Le Tre Sorelle del Wyrd erano comuni a tutte le culture nell’antica Europa occidentale: venivano chiamate le Tre Norne nella cultura scandinava, le Parche nella mitologia romana e le Moire in quella greca. La loro immagine è molto forte e peculiare (non esistevano i Fratelli del Wyrd) ed era così diffusa da superare le barriere linguistiche tra i vari ceppi tribali. Perciò possiamo concludere che i Greci, i Romani e gli europei nordoccidentali condividevano alcune idee fondamentali su queste tre figure fondamentali onnipotenti attestate almeno a partire da seimila anni fa.
In un antico poema islandese le Norne sono descritte mentre arrivano in un luogo che si chiama Bralund, dove assistono una donna di nome Borghilde mentre dà alla luce il figlio Helgi, un futuro re:
Poi venne Helgi, dal cuore generoso,
nato in Bralund da Borghilde.
Era calata la sera quando giunsero le Norne,
dispensatrici dei giorni futuri per il principe:
il suo destino, predissero, sarà di conquistare la fama
e di essere creduto il più ardimentoso dei re.
Là, nella vasta corte di Bralund
tesserono i fili del suo eccezionale destino:
allungarono i filamenti dorati e li annodarono sotto la dimora della luna.
In questa visione molto bella e solenne le Sorelle del Wyrd arrivano di notte, alla luce della luna, e predicono il destino del bimbo: Helgi sarebbe diventato famoso come “il più ardimentoso dei re”. Poi tesserono i fili che avrebbero creato lo svolgimento della sua vita, facendo avverare il pronostico sul suo avvenire. Questi fili, che connettono e racchiudono energia, sono immaginati come filamenti d’oro, che per la loro natura e per il modo in cui sono annodati, creano alla nascita uno schema di vita per il neonato. Vengono allungati e annodati “sotto la dimora della luna”. Questa poetica immagine dorata ci colpisce. Il nostro destino è visto come un intreccio di fibre dorate e scintillanti legate alla luna. Fili d’oro che si allungano dalla sede della luna, forse che si estendono persino dalla singola persona fino alla luna: è una visione in cui il destino di una persona può essere scorto nel cielo notturno, come le esili strisce di luce che si formano quando si guarda la luna con le palpebre socchiuse. Forse l’ordito del destino era tessuto dell’attrazione gravitazionale della luna; come muove le maree nei grandi oceani, così muove il liquido dei nostri cervelli e dei nostri corpi.L’immagine è inoltre collegata allo svolgimento della vita individuale di ciascuno. La parola anglosassone “gewaef” significa “tessuto” e il vocabolo affine “gewif” significa “fortuna”. Tessitura e destino, nell’immaginario dei nostri antenati, erano la stessa realtà. Essi immaginavano che nell’indole di ciascuno di noi alla nascita fosse stato creato un ordito che stabiliva il corso della nostra vita e che era stato intrecciato con filamenti dorati dalle Sorelle del Wyrd. L’idea si basa sulla pratica del filare e del tessere che erano aspetti importanti nella vita quotidiana delle popolazioni tribali dell’antica Europa. Certamente questa concezione presenta qualche somiglianza con quella delle tribù Kogi della Colombia, la cui suggestiva cosmologia è sopravvissuta fino a oggi ed è stata ampiamente divulgata in anni recenti. I Kogi credono che la Terra sia un vasto telaio nel quale il sole tesse due pezze di stoffa ogni anno. L’asta superiore del telaio è data dal percorso apparente del sole lungo il cielo al momento del solstizio d’estate, mentre l’asta inferiore rappresenta il suo cammino durante il solstizio d’inverno. L’intreccio al centro è il punto di intersezione delle diagonali intrecciate dai punti dove il sole sorge e tramonta durante i due solstizi. Sembra che i nostri antenati europei abbiano pensato a un isoformismo tra l’esistenza individuale e il movimento delle grandi forze dell’universo. Il telaio della vita su scala macrocosmica era identico al telaio delle vite individuali. I percorsi del sole e della luna erano connessi inestricabilmente a quelli della nostra vita individuale e formavano lo schema unico di svolgimento delle nostre esistenze. Così si esprime l’artista e scrittrice Monica Sjöö, parlando in generale delle concezioni del mondo dei popoli indigeni: “La mente cosmica e quella umana non sono essenzialmente diverse o separate così come non lo sono il corpo cosmico e quello umano. Tutto è interconnesso in una vasta trama… una tessitura universale in cui ogni cosa individuale o forma vitale è come un nodo di energia o punto di congiunzione tra le vibrazioni del modello universale”. Nei