domenica 29 gennaio 2012

Le Salighe – oro in cambio di latte


Le Vergini Selvatiche amano il latte fresco, l’alimento vitale dei mammiferi che è spesso al centro delle loro relazioni e degli scambi con gli uomini e le donne delle valli.
Il loro nutrirsi di latte è un aspetto del loro rapporto con il femminile, cui appartengono, e le cui sapienza ed energia offrono agli altri. Ma il dono del latte viene anche da loro accolto come un’offerta sacra, un “farsi avanti”, che spinge le Salighe a proporre, a chi l’ha presentata, il profondo processo di realizzazione del femminile.
Come è narrato, attraverso la simbologia alchemica, in questa storia.

Una contadina di Meltina (Moelten) mise una sera una grande scodella piena di latte fresco davanti alla finestra perché durante la notte facesse una buona panna. Quando però la mattina seguente volle riprendersi il latte, trovò al suo posto la scodella piena di sangue. Spaventata corse dai vicini e raccontò loro l’accaduto. Le si consigliò allora di provare ancora una volta a mettere, la notte seguente, la stessa scodella piena di latte davanti alla finestra. La donna così fece, e la mattina, quando guardò cosa ne era stato del latte, la scodella era piena d’oro fino all’orlo.

La Donna Selvatica, la sera prima, aveva accolto la tazza di latte come un’offerta, che aveva bevuto fino in fondo. Poi, al posto del latte, aveva messo il sangue. Un dono-proposta inquietante, destinato a mettere alla prova la capacità della contadina di proseguire nel processo di trasformazione iniziato con la precedente offerta (ancora inconscia) alla Donna Selvatica. Il sangue è, come il latte, un liquido organico, ma di colore rosso e quindi naturalmente in grado di evocare e trasformare emozioni più forti, più adulte, a volte decisamente minacciose, anche se più ricche dal punto di vista energetico. Emozioni che, nel processo alchemico, segnano il passaggio dalla fase di inizio della trasformazione, chiamata albedo (la fase del bianco), alla più ricca e feconda rubedo (la fase del rosso). È proprio in questo passaggio, infatti, che avviene ciò che gli alchimisti chiamano il passaggio decisivo dell’”arrossamento del bianco”. Un transito che è carico di significati, anche nella vita di ogni donna: pensiamo, per esempio, allo sviluppo fisico e sessuale, che è segnato, con l’arrivo del mestruo, dall’”arrossamento del bianco”. L’incontro con il sangue (innanzitutto il proprio), in cui si apre per la donna il rapporto con il lato più forte, e anche torbido, dell’inconscio collettivo femminile, è da lei accolto con terrore, nella saga così come spesso nella realtà. E, come è giusto che accada, lei racconta l’avvenimento, il momento che sta attraversando, alla comunità (come la bimba che annuncia alla madre, o alle donne che ha attorno, il suo menarca). Nella saga la comunità svolge il compito che le compete: rassicura la donna e la invita a persistere nella sua azione, che ora diventa a tutti gli effetti un’offerta consapevole, un sacrificio alla potenza sovrapersonale, misteriosa, femminile, che aveva sostituito il latte con il sangue. A questo punto il processo di sviluppo è decisamente avanzato. Si è ormai passati dall’offerta casuale, inconscia, ancora frammista all’aspettativa di un appagamento sul piano materiale del processo organico (metto il latte e ricevo la panna), al consapevole compimento di un’offerta-sacrificio a un’Entità sovrapersonale, di cui si aspetta la risposta con tremore e devozione. Il sacrificio e la devozione all’Altro, a ciò che sta al di là e al di sopra dell’Io, è appunto ciò che consente di oltrepassare anche la dimensione del sangue, dell’arrossamento del bianco, e che apre il passaggio alla fase ulteriore della trasformazione: quella della luce e dell’oro, della ricchezza assicurata dall’accettare una prospettiva di vita che va al di là della materia, dell’Io e delle sue paure. Ecco quindi che quando la contadina, ormai consapevole di essere entrata in contatto con un potere che la trascende, rimette il latte alla finestra, questo può venire trasformato in oro: perché la devozione alla Donna Selvatica, al femminile transpersonale della Natura, ha consentito il transito dalla materia alla luce.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

