma il culto per l’albero persistette: quando nel 1128 il vescovo Ottone di Bamberg soggiornò a Stettino, scoprì meravigliato che esistevano ancora querce sacre e ordinò di abbatterle. Ma di fronte all’inaspettata e rabbiosa reazione dei contadini, che minacciavano una sanguinosa rivolta, dovette accettare un compromesso: non le avrebbe abbattute a patto che nessuno venerasse più gli dei tradizionali, e per evitare qualunque tentazione diffuse la voce che quegli alberi erano abitati da spiriti malvagi.
L’Irminsul (in antico sassone grande pilastro) è il pilastro che connette il cielo e la terra, il mondo materiale a quello spirituale. Il suo nome derivava da un antico dio germanico, Irmin. L'Irminsul era spesso rappresentato come una quercia o un grande palo di legno forse coronato da una immagine sacra, ed era la principale divinità dei Sassoni, similmente all'Yggdrasill dei vichinghi.
Ai tempi di Carlo Magno c'erano probabilmente molti Irminsul, ma nella sua conquista dopo l'800 il rappresentante della cristianità trionfante li distrusse tutti (anche il più importante, a Externsteine), anche se presumibilmente il loro culto, bollato come pagano e demoniaco, continuò a lungo.
Nella cattedrale di Hildesheim un Irminsul, probabilmente risalente ai tempi degli antichi Romani (quando Irmin era equiparato al dio Mercurio), è stato inglobato come candelabro.
Nel sito di Externsteine si può osservare un’incisione del XII secolo, in cui un albero veniva piegato dal peso della Croce da cui veniva deposto il Cristo, incisione da molti interpretata come rappresentazione della vittoria del cristianesimo sul paganesimo.


Nel calendario arboreo Ogham la quercia è chiamata duir, contraddistingue il periodo che va dal 10 giugno al 7 luglio, il dio che lo governa è il Dagda, l’animale druidico lo scricciolo, gli aggettivi  chiave di chi è nato sotto questo segno: entusiasta, ottimista, determinato, regale.




In questo periodo, come abbiamo visto, cadeva il Solstizio d'Estate e il giorno di San Giovanni, in cui si apre la Porta tra il nostro mondo e quello delle fate, inoltre veniva sacrificato il Re Quercia, proprio come avviene al dio gallese Lleu, corrispondente dell’irlandese Lugh. Nel cristianesimo anche San Giovanni Battista è stato decapitato proprio attorno al Solstizio d'Estate.
Non sappiamo con certezza se i druidi delle isole britanniche e dell’Irlanda praticassero i loro riti religiosi nei boschi di querce come facevano i loro cugini in Gallia, ma sembra probabile. Luoghi come Derry e Kildare derivano dall’antico nome con cui si designava la quercia; l’Irlanda una volta era completamente ricoperta da alberi di quercia, la cui presenza riecheggia attraverso i secoli in nomi come Derrykeighan, Derrylanan e Derrybaun.
A Kildare le diciannove monache devote a Santa Brigida, la dea Brigid cristianizzata, mantenevano perennemente acceso il sacro fuoco a lei dedicato, probabilmente alimentato con legno di quercia.
L’arpa del dio Dagda che suonava da sola era fatta di legno di quercia e aveva il potere di cambiare l’ordine delle stagioni. Inoltre suonava tre tipi di musica: la musica che arrecava dolore, la musica che arrecava gioia e la musica che faceva sognare.
La quercia è associata allo scricciolo perché tra tutti gli uccelli venerati dai Celti era considerato il più sacro. In Irlanda era chiamato drui-en, che significa “uccello druido”, in gallese la parola dryw significa sia druido che scricciolo. The Irish Book of Ballymote (1391) descrive così la connessione tra la quercia e lo scricciolo: “La quercia dei druidi è il re degli alberi, e lo scricciolo, uccello dei druidi e re degli uccelli, è l’anima della quercia”.
Le leggende celtiche ci parlano di una mitica scrofa che possiede la saggezza e la conoscenza perché si nutre dei frutti che cadono dall'Albero di Mugna, una grande quercia che produce magicamente mele, nocciole e ghiande nello stesso tempo. La scrofa è associata a Ceredwen, ed è l'iniziatrice dei poeti e dei veggenti, colei che dona insegnamenti sciamanici, la nutrice dei sapienti grazie alla saggezza della terra. La scrofa Ceredwen, smembrando il corpo di Lleu per farlo rinascere a nuova vita ha agito come sua ultima iniziatrice e la quercia lo ha accolto nella sua nuova dimensione; dimorando su un suo ramo sotto forma di aquila, Lleu ha appreso altri insegnamenti, inoltre rinasce al  Solstizio d’Inverno, poiché è un Re Quercia.
La quercia è il re o la regina della foresta come l’aquila è il re o la regina degli uccelli. Entrambe sono associate oltre che agli dei che abbiamo visto, a Lugh-Lleu.
Prima di trasformarsi in aquila, si potrebbe dire che l’animale totemico di Lleu sia stato lo scricciolo, che gli dà modo di avere il nome da Arianrhod quando lo colpisce ad una zampina con la  fionda. Lo scricciolo, che era considerato un dio o un re, è protagonista fino ai nostri giorni di riti vari nel periodo del Solstizio d’Inverno e la sua uccisione simbolizzava un passaggio di poteri da un re ad un altro. Il suo azzoppamento ricorda l’uccisione rituale di Lleu quando viene colpito all’inguine da una lancia del suo rivale.
È stata tramandata la leggenda celtica dello scricciolo e dell’aquila in cui lo scricciolo con la sua astuzia è riuscito a volare più in alto di essa.
Lo sciamano era spesso conosciuto come “l’astuto”, e il druido, sciamano a sua volta, è anche “astuto” -  un uomo che può farsi invisibile come lo scricciolo, che può viaggiare sul dorso di una nobile aquila per raggiungere la sua destinazione, preservando contemporaneamente le sue energie.
Io leggo la trasformazione di Lleu da scricciolo ad aquila come il passaggio da una condizione umana, da druido-sciamano, a una condizione divina, il dio solare

