venerdì 17 dicembre 2010

Natale – Yule - Seconda parte


Le attuali decorazioni natalizie richiamano l’antica usanza di mantenere vivo lo spirito della vegetazione con piante sempreverdi. In analogia al Solstizio d’Estate, anche il Solstizio d’Inverno è ricco di simboli vegetali.
L’albero di Natale, l’abete, rappresenta in realtà l’Albero del Cosmo delle mitologie nordiche. Se appendiamo ai suoi rami luci e frutti dorati è per celebrare il mito solare. L’Albero di Natale ha in effetti origini pre-cristiane. Si attribuisce la sua introduzione a Martin Lutero, nella Germania del XVI° secolo, ma la parola tedesca per l’albero non è Kristenbaum bensì Tannenbaum, parola collegata a Tinne o Glas-tin (gli alberi sacri dei Celti). La parola Tin o Tanne era usata per una quercia sempreverde (di qui il nome tannino, l’acido estratto dalla corteccia e usato per la concia delle pelli) e quindi abbiamo un ulteriore rinvio al Re della Quercia.
L’agrifoglio, invece, con le sue bacche rosse allude al sole e ghirlande di agrifogli simboleggiano la Ruota dell’Anno. In certi luoghi delle Isole Britanniche un uomo vestito di nero (colore saturnino!) o con la faccia tinta di nerofumo era il Ragazzo dell’Agrifoglio, la persona designata a entrare per prima nelle case il giorno del Solstizio. Una mazza di agrifoglio era il bastone di Saturno con il quale si uccideva un asino durante i Saturnali. Per le loro associazioni con il Dio dell’Anno Calante, ancora oggi in Irlanda, le decorazioni di agrifoglio vengono spazzate via dalle case dopo Natale perché porta sfortuna conservare i simboli dell’anno vecchio. Tinnìe la parola irlandese per agrifoglio è ritenuta collegata alla parola Glas-Tin che in Cornovaglia significa “albero sacro”: ciò ha fatto ipotizzare che Glastonbury, la località britannica considerata il luogo di sepoltura del mitico re Artù, fosse stata anticamente un bosco di alberi sacri ove magari crescevano agrifogli e querce. L’agrifoglio era collegato folkloricamente all’edera, simbolo di vita e di rinascita a motivo della sua crescita a spirale, e considerato l’arbusto in cui si nasconde lo scricciolo. Nelle antiche usanze britanniche l’edera era utilizzata come decorazione natalizia e si combattevano scherzose battaglie a base di canti satirici tra le Ragazze dell’Edera e i Ragazzi dell’Agrifoglio. Forse ciò rappresentava uno scontro tra la parte dell’anno dominata da una divinità maschile e quella dominata da una divinità femminile. “Fanciulla dell’edera” era chiamato l’ultimo covone di grano mietuto e questo ci conduce al tema agrario e cerealicolo del Solstizio. Lo scrittore Robert Graves riteneva che la foglia a cinque punte dell’edera simboleggiasse il misterioso gruppo delle cinque dee dell’Antica Britannia, le Deae Matronìae che ricorrono in numerose iscrizioni dell’epoca romana e che forse presiedevano i duelli solstiziali dei due Re. Ma è anche probabile che l’edera rappresentasse il nuovo sole, il Dio risorto, dato che era una pianta sacra a Dioniso e a Osiride.
Nel folklore britannico la morte del Re dell’Anno Calante è tuttora celebrata con la caccia e luccisione dello scricciolo (uccello totemico di Saturno) ad opera del pettirosso, l’uccello dell’Anno Crescente. In certe località irlandesi, il 26 dicembre i “ragazzi dello scricciolo”  girano per le case con rami di agrifoglio, chiedendo doni. In altri luoghi a girare sono gruppi di musici adulti, con una piccola effige di uno scricciolo su un ramo di agrifoglio. Non esistono corrispondenti tradizioni estive della caccia al pettirosso, anche se la curiosa credenza irlandese secondo cui i bambini nati alla Pentecoste e ritenuti in pericolo di vita potevano salvarsi se fra le loro mani veniva schiacciato un non specificato uccellino, può suggerire il sacrificio rituale del pettirosso simbolo del Re della Quercia, che si prende la rivincita in inverno. Nei mumming plays irlandesi San Giorgio uccide l’oscuro “Turco”  gridando poi di avere ucciso il suo stesso fratello: luce ed oscurità sono complementari ed inseparabili, così alla fine di queste rappresentazioni folkloriche giunge un misterioso “Dottore” che resuscita con un elisir il personaggio ucciso. Questo equilibrio di buio e luce è stato distorto nel corso dei secoli in una lotta fra bene e male. In molte località europee le campane delle chiese per secoli suonarono il “rintocco funebre del diavolo” nell’ultima ora della vigilia di Natale, avvisando che Cristo stava arrivando per distruggere Satana. Curiosamente, il soprannome inglese del diavolo “Old Nick” ci invia a Nik, un nome del dio nordico Odino, e a San Nicola, che nell’antico folklore cavalcava un cavallo bianco nel cielo, proprio come Odino. Questo santo com’è noto, si è poi trasformato nel Santa Claus americano, l’odierno Babbo Natale e ultima incarnazione del Dio Agrifoglio, l’anno calante, il Saturno vecchio e morente ma dispensatore di doni e di saggezza analogo al dio celtico Bran e come questo signore del benefico caos solstiziale). Babbo Natale vive al Polo Nord e il nord è la direzione simbolica degli spiriti, la terra dei morti. Incidentalmente, in Italia Babbo Natale è sostituito o affiancato dalla Befana, la strega benefica che altri non è che la Vecchia Dea dispensatrice di nuova vita.