sabato 28 gennaio 2012

Le Salighe e i fiori


Le Salighe amano i fiori bianchi, che esprimono innocenza di cuore e irradiano la luce, quella diurna come quella notturna, lunare.
Per questo, chi trova i loro rododendri bianchi viene premiato dalle Fanciulle Selvatiche.
Come racconta questa saga.
Sulla malga di Burgeis crescono rododendri bianchi che vengono visti solo dagli uomini innocenti. Chi trova questo fiore lo deve subito coprire e, senza mai distogliere lo sguardo, deve scavare bene sotto la pianta. Lì troverà un grande tesoro.
Più di ogni altro, però, è la stella alpina il fiore preferito delle Salighe, oltre che il simbolo dell’amore verso la loro patria, il Tirolo.
Quando, nelle chiare notti di luna, danzano i loro girotondi sulle rive dei solitari laghetti alpini, una corona di bianchi Edelweiss orna i loro capelli ricciuti. Quella che porta la corona più bella è la regina della danza, e a volte del gruppo.
La stella alpina è il fiore che simboleggia l’elevazione spirituale perché, per arrivarvi, ci si espone al rischio della caduta, del precipitare giù in basso (l’altro volto dell’amore per l’ascensione). Il suo colore bianco rappresenta il colore dell’Anima. E, soprattutto, l’edelweiss ci offre il simbolismo della stella: una totalità, un mandala naturale che possiede un suo centro ben preciso (dunque un’immagine di “centratura”, anche psichica) e che irradia dai suoi petali-raggi una luminosità argentea, lunare. Non stupisce dunque che l’edelweiss sia uno dei doni prediletti delle Salighe. Un dono celebrativo della vita.
Nella valle di Muenster, nell’Engadina, per esempio, le Selvatiche, la sera prima delle nozze, usavano inviare in casa alle spose, almeno a quelle che godevano della loro benevolenza, una corona di stelle alpine e di ruta.
Ma l’edelweiss, con la sua forza simbolica di totalità, è anche in grado di onorare la morte, soprattutto quella delle creature innocenti, la cui Anima ha lo stesso splendore del fiore.
Quando moriva un bambino innocente, infatti, le Salighe si recavano di notte, anche nel più rigido inverno, per ornarne il tumulo ancora fresco con corone di rami d’abete, in mezzo al cui verde scuro brillavano le candide stelle alpine.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono della tessitura e del gomitolo


La Donna Selvatica è anche colei che offre alla donna la possibilità di tessere, mettendole a disposizione i materiali necessari.
Con il dono del materiale di tessitura viene offerta contemporaneamente la materia prima per tessere e, insieme, l’iniziazione al filo e all’ordito, in cui è simboleggiato un tradizionale sapere femminile.
Nella maggior parte delle culture una dea sapiente offre alla donna la tessitura, simbolo della capacità di creare l’ordito della vita, di riunire i fili in un disegno armonioso. In Grecia è Pallade Atena, anch’essa una dea vergine, dunque “intatta”, senza nessuna dipendenza psicologica dell’uomo, che insegna alla donna a tessere, con la sua pazienza e la sua metis (il sapere pratico femminile), la trama della vita. Attraverso la sua capacità di tessere la donna si guadagna, non solo materialmente, l’autonomia: diventa infatti colei che compone la trama della propria storia e, in parte, anche di quella della comunità.
A questo antico tema del sapere femminile della tessitura, della trama, inteso in senso fisico e psicologico, la Donna Selvatica aggiunge però altri due aspetti.
Uno, che incontriamo spesso in queste narrazioni, è ancora una volta quello del segreto: la donna non deve svelare da dove vengono le sue ricchezze, i suoi beni. Il mondo dell’abbondanza femminile, per mantenere tutta la sua energia, deve rimanere tabù, non deve rivelare le proprie fonti.
L’altro, immancabile, è l’allontanamento della riflessione intellettuale negativa e di calcolo: quando finirà?
La domanda sulla fine (figlia della Penuria, vera dea del nostro mondo) esprime sempre la preoccupazione del controllo, che è il contrario dell’affidamento.
Vediamo in queste improvvise interruzioni della ricchezza, provocate appunto dalla domanda sulla quantità del dono, ciò che ogni visione del Sacro ha sempre presentato come necessità dell’affidamento agli dei, o alle forze della Natura Primordiale, il sospetto nei confronti delle quali è già sufficiente ad attenuarne la benevolenza.
Nel cattolicesimo le eterne abbondanze del Sacro compaiono come Divina Provvidenza, spesso rappresentata da immagini di Vergini belle e luminose (suggestiva quella, opulenta, dipinta da Simone di Gaeta e custodita nel Tempio dei Catilinari, dei padri barnabiti, a Roma, cui vengono attribuite proprietà miracolose).
Una versione simbolicamente povera, ridotta a tecnica psicologica, dello stesso concetto di affidamento alla vita e alle sue forze sovrapersonali, è ciò che molta New Age, assieme a diverse correnti psicologiche americane, ha proposto come “pensiero positivo”, o think positive.(Vedi anche: 
http://damadiavalon.blogspot.com/2011/06/le-tessitrici-del-destino.html)