Da: Florario di Alfredo Cattabiani
Celtic Astrology: How the Mystical Power of the Druid Tree Signs Can Transform Your Life di Phyllis Vega
www.icnovellara.it/alberi/quercia.htm
http://www.ilcalderonemagico.it/lune_quercia.html
http://ulisse.sissa.it/chiediAUlisse/domanda/2006/Ucau060617d003/

martedì 12 aprile 2011

Etimologia della parola druido


Le forme moderne, druide in francese, druid in inglese, derwydd in gallese e drouiz in bretone-armoricano, sono tutte dotte ricostruzioni che non risalgono affatto ad un periodo più lontano della fine del XVIII secolo. La parola popolare, che risulta dalla logica evoluzione della lingua, è draoi in gaelico moderno, che significa “stregone”, e dryw, “reuccio”, in gallese contemporaneo, essendo andato perso tale termine nel vocabolario bretone-armoricano. Queste dotte ricostruzioni sono state compiutamente sul termine più anticamente accertato, quello impiegato da Cesare, e che è latinizzato in druis (genitivo druidis), al quale corrisponde strettamente l’antico gaelico drui.
Queste osservazioni sono di grande importanza, giacché rappresentano la prova che il druidismo, e conseguentemente i druidi, sono scomparsi nella memoria popolare in quanto istituzione religiosa, e ciò dopo molti secoli. Solo l’Irlanda e il Galles ne hanno conservato un vago ricordo che testimonia d’altronde di una formale svalutazione. È altamente significativo che l’evoluzione semantica dell’antico irlandese drui abbia condotto al significato di “stregone”: ciò è da mettersi in rapporto con la disaffezione che si è prodotta in Irlanda, durante la cristianizzazione, a proposito dei druidi, degradati al rango di maghi di second’ordine, a vantaggio dei fili (indovini) che hanno trovato – o conservano – la loro collocazione in seno alla società celtico-cristiana. È dunque impossibile scoprire, come vogliono certi esegeti pur animati da buone intenzioni, una qualsivoglia menzione dei druidi in un racconto o in una canzone della tradizione popolare, soprattutto nella Bretagna armoricana. Un tale tentativo dipende dal più puro delirio celtomaniacale.
Ciò detto, nessuno vieta di porsi delle domande al riguardo del significato della parola “druido”. Da molti secoli, si è adottata, senza riflettere, l’etimologia che ne fornisce Plinio il Vecchio (Historia Naturalis, XVI, 249) in un passaggio celebre in cui egli parla della venerazione dei druidi per il vischio e per l’albero che lo porta, vale a dire la quercia. E Plinio aggiunge: “Essi non compiranno alcun rito senza la presenza di un ramo di questo albero al punto che sembra possibile che i druidi derivino il loro nome dal greco”. Se ne è concluso che la parola druido provenisse dal greco drus, “quercia”, e questa spiegazione, che è dura a morire, si ritrova ancora in certe opere per altro serie del nostro secolo.
Si tratta di una simbologia analogica, costruita sopra una semplice somiglianza e rafforzata dal ruolo effettivo della quercia nella religione druidica. Gli autori greci e latini hanno fatto grande uso di questo genere di etimologia, e ugualmente gli autori del Medio Evo. Quanto poi alle innumerevoli etimologie popolari, esse sono tutte dello stesso ordine, e talvolta queste ultime istituiscono una sottile relazione che la linguistica pura tende ad eliminare. La cabala fonetica è una realtà, e bisogna sempre diffidare di ciò che si nasconde dietro un ragionamento in apparenza aberrante. Ma in questo caso, la relazione tra la parola druido e il greco drus è inesistente. D’altronde, perché il nome dei druidi galli dovrebbe derivare da una parola greca? A rigor di logica, dovrebbe invece essere di origine celtica. Orbene, “quercia” in gallico si dice dervo (si tratta di una delle rare parole galliche di cui siamo certi), daur in gaelico, derw in gallese, derv (collettivo, dervenn al singolare, deru nel dialetto del Vannes) in bretone armoricano. È davvero difficile agganciare a queste parole il termine “druido” nelle sue diverse forme.
Per di più, il testo di Plinio è assai confuso. Il naturalista non dice espressamente che l’origine è la parola greca drus: i druidi traggono il loro nome dal greco, ed è tutto. Sono i commentatori successivi che hanno in effetti deciso questa etimologia, e vedremo che, in fondo, e contrariamente a quanto si pensa, Plinio il Vecchio non era molto lontano dalla verità.
In effetti, se ci si riferisce alla forma proposta da Cesare, druides, che suppone un singolare druis al nominativo, ed anche alla forma irlandese druid, la parola non può che risalire ad un antico celtico druwides che può scomporsi facilmente in dru, prefisso accrescitivo di significato superlativo (che si ritrova nell’aggettivo francese dru, folto, fitto, forte), e in wid, termine apparentato alla radice indo-europea del latino videre, “vedere”, e del greco idein, ugualmente “vedere” e “sapere”. Il significato è dunque perfettamente chiaro: i druidi sono i molto veggenti o i molto sapienti, ciò che sembra conforme alle diverse funzioni che sono loro attribuite.
Orbene, i celebri scolii (glosse, chiose, annotazioni) che si trovano nel manoscritto de La Farsaglia di Lucano, scolii assai preziosi perché ci forniscono utili informazioni sui Galli e sui loro costumi, al riguardo danno un’indicazione che corrobora la tesi di Plinio: i druidi “sono chiamati secondo gli alberi perché abitano delle foreste remote”. Si potrà notare che il passo de La Farsaglia su cui si esercita il talento dello scoliaste è quello che concerne una grande foresta, vicina a Marsiglia, dove i druidi officiavano all’aria aperta in santuari che sono i nemeton, vale a dire delle radure sacre. Si noterà anche che non si tratta di quercia, ma di alberi in generale. Ed è quanto in realtà dice Plinio il Vecchio.
Ciò conduce ad una curiosa constatazione: nelle lingue celtiche esiste un innegabile legame tra la parola che significa scienza e quella che significa albero, in gallico vidu (la cui radice darà koed in gallese e nel bretone del Vannes, koad negli altri dialetti brettoni). Si tratta di una semplice omonimia? O si tratta ancora una volta di cabala fonetica? Gli studiosi della lingua e della storia celtica parlano unicamente di omonimia. Ma come spiegare allora, in altre tradizioni indo-europee, questa stessa ambiguità, in particolare a proposito dell’Odino germanico? Odino-Wotan (in sassone Woden) risale ad un antico Whotanaz attestato da Tacito, e i germanisti vi vedono la radice wut che significa “passione sacra”, e dunque “scienza totale”, che rientra alla perfezione nel carattere attribuito all’Odino delle saghe nordiche, egli che è divenuto volontariamente guercio per essere magicamente veggente, e che è il signore delle “rune”, vale a dire delle iscrizioni magiche, incise come per caso su dei pezzi di legno, allo stesso modo in cui i druidi autori di satire irlandesi incidevano gli incantesimi sui rami, soprattutto di nocciolo e di tasso. Giacché la radice Wut presenta una parentela davvero straordinaria con il nome germanico del legno riconoscibile nell’inglese wood. D’altronde, uno dei poemi dell’Edda scandinava ci descrive Odino appeso ad un albero (rituale sciamanico che si ritrova nell’Irlanda pagana) e che si libera con la forza delle rune che egli suscita. Wotan-Odino è il dio del Sapere, il dio-mago per eccellenza, che ci fa pensare a Gwyddyon, figlio della dèa Don, eroe della quarta parte del Mabinogi gallese. Orbene, il nome di Gwyddyon, se pure è da riferirsi ad una radice gwid che significa “scienza” (bretone-armoricano gwiziek, “sapiente”),  può altrettanto bene derivare dalla radice del vidu gallese, nel significato di albero (e divenuto coit in medio gallese prima di assumere la forma coed). Se Odino-Wotan e Gwyddyon sono legati ad un tempo all’idea di scienza e all’albero, proprio essi che sono degli autentici dèi-druidi, non è inverosimile ritenere che il nome dei druidi possieda questa stessa ambivalenza. Le relazioni tra la scienza, soprattutto la scienza religiosa o magica, e gli alberi non hanno niente che possano stupirci. Il mito fondamentale dell’Albero della Conoscenza impregna le tradizioni di tutti i popoli. E se i druidi sono i molto sapienti, essi sono anche gli “uomini dell’Albero”, coloro che officiano e insegnano nelle radure sacre, al centro delle foreste

Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti di Jean Markale

domenica 10 aprile 2011

Passato di ortiche


Ingredienti per 4 persone:

300 gr. di punte di ortica (possibilmente giovani)
2 patate
parmigiano grattugiato
olio d'oliva
sale
pepe

Lavate, pelate e tagliate le patate a pezzetti.
Lavate le ortiche facendo attenzione a non toccarle direttamente con le mani (usate dei guanti).
Lessate patate e ortiche per 30 minuti in acqua salata, facendo attenzione a mettere prima le patate, che necessitano di più tempo di cottura, e dopo 15 minuti le ortiche.
Scolate e mantenete l'acqua di cottura.
Mettete le verdure in una pentola con 2 mestoli di acqua di cottura, un paio di cucchiai di parmigiano, 1 cucchiaio d'olio, mescolate e frullate con un mixer ad immersione.
Aggiungete 2 mestoli di acqua di cottura calda.
Regolate di sale e pepe e lasciare cuocere fino a far asciugare un pò l'acqua, mescolando.
Servire caldo con dei crostini e parmigiano

Da: http://www.donnaecasa.it/dc/passato/passato-di-ortiche

Frittata di ortiche


Ingredienti:

6 uova
350 grammi di ortiche
parmigiano grattugiato
sale
4 cucchiai di olio extravergine di oliva
pepe

Lavate le ortiche e mettetele in una pentola media sul fuoco con mezzo litro di acqua.
Portate ad ebollizione e appena le ortiche sono cotte, se sono tenere impiegheranno pochi minuti, colatele, strizzatele e sminuzzatele grossolanamente. Adesso prendete una ciotola e versateci dentro le sei uova. Sbattetele fino a che diventino spumose e aggiungete il sale, una spolverata di pepe e una manciata di parmigiano grattugiato. A questo punto unite le uova alle ortiche e mescolate un po' affinché le ortiche possano amalgamarsi per bene con le uova.
Ora mettete sul fuoco una padella antiaderente e versateci dentro l'olio extravergine di oliva, fate riscaldare e versate nella padella le uova con le ortiche. Lasciate cuocere la frittata per 6 minuti da un lato, poi prendete un piatto, poggiatelo sulla frittata e voltatela. Lasciatela cuocere per altri 6 minuti anche da quest'altro lato. Trascorsi i sei minuti, levatela dalla padella e poggiatela su un foglio di carta assorbente, poi passatela su un piatto di portata e servitela.

Da:
http://www.pianetadonna.it/cucina/guide/come-preparare-la-frittata-di-ortiche

Minestra di riso all’ortica (come la faccio io)


Ingredienti per 4 persone:

200 gr. di punte di ortica (possibilmente giovani)
1 patata
100 gr. di riso
parmigiano grattugiato
olio d'oliva
sale
pepe
1 cucchiaino di estratto di brodo vegetale

Lavate le ortiche facendo attenzione a non toccarle direttamente con le mani (usate dei guanti).
Tritatele e lessatele insieme alla patata per 15/20 minuti in abbondante acqua salata.
Quando la patata è lessa schiacciatela con una forchetta in un piatto e ributtatela nell’acqua, aggiungete il riso e un cucchiaino di estratto di brodo vegetale.
Quando il riso è cotto (i tempi di cottura variano a seconda dei tipi di riso), la minestra è pronta.
Servitela con un filo d’olio a crudo e una spolverata di formaggio grattugiato

mercoledì 6 aprile 2011

L'ortica nelle fiabe - I cigni selvatici di Hans Christian Andersen (seconda parte)