Anche la mela, frutto simbolo di Samhain (Capodanno celtico così come il solstizio è Capodanno astronomico), ha giocato un ruolo importante nelle tradizioni solstiziali. Durante i secoli XIV e XV in molte località europee venivano appese mele a rami sempreverdi per usarli in rappresentazioni sacre la vigilia di Natale, chiamata nel Medio Evo anche Giorno di Adamo ed Eva. In queste rappresentazioni sacre i rami con le mele indicavano l’albero dell’Eden. Ma più importante era il significato della continuità della vita spirituale che si manifesta nel continuo ciclo delle stagioni. Nell’epoca più buia dell’anno occorreva mimare il ritorno del sole e un modo semplice per fare questo era adornare rami di sempreverdi con simboli di abbondanza, di luce e di primavera, come frutti e candele accese. L’uso delle mele era molto antico e si ricollegava all’usanza pagana sassone del wassailing (dal sassone wes hai = essere in buona salute) che consisteva nel recarsi di un gruppo di persone nei frutteti al Solstizio d’Inverno con un recipiente di wassail, cioè di sidro bollito e speziato. Il sidro era spruzzato sui rami e versato intorno alla base di un albero scelto a rappresentare tutti gli altri. Danze e canti accompagnavano questo rito che aveva lo scopo di garantire futuri abbondanti raccolti.
Il Solstizio d’Inverno cela tra le sue molteplici manifestazioni anche quelle legate ad un simbolismo granario. San Girolamo, che visse a Betlemme fra il 386 e il 420, scrisse che là c’era un bosco sacro ad Adone o Tammuz, come era chiamato in Palestina. Tammuz, amato dalla dea Ishtar, è il tipico dio morente e risuscitato, Signore della vegetazione e del grano. La religione cristiana assimilò ben presto questo simbolismo nel sacramento dell’eucarestia. La risonanza del ciclo del grano con quello del sole si riflette ancora in molte usanze, come quella scozzese di conservare fino a Yule la Fanciulla del Grano, la bambola costruita con le spighe dell’ultimo covone mietuto, per poi darla come cibo al bestiame per farlo prosperare. Oppure, nell’usanza, diffusa in molte regioni europee, di spargere le ceneri del ciocco di Natale sui campi di grano.
La tradizione del ciocco è quella che, forse più di tante altre, ha fuso in unico simbolo il mito della luce solare e quello del dio che muore per rinascere dalle proprie ceneri. Il ceppo, di solito di legno di quercia (l’albero del Dio dell’anno crescente, trionfante al Solstizio d’inverno…), veniva portato nelle case la sera della vigilia, ornato di sempreverdi e annaffiato di vino, per essere acceso nel caminetto dal membro più giovane o più anziano della famiglia (il nuovo o il vecchio sole…) Spento il giorno dopo, veniva riacceso ogni sera nelle fatidiche 12 notti fino all’Epifania.  La cenere era sparsa intorno all’orto contro i parassiti o sulle travi di casa a protezione dai fulmini.  I carboni erano riaccesi quando minacciava la grandine. Il pezzo che restava era utilizzato per accendere il ciocco dell’anno successivo, a simboleggiare la forza della vita che passa da una modalità dell’esistenza all’altra, in un ciclo senza fine.
In Scozia e Cornovaglia si bruciava un ceppo con una figura umana rozzamente scolpita su di esso, vestigia di un antichissimo sacrificio divino. Il ciocco ci riconduce al simbolo del pettirosso tramite una curiosa credenza. Il nome inglese dell’uccello, Robin Redbreast, richiama infatti Robin Hood e Hood significa ciocco di legno. Nel ciocco di legno di quercia si credeva risiedesse questo spirito. “Cavallo di Robin Hood” era chiamato il pidocchio del legno che fuggiva quando il ciocco veniva acceso; Robin stesso fuggiva dal camino in forma di pettirosso  e a Yule si muoveva contro il Dio dell’Anno Calante. Per gli antichi Ittiti il dio Alalu, il cui nome significa ciocco, personificava il destino. Così il ciocco ci riconduce al significato più autentico della festa solstiziale: il grande cerchio dell’essere dove buio e luce, morte e vita, passato e futuro si intrecciano e si trasformano l’uno nell’altro in quella eterna danza cosmica che è il destino di tutto ciò che esiste. La pianta sacra del Solstizio d’inverno è il vischio, pianta simbolo della vita in quanto le sue bacche bianche e traslucide somigliano allo sperma maschile. Il vischio, pianta sacra ai druidi, era considerata una pianta discesa dal cielo, figlia del fulmine, e quindi emanazione divina. Equiparato alla vita per la sua somiglianza allo sperma, ed unito alla quercia, il sacro albero dell’eternità. Questa pianta partecipa sia del simbolismo dell’eternità che di  quello dell’istante, è simbolo di rigenerazione ma anche di immortalità. I druidi tagliavano ritualmente ai solstizi i rami di vischio con un falcetto d’oro, strumento che univa in sé il simbolo del sei e quello della luna. La pianta era chiamata il tutto-sana (in gaelico irlandese uile-iceadh, in gaelico scozzese uil-ioc), medicina universale, dono del risanante momento dell’eternità. Ancora adesso baciarsi sotto il vischio è un gesto propiziatorio di fortuna e la prima persona a entrare in casa dopo il solstizio deve portare con sé un ramo di vischio. Queste usanze solstiziali sono state trasferite al primo gennaio: il Capodanno dell’attuale calendario civile.

Da Feste pagane di Roberto Fattore, Macro Edizioni

Nessun commento:

Posta un commento