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – il dono vitale: il seme prezioso


Il primo dono della Donna Selvatica è quello che presiede all’origine della vita: il seme. Le Selvatiche hanno in custodia i semi, sanno quando e dove piantarli, nonché come mantenerne la fecondità.

Come racconta questa storia.
Una vecchia e povera donnetta (tutti i suoi averi erano qualche capra e un piccolo campo) pascolava i suoi animali su un terreno assolato, sui rudi pendii rocciosi della Montagna del Sole, la Sonnenberg di Naturno (Naturns).
Da quelle parti c’era una volta il castello dei giganti, ora scomparso, che comunicava con il castello Juval attraverso un ponte di cuoio. È proprio in quella zona che si alza verso il cielo una parete rocciosa rossa, visibile da ogni parte, la Rotwand. Proprio in quel luogo si trovava, da tempi lontanissimi, il regno delle Donne Selvatiche, che amavano le creature umane, le attiravano e le consigliavano bene.
Indebolita dal calore del pieno sole, la vecchia pastora si lasciò cadere su un masso roccioso, che già scottava. Un profondo sospiro uscì dal suo petto; quello era stato proprio un anno malriuscito, durante il quale erano andati distrutti tutti i frutti del campo e l’erba. Le capre, di solito schizzinose, quell’anno dovevano accontentarsi di cardi e spine disseccate, se volevano mangiare almeno qualcosa. La vecchia donna pensava con timore alla carestia che si avvicinava, afflitta per i suoi cari e per sé. Intanto si era lievemente addormentata, per la fame e la debolezza. Di colpo si svegliò e si spaventò enormemente quando si vide circondata da una schiera di donne belle e alte, con capelli lunghi e morbidi, in bianchi vestiti. Erano le Salighe. Una di queste le porse con grazia un cestino pieno di chicchi neri, incoraggiandola ad allontanare paura e preoccupazione e seminare questi chicchi nel suo campo. Da ogni seme sarebbe cresciuto un furto centuplicato e, fino a che fosse stato coltivato bene, alla sua gente non sarebbe mai più mancato il cibo. Così disse e svanì, con le sue compagne, come un raggio di sole. La donnetta sbalordita non ebbe neanche il tempo di ringraziare la bella Selvatica. Portò il cestino con i semi a lei sconosciuti giù nella valle e seminò questi chicchi che non finivano mai non solo nel suo campetto, ma anche nei campi dei contadini nel paese e dintorni. Quando poi le piantine erano cresciute fino alle ginocchia formarono un mare di fiori rosa, dai quali le api prendevano il miele. Prima ancora che le bufere autunnali rumoreggiassero sopra i campi, i cassoni, vuoti di grano e farina, erano ormai pieni di quel buon frutto: il grano saraceno.

Affidati alla Natura, pianta il seme sconosciuto, frutto della terra primordiale, che ti do in mano, caccia il timore della penuria, abbi fiducia nella ricchezza della vita, accolta e coltivata come si deve. Questo il semplice, positivo messaggio della Selvatica. Elementare e insieme fortissimo.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe – i loro doni


Con l’arrivo della Donna Selvatica (come pure dell’Uomo Selvatico), compare nella vita dell’individuo e della comunità la dimensione del dono, della gratuità, del libero dispendio di sé.
Le Fanciulle del Bosco sono quelle che donano perché posseggono le energie degli dei, le forze inesauribili del Sacro Naturale.
Così le vede, per esempio, Goethe:

Voi che abitate rocce e alberi
o ninfe salutari
date a ciascuno volentieri, ciò che in silenzio desidera!
[…]
Perché a voi
gli dei hanno dato,
ciò che agli uomini hanno negato,
esseri caritatevoli e consolanti,
con chi si fida di voi. (J.W. Goethe, Solitudine)