Erano già lontani dalla riva quando Elisa si svegliò; credette di sognare ancora, tanto era strano venire trasportata sul mare, così in alto nel cielo. Al suo fianco si trovavano un ramoscello di belle bacche mature e un mazzetto di radici saporite; li aveva raccolti il più giovane dei fratelli, e lei gli sorrise riconoscente, poiché era proprio lui, l'aveva riconosciuto, che le volava sul capo per farle ombra con le ali.
Erano così in alto che la prima nave che videro sotto di loro sembrò un gabbiano bianco che galleggiasse sull'acqua.
Alle loro spalle sopraggiunse una nube grande quanto una montagna, dove Elisa vide proiettarsi la sua ombra e quella degli undici cigni; erano ombre gigantesche, in una visione meravigliosa, come non ne aveva viste mai, ma il sole continuava a salire nel cielo e la nuvola rimase indietro: l'immagine delle ombre piano piano svanì.
Volarono per tutto il giorno come frecce nell'aria, sebbene fossero meno veloci del solito perché dovevano portare la sorella. Il tempo peggiorava e la sera si avvicinava; preoccupata, Elisa guardava il sole che calava: ancora non si riusciva a scorgere lo scoglio. Le sembrò che i cigni battessero con più rapidità le ali. Oh, era colpa sua se non arrivavano in tempo. Una volta tramontato il sole, sarebbero diventati uomini, sarebbero precipitati nel mare e affogati. Allora rivolse dal profondo del suo cuore una preghiera al Signore, ma ancora lo scoglio non si vedeva. Le nuvole nere si avvicinavano, violente raffiche di vento annunciavano una tempesta, le nuvole ormai formavano insieme un'onda nera e minacciosa che avanzava inesorabilmente; i lampi rischiaravano il cielo senza posa.
Il sole era ormai all'orizzonte. Il cuore di Elisa fremeva; all'improvviso i cigni si abbassarono così rapidamente che lei credette di cadere, poi si rialzarono nuovamente. Il sole era già scomparso per metà, solo in quel momento lei scorse sotto di sé quel piccolo scoglio: non sembrava più grande di una foca che sporge la testa fuori dell'acqua. Il sole calava rapidamente, ora era grande solo come una stella. Il suo piede toccò la dura roccia, proprio mentre il sole soffocava l'ultima scintilla della sua carta incendiata. Elisa vide intorno a sé i fratelli che si tenevano per mano, non c'era altro spazio oltre a quello occupato da lei e da loro.
Il mare si frangeva contro lo scoglio e li spruzzava come se stesse piovendo; il cielo sembrava infuocato e i tuoni rimbombavano in continuità. Ma i fratelli si tenevano stretti e intonarono un salmo, con cui ritrovarono il coraggio.
All'alba l'aria era di nuovo calma e limpida, e non appena comparve il sole, i cigni e Elisa ripresero il volo. Il mare era ancora grosso, e guardando dall'alto, la spuma bianca sul mare verde scuro sembrava costituita da milioni di cigni che nuotavano nell'acqua.
Quando il sole fu più alto Elisa vide davanti a sé una montagna quasi sospesa nell'aria; tra le rocce luccicavano i ghiacciai e nel mezzo si innalzava un castello lungo miglia e miglia, cinto da arditi colonnati sovrapposti; boschi di palme e fiori meravigliosi, grandi come ruote di mulini, circondavano ondeggiando il castello.
Elisa chiese se quello era il paese dove dovevano arrivare, ma i cigni scossero il capo: quello che si vedeva era il bellissimo ma sempre mutevole castello di nuvole della Fata Morgana, e nessun uomo vi poteva entrare. Elisa lo osservò con attenzione; le montagne, i boschi e il castello stesso crollarono in un attimo e apparvero venti chiese superbe, tutte uguali tra loro, con alti campanili e finestre appuntite. Le sembrò di sentire la musica di un organo, ma in realtà sentiva il mare. Ora era molto vicina alle chiese e queste si trasformarono in una flotta di navi che navigavano sotto di lei. Guardò più attentamente e vide solo la nebbia del mare sospinta dal vento. Era dunque vero! stava assistendo a una continua trasformazione; ma infine avvistò la vera terra che dovevano raggiungere. Si innalzavano splendide montagne azzurre, con boschi di cedro, città e castelli. Molto tempo prima che il sole tramontasse, Elisa si trovò seduta su una roccia davanti a una grande grotta nascosta da verdi piante rampicanti sottili come tende ricamate.
“Chissà cosa sognerai questa notte!” esclamò il più giovane dei fratelli mostrando a Elisa la sua camera da letto.
“Vorrei poter sognare come fare a salvarvi!” rispose la fanciulla, e quel pensiero la occupò completamente; nel suo intimo pregò Dio di aiutarla, anche nel sonno continuò a pregare, poi le sembrò di volare fino al castello di nuvole della Fata Morgana e vide la fata venirle incontro, bella e scintillante, e tuttavia assomigliava proprio alla vecchietta che le aveva dato le bacche nel bosco e le aveva raccontato dei cigni con la corona d'oro.
“I tuoi fratelli possono essere salvati!” esclamò la fata “ma tu sarai abbastanza coraggiosa e perseverante? È vero che il mare è più lieve delle tue belle mani e pure smussa le pietre più dure, ma non sente il dolore che le tue dita dovranno patire, non ha cuore, non soffre la paura e il supplizio che tu dovrai sopportare. Vedi questa ortica che ho in mano? di queste ne crescono tante vicino alla grotta dove dormi. Ma ricordati, solo queste piante e quella che cresce tra le tombe del cimitero possono essere usate, tu dovrai raccoglierle, anche se ti bruceranno la pelle e te la copriranno di bolle, poi dovrai pestarle con i piedi per ottenerne la fibra: con questa dovrai tessere undici tuniche e gettarle sugli undici cigni selvatici; solo così l'incantesimo verrà rotto. Ma ricorda, dal momento in cui comincerai questo lavoro fino a quando non sarà finito, e possono passare anni, non dovrai più parlare; la prima parola pronunciata trapasserebbe come un pugnale il cuore dei tuoi fratelli. Dalla tua lingua dipende la loro vita. Ricorda tutto quel che ti ho detto!”
Intanto sfiorò con l'ortica la mano di Elisa, e a quella sensazione di fuoco acceso Elisa si svegliò. Era già giorno e vicino al suo giaciglio c'era un'ortica, proprio come quella vista nel sogno. Allora s'inginocchiò, ringraziò il Signore e uscì dalla grotta per cominciare il suo lavoro.
