giovedì 23 dicembre 2010

Natale - Yule nelle terre celtiche


Deuoriuos (?)
Alban Arthan (Solstizio d’inverno, Natale)
21 (25 dicembre)

Una delle feste identificate per nome nel calendario di Coligny è Deuoriuos Riuri. Se M. Kerjean-Lemaître ha tradotto correttamente il termine Riuros come “mese del gelo” (per analogia col gaelico reo, gallese rhew, bretone riv), facendolo corrispondere all’incirca col mese di dicembre, allora Deuoriuos  (Deuo-ri-uos, “grande festa divina”) parrebbe coincidere col Solstizio d’Inverno ed essere così l’antico nome celtico di questa festa (sebbene oggi non vi sia consenso unanime in tal senso tra gli studiosi).
Tutte le feste solari derivano la propria importanza rituale da un fenomeno astronomico totalmente prevedibile: il mutevole rapporto di lunghezza tra giorni e notti, che noi scegliamo di celebrare alle estremità e ai punti mediani.
Quale sarebbe una reazione tradizionale celtica alle necessità rituali di questa fase dell’anno? Da una parte, la questione è complicata dal preponderante influsso del Natale, sia come fenomeno religioso che commerciale. In quest’epoca non esiste ovviamente una comunità celtica che non associ il Solstizio d’Inverno prima di tutto col Natale e con l’immaginario che la cultura dominante vi ha associato tramite istruzioni e mezzi di comunicazione. Sepolto sotto lo strato imposto dalla cultura di massa, troviamo solitamente qualche elemento che ci riporta alla storia antica della comunità, ma si tratta nei migliori casi di una vita debole che non sta in piedi da sola, poiché raramente si ritiene sia qualcosa di più di un’aggiunta locale alla celebrazione della festa sopranazionale moderna.
D’altra parte, però, dato che l’osservanza del Solstizio d’Inverno si basa non su un’eredità sociale di una qualche cultura particolare, ma su una risposta generale a un fenomeno esterno non specifico a livello culturale, si assiste a una significativa aderenza agli schemi rituali della celebrazione, almeno in Occidente. Si trovano ovunque elementi che drammatizzano il potere della luce nell’oscurità, che si tratti delle luci degli alberi di Natale, di fuochi o di candele. E lo stesso vale per l’incoraggiamento della solidarietà familiare e per lo scambio dei doni. Anche i temi mitologici che servono a convalidare la celebrazione tendono ad avere un profilo simile: un Figlio della Luce (il Sole che ritorna) nasce nel momento più buio in circostanze precarie, ma se lo abbracciamo con affetto e amore gli è concesso di crescere e infine di rivelarsi nella stagione luminosa. Che si pensi al bambino come Gesù o a Lugh oppure a Mabon (per quanto tale questione possa sembrare importante in termini di fedeltà religiosa personale) non fa in pratica alcuna differenza. E così gli strati successivi di immaginario che coesistono nelle tradizioni di Solstizio di una comunità tendono tutte a rafforzarsi a vicenda, e non vi è ragione per rigettarne nessuna come “straniera” e quindi negativa.
Le versioni native del mito del Figlio della Luce (che conosciamo sia dalla letteratura medievale che dal folklore recente) sono incentrate sulla rinascita del Maponos, “il Grande bambino” o “Grande figlio”, il giovane dio dell’Estate che domina il regno dell’esperienza samos e che è morto o altrimenti sparito a Samhain. Nel racconto Culhwch e Olwen, egli è ancora chiamato col suo nome antico, Mabon ap Modron, “Grande Figlio della Grande Madre”, rapito “quando aveva 3 notti” (cioè dopo il completamento dell’abituale periodo rituale di tre notti) “tra sua madre e il muro” e liberato appena in tempo per ricoprire un ruolo necessario nel salvare la Fanciulla dell’Estate, Olwen, dal controllo del padre, gigante della terra. Nei Mabinogi egli appare anche come Pryderi, rapito alla nascita alla madre Rhiannon da un artiglio dell’Altromondo e riscoperto soltanto nella notte del Primo Maggio. E se accettiamo il fatto che il Dio Lugh, che adempie a una funzione mitologica differente, condivide numerosi tratti con il Maponos, troveremo il medesimo schema nella storia della sua nascita: nelle fonti popolari irlandesi si narra che il suo padre segreto è Cian (uno dei Tuatha Dé Danann, gli dei “tribali”) e la madre Eithne, figlia di Balor (il campione dei Fomori o giganti della terra); egli nacque per adempiere a una profezia secondo cui Balor sarebbe stato ucciso dal proprio nipote; così il bambino, per sfuggire alla paura assassina di Balor, dovette essere rapito alla nascita, affidato a Manannan Mac Lir, che presiede il Banchetto dell’Altromondo nella Terra delle Mele, e alla regina del Leinster Tailltiu, finché fu grande e forte abbastanza da sfidare Balor e compiere il suo destino. Anche nella più scarna versione gallese troviamo un’eco di questo: Lleu è nato come una “cosa” non formata dalla madre vergine ignara, Arianrhod, e viene subito portato via dallo zio Gwydion, il quale lo nasconde per rivelarlo in seguito con tutti gli attributi. Inutile ripetere qui la storia di Gesù Bambino, nato nell’oscurità, fatto sparire in Egitto per  sfuggire all’ira del re Erode, quindi tornato in tutta la sua potenza per redimere il mondo; questa storia fa parte della tradizione celtica da oltre mille anni ed è così vicina ai racconti nativi che, invece di competere con esse, continua a dar loro potere mantenendoci in contatto con lo schema mitico che esprimono.
Nonostante sia la notte più lunga a dare al Solstizio d’Inverno la sua importanza rituale, la celebrazione vera e propria non si limitava a quell’unica giornata, ma si estendeva per un periodo più o meno lungo, andando talvolta oltre i familiari “dodici giorni d Natale” fino a coprire anche tre settimane intere! Nella società rurale tradizionale non si trattava di una festa intima da trascorrere in famiglia com’è diventata oggi, ma coinvolgeva numerose attività comunitarie, spesso eseguite all’aperto. Queste ultime, tratte in modo eclettico da svariati influssi culturali, variavano da comunità a comunità, sebbene comprendessero di solito eventi sportivi, musica, processione, divinazione, e ovviamente un sacco di roba da mangiare e da bere. Il costume di bruciare il tronco di Yule, sebbene d’origine germanica, si naturalizzò in alcune aree celtiche prendendo talvolta le caratteristiche che ne hanno assicurato la continuità con la tradizione celtica precedente. In alcune parti della Scozia, per esempio, il tronco veniva scolpito nella forma di una donna, la Cailleach Nollag (“Megera di Natale”), e il suo lento bruciare su un fuoco di torba rappresentava la sconfitta della Dea nel suo aspetto sterile e minaccioso: i giorni del Suo regno erano contati, grazie alla nascita del Figlio della Luce.

Da: Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica, di Alexei Kondratiev


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