Il dono è, infatti, il modo di esprimersi dell’energia delle forze primordiali e naturali, che l’uomo ha sempre vissuto come sacre (tranne in Occidente, negli ultimi duecento anni). E la Natura, come tutto il Sacro si esprime donando, perché possiede energie in eccesso. Come ha osservato lo studioso del Sacro Rudolf Otto: “Il Sacro in semitico, greco, latino e in altre antiche lingue veniva definito solo come eccesso, eccedente, troppo, e non ci si occupava dell’aspetto morale”.
Il mondo delle forze della Natura, del Sacro, è dunque il mondo delle eccedenze, delle abbondanze.
Il mondo del pensiero razionale è invece in gran parte il mondo del calcolo, della misura e del controllo.
La differenza, energetica e psicologica, tra questi due ambienti appare evidente se osserviamo una foresta e una fabbrica. L’organizzazione industriale, infatti, si limita a elaborare, spesso in modo geniale, materie prime o fabbricate dall’uomo. Nell’intervento naturale invece l’aspetto di sovrappiù, di eccedenza rispetto a quanto l’uomo vi mette è assolutamente evidente.
Nel grembo della terra avviene un processo creativo paragonabile, per ricchezza di risultato, soltanto a quanto avviene nel corpo umano, che infatti della Natura fa parte. Il mondo della Natura Primordiale è quindi, innanzitutto, il mondo dell’eccedenza, del sovrappiù, della dismisura tra quanto mette l’uomo (il piccolo seme) e quanto le forze naturali trasformano (il campo, l’albero, la foresta) e aggiungono. Così come possono anche togliere, senza preavviso: è l’aspetto distruttivo del Sacro naturale.
La Natura incontaminata, la Wildins, rappresenta quindi la situazione opposta a quella in cui vive l’individuo della modernità: che è, in fondo, una condizione di penuria, anche se la chiamano di solito ricchezza. L’uomo e la donna della modernità pensano infatti di poter ottenere solo nella misura in cui continuamente investono e calcolano: nulla è dato loro gratuitamente. L’affidamento alla vita – che noi chiamiamo “fatalismo” – è condannato come irresponsabilità: non hai nulla se non con lo sforzo, e non lo mantieni che con un ossessivo controllo della situazione.
Il linguaggio e il comportamento della Donna Selvatica, rappresentante del mondo naturale delle abbondanze, è invece quello del darsi. È attraverso questa donazione che si manifestano le sue energie, le sue possibilità di intervento nella vita degli uomini.
Per la Selvatica è invece tabù, grave violazione al suo carattere sacro, il modo dello scambio mercantile. Il pagamento, i beni che le vengono dati non come offerta sacrificale a una potenza sovrapersonale, ma come compenso personale, utilitaristico do ut des, “do per avere”, la offendono, e provocano subito il suo ritorno nella foresta, nella Wildnis.
La Donna Selvatica rappresenta un femminile non certo fastoso, anzi in genere essenziale, ma che dà, offre in continuazione: lavoro, cose preziose, materie prime naturali. Il suo insegnamento è che sul mondo naturale, di cui lei è espressione, si può contare all’infinito, a condizione di rispettarlo e onorarlo. Essa non può accettare il compenso, che la degraderebbe da rappresentante della Natura Primordiale a interessata prestatrice d’opera. Il pagamento in denaro è ancora più offensivo del dono, che di solito viene accolto con umorismo, come una stupidaggine, anche se fa fuggire le Selvatiche

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

venerdì 27 gennaio 2012

Le salighe e gli animali


È ancora l’amore per la vita che spinge queste belle Fanciulle del Bosco e della Montagna a proteggere la selvaggina, e ad adirarsi con i cacciatori che uccidono a sangue freddo gli animali. Sono molte le storie che raccontano come, quando un capriolo e una camoscia erano già sotto tiro, dal bosco o dalla montagna la Selvatica lanciasse improvvisamente un grido acuto, mettendo in fuga le vittime predestinate e lasciando di stucco il cacciatore.
La stretta relazione tra le Selvatiche e gli animali, e la protezione che esse accordano loro, esprime bene la loro funzione di rappresentanti delle forze del femminile naturale, a cominciare da quelle della vita, e degli istinti, di cui gli animali sono la personificazione vivente. Anche oggi riavvicinarsi alle forze del femminile originario, della Selva, della vita primordiale, richiede l’amicizia e la conoscenza con il mondo degli animali.
L’animale è un testimone della pura forza dell’istinto vitale.
Per questo la Selvatica lo protegge.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger

Le Salighe - le loro abitazioni


La dimora della Donna Selvatica si trova di solito in zone profonde, all’interno delle rocce o nella terra. “Abitare nella grotta significa condurre una meditazione terrestre, significa partecipare alla vita della terra nel seno stesso della Terra materna”. (G. Bachelard, La terra e il riposo).
Perché le Selvatiche stanno nelle caverne? Innanzitutto perché grotte e caverne sono i luoghi più carichi di Mana, della forza del Sacro, categoria cui le Salighe appartengono. Che sottoterra ci sia più energia che fuori, le culture tradizionali da cui queste saghe sono nate lo hanno sempre saputo. Non a caso nelle grotte nascono profeti o figure divine, a cominciare da Gesù, e nelle grotte si ritirano a vivere grandi visionari (come il discepolo Giovanni, autore dell’Apocalisse), che proprio da quei luoghi chiusi, e grazie al raccoglimento che inducono, possono avere ampie visioni sul mondo.
La Donna Selvatica, impenetrabile se non quando lo desidera, penetra invece il mondo con il suo sguardo, che si spinge fuori dal buco della caverna, anche quando lei vi si è ritirata.
La grotta, e quella delle Selvatiche in particolare, è il luogo del riposo, della tranquillità, della protezione, il luogo che ripete la sicurezza profonda del grembo. Quando vi entrano il disordine, la disperazione, la protesta, la rivendicazione del possesso, la tranquillità ne è cacciata, e il luogo ne risulta profanato. Esso perde il suo Mana, la sua energia, che è quella del rifugio, della protezione e, appunto, dell’integrità, del pieno possesso di sé. Un mondo di energie che per mantenersi ha bisogno del rispetto per il segreto.



A volte l’intrusione maschile nel mondo delle Donne Selvatiche è motivata dall’intenzione di rubare le loro ricchezze. Queste fanciulle, come spesso i personaggi che rappresentano la Natura Primordiale, sono infatti custodi di tesori.
L’abitazione ctonia delle Selvatiche, situata cioè nel profondo della terra, i cui elementi caratteristici sono il sottosuolo e le pietre circostanti, è a volte circondata da un ricco mondo vegetativo.
Le loro abitazioni sono austere e profonde, ma il loro mondo è costellato da segni di bellezza, benessere e ricchezza particolari. Non solo per i tesori che a volte custodiscono, per le mandrie di animali radunate nelle loro caverne, per i giardini paradisiaci che le circondano, ma perché nel loro mondo di terra e pietra abbondano i cristalli e le gemme.
Così nella zona al piede del passo del Rombo (Timmelsjoch), che attraversa le Alpi fino a Corvara (Rabenstein) in Val Passiria, tutto brilla di micascisto, una pietra che contiene tanti cristalli di granato rosso. Di questa pietra si dice che è il selciato della Salighe, come si legge nei versi: “Dal passo del Rombo a Corvara, la Selvatica ha messo il suo selciato”.
Anche questa pietra ci aiuta a entrare nel mondo della luce, che è quello delle Salighe, della natura radiosa di energie. Le pietre mandano e riflettono la luce; ma il granato sa anche trattenerla (tanto che un poeta, Remi Belleau, lo definisce “vigliaccamente ombroso”, in confronto all’”impazienza di brillare” del diamante). Qui, le Selvatiche camminano su una pista “di luce ombrosa”, di luce trattenuta. Anzi, la loro capacità di trattenere la luce, senza irradiarla platealmente, anche se la posseggono e vi sono fortemente legate, è parte integrante dell’energia femminile espressa dalla Donna dei Boschi.
La casa delle Donne Selvatiche ci parla di profondità, di relazione con la terra e con la solidità eterna della pietra. Relazione con la ricchezza della vegetazione naturale che le circonda e protegge, e attraverso la quale esse esprimono la loro visione della vita. Riservatezza nelle loro comunicazioni con il mondo esterno. Ferma determinazione a custodire il segreto sul proprio mondo interiore, che può essere mostrato solo a pochi, dopo una precisa iniziazione, e non deve mai essere accessibile a chi vi si rivolge dominato dalla curiosità o dall’invidia.

Da: Donne selvatiche di Claudio Risé e Moidi Paregger