Con le sue manine delicate colse quelle orribili ortiche che sembravano infuocate; grosse bolle le si formarono sulle mani e sulle braccia, ma lei soffriva volentieri se questo poteva salvare i suoi cari fratelli. Pestò ogni pianta di ortica con i piedini nudi e ne ricavò la verde fibra.
Quando il sole tramontò giunsero i fratelli che si spaventarono nel vederla così silenziosa; all'inizio credettero fosse un nuovo incantesimo della matrigna cattiva, ma quando videro le sue mani, capirono quel che lei stava facendo per la loro salvezza, e il più giovane dei fratelli pianse; dove cadevano le sue lacrime scompariva il dolore e sparivano le bolle brucianti.
Elisa trascorse tutta la notte al lavoro, perché non poteva trovare pace prima di aver salvato i cari fratelli; passò tutto il giorno dopo da sola, dato che i cigni s'erano allontanati, ma il tempo volò. Una tunica era già finita e ora iniziava la seconda.
Improvvisamente risuonarono i corni da caccia tra le montagne e lei si spaventò. Il suono si avvicinava, Elisa sentiva i cani abbaiare; terrorizzata, si rifugiò nella grotta, legò in un fascio le ortiche che già aveva raccolto e pestato e vi sedette sopra.
In quel momento comparve dalla macchia un grosso cane, seguito da un altro e da un altro ancora. Abbaiavano forte, tornavano indietro e comparivano di nuovo. Dopo pochi minuti tutti i cacciatori stavano all'ingresso della grotta e tra loro il più bello era il re del paese, che si avvicinò a Elisa: non aveva mai visto una ragazza più bella.
“Come sei arrivata qui, bella fanciulla?” le chiese. Elisa scosse la testa: non poteva parlare, ne andava di mezzo la salvezza e la vita dei suoi fratelli, e nascose le sue mani sotto il grembiule, perché il re non vedesse quanto soffriva.
“Vieni con me!” le disse “qui non puoi certo restare! Se sei buona quanto sei bella, ti rivestirò con seta e velluto, ti metterò una corona d'oro sul capo e tu abiterai nel più ricco dei miei castelli” e così dicendo la sollevò sul suo cavallo; lei piangeva e si torceva le mani, ma il re disse: “Io voglio la tua felicità! un giorno mi ringrazierai per questo!” e così ripartì verso i monti tenendola davanti a sé sul cavallo, seguito dai cacciatori.
Quando tramontò il sole apparve la splendida capitale, ricca di chiese e cupole. Il re condusse la fanciulla al castello, dove grandi fontane zampillavano negli alti saloni di marmo, dove le pareti e i soffitti erano splendidamente affrescati, ma Elisa non vedeva nulla e piangeva sconsolata. Senza opporsi, lasciò che le dame di corte la rivestissero di abiti regali, le intrecciassero perle nei capelli e le infilassero morbidi guanti sulle dita bruciate.
Così vestita, appariva di una bellezza insuperabile; tutta la corte le si inchinò con una riverenza molto profonda e il re la chiamò sua sposa, sebbene l'arcivescovo scuotesse il capo commentando che la bella fanciulla del bosco in realtà era certo una strega che aveva accecato gli occhi di tutti e sedotto il cuore del re.
Il re non lo ascoltò, fece suonare la musica, fece preparare le pietanze più prelibate e fece danzare intorno a lei le fanciulle più graziose. Elisa venne condotta attraverso giardini profumati e in saloni meravigliosi, ma sulle sue labbra non comparve mai un sorriso, e neppure nei suoi occhi; c'era posto solo per il dolore, per sempre!
Poi il re aprì una cameretta che si trovava vicino alla camera da letto di Elisa; era tappezzata di preziosi tendaggi verdi che la facevano assomigliare alla grotta in cui era stata; sul pavimento c'era il fascio di fibre che aveva ricavato dalle ortiche e dal soffitto pendeva la tunica già terminata. Tutto questo era stato raccolto da un cacciatore per pura curiosità.
“Qui puoi ripensare alla tua vecchia dimora” le disse il re. “Questa è l'attività che ti teneva occupata allora; adesso, in tanto lusso, ti divertirai a ripensare a quei tempi!”
Non appena Elisa vide quegli oggetti, che le stavano tanto a cuore, si mise a sorridere e il sangue le ravvivò le guance; pensò alla salvezza dei fratelli e baciò la mano del re, che la abbracciò con forza e fece suonare tutte le campane per annunciare il matrimonio. La bella fanciulla muta del bosco diventava la regina del paese!
L'arcivescovo sussurrò parole cattive all'orecchio del re, ma queste non gli raggiunsero il cuore. Il matrimonio venne celebrato; l'arcivescovo in persona dovette cingere con la corona il capo di Elisa e di proposito gliela calzò troppo sulla fronte perché le facesse male; ma su di lei gravava una pena ben più pesante, il dolore per i suoi fratelli, e non sentì affatto la sofferenza fisica. La sua bocca restò muta, una sola parola avrebbe infatti ucciso i fratelli, ma nei suoi occhi c'era un profondo amore per il buon re, che faceva di tutto per renderla felice.
Ogni giorno egli le voleva più bene; oh, se solo avesse potuto confidarsi con lui, dirgli la sua pena! ma doveva rimanere muta, muta doveva compiere il suo lavoro. Per questo ogni notte si allontanava da lui e si recava nella cameretta che somigliava alla grotta, e lì tesseva una tunica dopo l'altra, stava cominciando la settima, quando restò senza fibra.
Sapeva che nel cimitero crescevano le ortiche che lei doveva usare, ma doveva coglierle lei stessa; come poteva recarsi fin là?
"Il dolore alle dita non è nulla in confronto al tormento del mio cuore!" pensava. "Devo tentare! Il buon Dio non mi abbandonerà!" Col cuore tremante, come stesse per compiere una cattiva azione, uscì in una notte di luna, in giardino, attraversò i grandi viali, passò per le strade deserte fino al cimitero. Vide sedute su una delle tombe più grandi un gruppo di lamie, streghe cattive che si strappavano i vestiti come volessero fare il bagno e poi scavavano con le lunghe dita magre nelle tombe più fresche, tirandone fuori i corpi e mangiandone la carne. Elisa dovette passare accanto a loro, che le lanciarono sguardi cattivi; ma lei recitò le sue preghiere, raccolse l'ortica infuocata e la portò al castello.
Un solo uomo l'aveva vista, l'arcivescovo, che stava sveglio quando gli altri dormivano. Aveva dunque avuto ragione a sospettare della regina: era una strega che aveva sedotto il re e tutto il popolo.
In confessione riferì al re quanto aveva visto e quel che sospettava; mentre egli pronunciava quelle cattiverie le immagini intagliate dei santi scossero la testa, come per dire: "Non è vero! Elisa è innocente!" ma l'arcivescovo interpretò il fatto in un altro modo, sostenne che i santi testimoniavano contro di lei e scuotevano la testa per i suoi peccati. Due lacrime solcarono le guance del re, che tornò a casa col cuore pieno di dubbi: la notte fìngeva di dormire, ma i suoi occhi non riuscivano a trovare quiete: si accorse così che Elisa si alzava ogni notte e, seguendola, la vide scomparire nella cameretta.
Un giorno dopo l'altro il suo sguardo si faceva più scuro; Elisa, vedendolo, ne soffriva, sebbene non ne comprendesse la ragione, e soffriva tanto anche per i fratelli!
Sul velluto e sulle porpore principesche cadevano le sue lacrime salate e lì restavano come diamanti splendenti; tutte coloro che vedevano una tale magnificenza desideravano diventare regina. Elisa aveva quasi terminato il suo lavoro; le mancava ancora una sola tunica, ma era rimasta senza fibre e senza ortiche.
Un'ultima volta doveva andare al cimitero a raccogliere qualche manciata di ortiche. Ripensò con terrore alla passeggiata solitaria e alle terribili lamie, ma la sua volontà era ferma, così come la sua fiducia nel Signore.
Elisa dunque andò e il re e l'arcivescovo la seguirono, la videro sparire dietro l'inferriata del cimitero e quando si avvicinarono, videro la lamie sedute sulle tombe, proprio come le aveva viste Elisa, e il re si voltò dall'altra parte, perché pensò che tra di loro ci fosse anche Elisa, la cui testa, anche quella notte aveva riposato sul suo petto!
“Il popolo giudicherà” dichiarò, e il popolo decise che fosse arsa tra le fiamme.
Dalle splendide sale del palazzo Elisa venne condotta in un carcere buio e umido, dove il vento sibilava tra le sbarre della finestra. Invece di seta e velluto le diedero i fasci di ortica che aveva raccolto, lì avrebbe potuto appoggiare il capo. E le tuniche ruvide e brucianti che aveva tessuto dovevano essere il suo materasso e le sue coperte. Non potevano darle niente di più caro! Lei ricominciò a lavorare e pregò il Signore. Dalla strada i monelli le rivolgevano ingiurie; non un'anima la confortava con una buona parola.
Verso sera un'ala di cigno sfiorò l'inferriata: era il più giovane dei fratelli che aveva ritrovato la sorellina; lei singhiozzò forte per la gioia, sebbene sapesse che quella sarebbe stata probabilmente l'ultima notte per lei; ma ormai il lavoro era quasi terminato e i suoi fratelli erano lì.
Giunse l'arcivescovo, per trascorrere con lei le ultime ore come aveva promesso al re, ma lei scosse la testa, e coi gesti e con gli occhi lo pregò di andarsene; quella notte doveva terminare il suo lavoro, altrimenti tutto sarebbe stato inutile, i dolori, le lacrime e le notti insonni. L'arcivescovo se ne andò pronunciando nuove cattiverie su di lei, ma la povera Elisa sapeva di essere innocente e continuò a lavorare.
I topolini correvano sul pavimento portando ai suoi piedi i fili di ortica per aiutarla, il merlo si appollaiò sull'inferriata e cantò per tutta la notte meglio che potè, perché lei non si scoraggiasse.
Non era ancora l'alba, mancava un'ora al sorgere del sole quando gli undici fratelli che si trovavano all'ingresso del castello chiesero di essere condotti dal re; ma “non è possibile!” fu risposto “è ancora piena notte, il re dorme e non può essere svegliato”. Loro supplicarono, minacciarono, giunse la sentinella; persino il re uscì e chiese che cosa stava succedendo. Ma in quel momento il sole sorse e i fratelli non si videro più: sul castello volavano undici cigni bianchi.
Tutto il popolo affluiva alla porta della città per vedere bruciare la strega. Un misero cavallo tirava il carretto su cui Elisa era seduta; l'avevano vestita con una tela di sacco ruvida, i lunghi e bei capelli cadevano sciolti intorno al viso grazioso, le guance erano pallide come la morte, le labbra si muovevano piano mentre le dita intrecciavano la verde fibra: persino andando verso la morte non aveva smesso il suo lavoro, le dieci tuniche giacevano ai suoi piedi, e lei stava terminando l'undicesima. Il volgo la ingiuriava.
“Guardate la strega! come borbotta! non ha il libro dei salmi con sé, no, è circondata dai suoi luridi sortilegi. Strappateglieli in mille pezzi!”
E tutti si spinsero verso di lei e le volevano strappare il lavoro; allora giunsero undici cigni bianchi in volo e circondarono il carretto sbattendo le grandi ali, così allontanarono la folla spaventata.
“È un segno del cielo! È sicuramente innocente!” sussurravano in molti, ma nessuno osò dirlo a voce alta.
Il boia la afferrò per una mano, allora lei gettò in fretta le undici tuniche sui cigni e subito apparvero undici bellissimi principi. Il più giovane aveva però ancora un'ala di cigno al posto del braccio, perché Elisa non aveva ancora potuto tessere una manica all'ultima tunica.
“Adesso posso parlare!” esclamò. “Sono innocente!”
E il popolo, che aveva visto l'accaduto, si inchinò davanti a lei come davanti a una santa, ma lei cadde svenuta tra le braccia dei fratelli, dopo tutta quella tensione, quell'angoscia, quel dolore.
“Sì, è innocente!” disse il fratello maggiore e raccontò tutto quel che era successo. Mentre lui parlava si sparse nell'aria un profumo come di migliaia di rose: ogni piccolo legno del rogo aveva messo radici e fioriva; ora era un cespuglio alto e profumato, di rose rosse, e in cima c'era un fiore bianco e luminoso come una stella, il re lo colse e lo mise sul seno di Elisa e lei subito si risvegliò col cuore pieno di pace e di felicità.
Tutte le campane delle chiese suonarono da sole e gli uccelli sopraggiunsero a stormi in direzione del castello; si formò un corteo nuziale così lungo che nessun re mai aveva visto l'eguale

L'ortica nelle fiabe - I cigni selvatici di Hans Christian Andersen (prima parte)


Di questa fiaba ricordavo solo una fanciulla che tesseva le ortiche sopportando il dolore che tale attività recava alle sue povere mani, non l’ho nemmeno cercata perché non avrei nemmeno saputo come fare, eppure me la sono trovata davanti cercando qualcos’altro, probabilmente è lei che cercava me.

M
olto lontano da qui, dove le rondini volano quando qui viene l'inverno, viveva un re con undici figli e una figlia, Elisa. Gli undici fratelli, che erano principi, andavano a scuola con la stella sul petto e la spada al fianco; scrivevano su una lavagna d'oro usando punte di diamante e sapevano leggere bene i libri e recitare a memoria: si capiva subito che erano principi. La loro sorella, Elisa, stava seduta su uno sgabellino di cristallo e guardava un libro di figure che valeva metà del regno.

Oh! quei bambini stavano proprio bene, ma la loro felicità non poteva durare per sempre!
Il padre, re dell'intero paese, si risposò con una principessa cattiva che non amava affatto quei poveri bambini, e loro dovettero accorgersene fin dal primo giorno.
Al castello c'era una grande festa e i bambini giocavano a farsi visita, ma invece di dar loro tutte le torte e le mele al forno che riuscivano a mangiare, la matrigna gli diede solo della sabbia nelle tazze da tè e disse di far finta che fosse qualcosa di buono.
La settimana successiva trasferì Elisa in campagna da alcuni contadini e non passò molto tempo che riuscì a far credere al re cose molto brutte sui poveri principini, così che egli non si preoccupò più di loro.
Volatevene via per il mondo e arrangiatevi da soli!” disse la regina cattiva. «Volate via come grandi uccelli senza voce!”; non riuscì tuttavia a far loro tutto il male che avrebbe voluto: i principini si trasformarono in undici bellissimi cigni selvatici. Con uno strano verso si sollevarono e andarono via dal castello verso il parco e il bosco.
Era ancora mattino presto quando arrivarono alla casa dei contadini in cui abitava la sorellina Elisa; dormiva ancora, e loro volarono un po' sopra il tetto, girarono il collo da ogni parte e batterono le ali, ma nessuno li vide né li sentì! Dovettero riprendere il volo, in alto verso le nubi, lontano nel vasto mondo, finché giunsero a una immensa e oscura foresta che si stendeva fino alla spiaggia.
La povera Elisa giocava nella casa dei contadini con una foglia verde: non aveva altri giocattoli; fece un buco nella foglia e guardò attraverso, verso il sole: le sembrò di vedere i begli occhi chiari dei suoi fratelli, e ogni volta che i caldi raggi del sole le illuminavano il viso, pensava alle loro carezze.
Passarono i giorni, uno uguale all'altro. Quando soffiava tra i cespugli di rose davanti alla casa, il vento sussurrava alle rose: “Chi può essere più grazioso di voi?” e le rose scuotevano la testa e dicevano: “Elisa”. E quando la vecchia contadina, la domenica, seduta sulla soglia, leggeva il libro dei salmi, il vento girava le pagine e chiedeva al libro: “Chi può essere più devoto di te?” e il libro rispondeva: “Elisa”, e quello che le rose e il libro dei salmi dicevano era la pura verità.
Quando compì quindici anni, Elisa venne richiamata al castello; e appena la principessa vide che la ragazza era così bella, cominciò a odiarla crudelmente. Avrebbe voluto trasformare anche lei in cigno selvatico, proprio come i fratelli, ma non osò farlo, perché il re voleva vedere la figlia.
Di primo mattino la regina si recò nel bagno, costruito in marmo e decorato con soffici cuscini e bellissimi tappeti; lì prese tre rospi, li baciò e disse al primo: “Mettiti sulla testa di Elisa, quando entrerà nella vasca da bagno, e rendila indolente come te! Tu invece devi saltarle in fronte” disse al secondo rospo “così che diventi orribile come te e suo padre non la riconosca! E in quanto a te, devi metterti sul suo cuore” sussurrò al terzo animale “e renderla tanto malvagia che ne soffra lei stessa!”. Intanto fece scivolare i tre rospi nell'acqua limpida, che subito divenne verdognola; poi chiamò Elisa, la svestì e la fece entrare nella vasca da bagno; mentre lei si immergeva i tre rospi saltarono uno sul suo capo, uno sulla fronte e l'ultimo sul cuore, ma Elisa sembrò non accorgersene neppure. Quando si rialzò, galleggiavano nell'acqua tre papaveri rossi; se gli animali non fossero stati velenosi e baciati dalla strega, si sarebbero trasformati in rose rosse; ma divennero comunque fiori soltanto perché avevano riposato sul suo capo e sul suo cuore; Elisa era così pura e innocente che i sortilegi non avevano alcun effetto su di lei.
Quando la cattiva principessa lo vide, spalmò la ragazza con succo di noci, per scurirle la pelle; poi le unse il viso con un unguento puzzolente e le arruffò i capelli: ora era assolutamente impossibile riconoscere la bella Elisa.
Infatti suo padre, vedendola, inorridì e dichiarò che quella non poteva essere sua figlia. In realtà nessuno la riconobbe, a parte il cane da guardia e le rondini, ma quelli erano dei poveri animali e non aveva alcuna importanza ciò che dicevano.
La povera Elisa cominciò a piangere pensando ai suoi undici fratelli che erano lontani. Malinconica, uscì dal castello e camminò per tutto il giorno per campi e paludi finché giunse nel grande bosco. Non sapeva dove si trovava, ma era molto triste e provava una grande nostalgia dei fratelli, che sicuramente erano stati cacciati via dal castello come lei, e decise che li avrebbe ritrovati a tutti i costi.
Era giunta da poco tempo nel bosco quando sopraggiunse la notte; aveva perso la strada e così sedette sul morbido muschio, recitò la preghiera della sera e appoggiò la testa a un tronco d'albero. C'era una grande quiete e l'aria era mite, e sull'erba e tra il muschio si accendevano centinaia di lucciole; quando Elisa con delicatezza sfiorò un ramoscello con la mano, quegli insetti luminosi caddero su di lei come stelle.
Per tutta la notte sognò i suoi fratelli, sognò di quando da bambini giocavano insieme e di quando scrivevano con la mina di diamante sulla lavagna d'oro e guardavano il bel libro illustrato che era costato metà del regno. Ma sulla lavagna non scrivevano più, come allora, le aste e gli zeri, ora disegnavano le affascinanti avventure che avevano vissuto e tutto quel che avevano visto.
Gli uccelli cantavano, i personaggi uscivano dal libro illustrato e chiacchieravano con Elisa e con i suoi fratelli, ma quando lei girava pagina, ritornavano dentro di corsa per non creare confusione tra le figure.
Quando si svegliò, il sole era già alto nel cielo; in verità lei non riusciva a vederlo, perché gli alti alberi si allargavano sopra di lei con rami fìtti e folti, ma i raggi penetravano tra le foglie formando un velo d'oro svolazzante. C'era un buon profumo d'erba e gli uccelli quasi si posavano sulle sue spalle. Elisa sentiva il gorgoglio dell'acqua, perché c'erano diverse sorgenti che sfociavano in un laghetto con il fondo di bellissima sabbia. Tutt'intorno crescevano fitti cespugli, ma in un punto i cervi avevano creato un'apertura e da lì Elisa arrivò fino alla riva. L'acqua era così limpida, che se il vento non avesse mosso i rami e i cespugli, lei li avrebbe creduti dipinti sul fondo, si rispecchiava nell'acqua ogni singola foglia, quelle illuminate dal sole e quelle in ombra.
Quando vide riflesso il proprio volto Elisa si spaventò, tanto era nera e brutta, ma non appena si toccò gli occhi e la fronte con la mano bagnata, subito la pelle chiara ricomparve. Allora si tolse i vestiti e si immerse nell'acqua fresca, una figlia di re più bella di lei non si trovava in tutto il mondo.
Poi si rivestì di nuovo e si intrecciò i lunghi capelli, andò verso la sorgente zampillante e bevve dal cavo delle mani, e si diresse nel bosco, senza sapere dove andare. Pensava ai suoi fratelli, pensava al buon Dio che certamente non l'avrebbe abbandonata, lui che fa crescere le mele selvatiche per dar da mangiare agli affamati. Elisa trovò infatti uno di questi alberi, con i rami piegati per il gran peso dei frutti; ne mangiò, poi mise dei sostegni sotto i rami e s'incamminò nella parte più buia del bosco. C'era un tale silenzio che sentiva il rumore dei suoi passi, sentiva ogni singola foglia secca che scricchiolava sotto i suoi piedi, non si vedeva un uccello e neppure un raggio di sole riusciva a passare attraverso i fitti rami degli alberi: i tronchi alti erano così vicini tra loro che quando guardava davanti a sé, le sembravano una inferriata che la tenesse prigioniera; per la prima volta provava una solitudine tanto profonda!
La notte fu proprio buia, neppure una lucciola brillava nel muschio; allora, tristemente, Elisa si sdraiò per dormire; le sembrò che i rami degli alberi si traessero da parte e che il buon Dio la guardasse con dolcezza, mentre gli angioletti gli facevano capolino sopra la testa e sotto le braccia.
Quando si risvegliò al mattino non seppe dire se aveva sognato o se tutto era veramente accaduto.
Si incamminò, ma dopo pochi passi incontrò una vecchia che portava bacche selvatiche in un cestello. Questa gliele offrì e Elisa le chiese se aveva visto undici principi cavalcare per il bosco.
“No” rispose la vecchia “ma ieri ho visto undici cigni con una corona in testa, che nuotavano nel fiume che passa qui vicino!”
E condusse Elisa verso un pendio in fondo al quale scorreva un fiume; gli alberi più grandi stendevano i loro lunghi rami folti verso quelli degli alberi dell'altra riva, con cui si intrecciavano; le piante che non erano cresciute abbastanza per toccarsi, avevano divelto le radici dal terreno e si sporgevano più che potevano sull'acqua per intrecciare i rami con quelli delle altre piante.
Elisa salutò la vecchia e s'incamminò lungo il fiume, finché questo non sfociò nella spiaggia aperta.
L'immenso mare si stendeva ora davanti alla fanciulla, ma non c'era né una vela né una barchetta. Come poteva proseguire? Cominciò a guardare gli innumerevoli ciottoli che si trovavano sulla spiaggia, l'acqua li aveva tutti levigati, vetro, ferro, pietra, tutto quello che era stato depositato sulla spiaggia era stato levigato dall'acqua, che pure era molto più delicata della pelle delle mani!
“L'acqua è instancabile nel suo lavoro e così riesce a smussare gli oggetti più duri; anch'io voglio essere altrettanto instancabile! Grazie per quanto mi avete insegnato, chiare onde fluttuanti; un giorno, me lo dice il mio cuore, voi mi porterete dai miei cari fratelli!"
Tra i relitti portati dall'onda, c'erano undici bianche piume di cigno; lei le raccolse e ne fece un mazzetto, e vide delle goccioline d'acqua, ma chi poteva dire se erano lacrime o gocce di rugiada? Elisa era sola sulla spiaggia, ma non soffriva di solitudine, il mare infatti era in continuo mutamento, si trasformava in poche ore più volte che non un lago nell'arco di un anno intero. Se sopraggiungeva una grande nuvola nera, allora il mare sembrava dire: "Posso anche oscurarmi!", quando soffiava il vento le onde mostravano il bianco, se il vento calava e le nubi erano rosse, allora il mare diventava liscio come i petali di rosa; poi si faceva ora verde ora bianco, ma per quanto potesse stare calmo c'era sempre un lieve movimento lungo la riva, l'acqua si sollevava dolcemente, come il petto di un bambino che dorme.
Mentre il sole tramontava Elisa vide undici cigni bianchi con le corone d'oro in testa volare verso la riva; allineati com'erano uno dietro l'altro, sembravano un lungo nastro bianco. Elisa si arrampicò sulla scarpata e si nascose dietro un cespuglio: i cigni si posarono vicino a lei e sbatterono le loro grandi ali bianche.
Non appena il sole scomparve nel mare, i cigni persero il loro manto di piume e apparvero undici bellissimi principi, i fratelli di Elisa! Lei mandò un grido perché, benché fossero cambiati molto, sentiva che erano loro; si precipitò nelle loro braccia chiamandoli per nome, e loro, riconoscendo la sorellina che si era fatta così grande e bella, si rallegrarono immensamente. Ridevano e piangevano, e subito si resero conto di quanto la matrigna fosse stata cattiva con loro.
“Noi fratelli” spiegò il più grande “voliamo come cigni finché è giorno; non appena il sole è calato, assumiamo le sembianze di uomini: per questo dobbiamo badare bene a avere un luogo per posare i piedi, quando è l'ora del tramonto. Infatti, se in quel momento stiamo ancora volando tra le nuvole, diventando uomini, precipiteremmo giù. Noi non abitiamo qui, c'è un altro paese altrettanto bello, dall'altra parte del mare; ma la strada per arrivare fin là è lunga, dobbiamo attraversare l'immenso mare e non c'è neppure un'isola su cui posarci e passare la notte, solamente un unico scoglio, molto piccolo, che affiora: soltanto stringendoci riusciamo a starci tutti e quando il mare è mosso, l'acqua ci spruzza, ma nonostante ciò ne ringraziamo Dio. Lì passiamo la notte nelle sembianze di uomini e senza quello scoglio non potremmo mai rivedere la nostra cara terra natale, perché utilizziamo i due giorni più lunghi dell'anno per compiere il viaggio. Solo una volta all'anno ci è permesso visitare la nostra patria e possiamo restare qui solamente undici giorni. Allora voliamo sopra questa grande foresta e rivediamo il castello dove siamo nati e dove nostro padre ancora vive, scorgiamo anche il campanile della chiesa dove nostra madre è sepolta.
“Un richiamo del sangue ci lega a questi alberi e a questi cespugli, qui cavalcano per le praterie i cavalli selvaggi, proprio come ai tempi della nostra infanzia, qui i carbonai cantano le vecchie canzoni al cui ritmo noi ballavamo quand'eravamo piccoli; questa è la nostra cara patria che ci chiama a sé, e qui abbiamo ritrovato te, cara sorellina! Possiamo rimanere ancora due giorni, poi siamo costretti a partire per quella bella terra, che però non è la nostra patria! Come facciamo a portarti con noi? Non c'è una vela né una barca!”
“Come posso fare per salvarvi?” esclamò la sorellina.
Continuarono a parlare per quasi tutta la notte, dormendo solo poche ore.
Elisa fu svegliata dal rumore delle ali dei cigni, che sibilavano sopra di lei. I suoi fratelli si erano già trasformati di nuovo e volavano in larghe spirali, e presto scomparvero; ma uno di loro, il più giovane, rimase con lei; posò il suo capo di cigno sul suo grembo e lei gli accarezzò le bianche ali. Rimasero insieme tutto il giorno, verso sera ritornarono gli altri, e quando il sole scomparve ripresero la loro forma umana.
“Domani partiremo e non potremo tornare prima che sia passato un anno intero, ma non possiamo lasciarti così! Hai il coraggio di venire con noi? Le nostre braccia sono abbastanza robuste da portarti per il bosco, quindi anche le ali saranno abbastanza forti da portarti con noi sul mare!”
“Sì, portatemi con voi!” supplicò Elisa.
Per tutta la notte intrecciarono una rete con la corteccia flessibile del salice e dei giunchi pieghevoli, e la rete riuscì grande e robusta; Elisa vi si adagiò sopra e quando il sole sorse, i fratelli si trasformarono in cigni selvatici, afferrarono la rete con il loro becco e si sollevarono tra le nuvole con la cara sorellina che ancora dormiva. I raggi del sole le cadevano dritti sul capo, allora uno dei cigni volò proprio sopra di lei perché le sue ampie ali le facessero ombra.

(continua
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