procedimenti familiari che stavano alla base della produzione dei tessuti per i vestiti, le coperte, gli arazzi e così via, si può scorgere un’ulteriore espressione dell’idea che la vita sia costituita dall’intreccio dei fili delle fibre. La filatura e la tessitura, attività di esclusiva pertinenza femminile, implicavano l’idea che le nostre vite individuali sono strutturate dalla filatura alla nostra nascita di sottili strisce di fibre, che con i loro avvolgimenti e intrecci ci mantengono lungo un certo percorso, tessendo per noi lo schema della vita. I popoli dell’antica Europa indossavano abiti di lino o di lana. Il lino è una fibra proveniente dal gambo del lino, una pianta dai fiori azzurri che produce un materiale di colore chiaro. Ma il materiale più usato era la lana, ricavata dalle pecore. La tosatura delle pecore era fatta soprattutto dagli uomini. Le donne lavavano e pettinavano la lana, poi la filavano e la tessevano. La filatura era eseguita da una donna che con le dita assottigliava la lana girando il filo intorno a un fuso. Il fuso veniva fatto roteare su se stesso in modo da torcere il filato e da renderlo più robusto. I telai per la tessitura erano verticali. Dalla cima del telaio pendevano fili di lana tenuti in tensione da alcuni pesi: questo era l’ordito. Fili alterni dell’ordito venivano attaccati a una sbarra di legno chiamato liccio. Il liccio era mobile. Spostandolo verso di sé la donna tendeva i fili che vi erano attaccati in modo che si trovassero davanti agli altri pendenti dalla cima del telaio. La donna poi faceva scorrere un filo orizzontale, detto filo della trama, da un capo all’altro fra i due gruppi di fili dell’ordito, iniziando dalla cima del telaio. Poi la donna allontanava da sé il liccio. Questo movimento consentiva ai fili attaccati al liccio di passare dietro agli altri fili pendenti del telaio. La donna a questo punto riportava indietro il filo della trama nello spazio creatosi tra i fili attaccati al liccio e i fili pendenti dal telaio. Questa azione veniva ripetuta più e più volte e la donna spingeva verso l’alto i fili della trama per rendere compatto il tessuto che aveva già intrecciato. Scavi archeologici in tutta Europa hanno portato alla luce molti esemplari di attrezzi usati dalle donne per questo lavoro, compresi fusi, forbici, scatole da lavoro, aghi e pesi dei telai ossia quegli anelli di terracotta che venivano legati ai fili dell’ordito per tenerli in tensione. Ma filare e tessere per le donne della cultura del Wyrd significavano qualcosa in più che la semplice produzione di indumenti e di coperte, per quanto questo aspetto materiale fosse importante; il loro rapporto con quel lavoro era simile a quello che vediamo esistere ancora oggi in molte culture indigene sopravvissute. A esempio fra gli indiani Navajo del Nordamerica le tessitrici “si considerano ispirate direttamente dalla Grande Donna Ragno, la tessitrice originaria dell’universo”. Le coperte tessute vengono considerate espressioni organiche dei poteri speciali delle donne tessitrici. “Ogni coperta con il suo suggestivo disegno ha un significato spirituale e si pensa che offra potenza e protezione a chi la indossa”. Nei tessuti antichi si usava un linguaggio figurativo altamente simbolico per comunicare miti e leggende. Filare e tessere erano attività investite di poteri magici e in numerosi sacelli neolitici dedicati a una divinità femminile sono stati trovati fusaioli con iscrizioni. Nella cultura dell’antica Europa le Tre Sorelle erano le “tessitrici originarie dell’universo”. Erano anche note come le Figlie della Notte e vivevano in uno spazio sacro in una caverna vicino a una pozza nella quale sgorgava copiosamente acqua pura. La piscina era alla base dell’Albero del Mondo, dove le Sorelle filavano di notte alla luce della luna. I loro fili formavano i destini degli individui; erano i fili della vita. La creazione, la lunghezza e il termine della vita di ogni individuo ricadevano sotto il loro dominio. Le Parche, le tre sorelle del mito greco, avevano ciascuna una sua funzione: una filava, l’altra misurava la lunghezza dei fili e la terza li tagliava. È probabile che si credesse che le Sorelle del Wyrd agissero allo stesso modo: una creava i fili d’oro, l’altra li stendeva in maniera che riflettessero e determinassero lo svolgimento della vita e una terza li tagliava e con ciò stabiliva l’estensione di ogni filo e perciò la durata di ciascuna vita. Nei miti islandesi una delle tre sorelle si chiamava Urdr, che significa “Wyrd”, svolgimento della vita. Un’altra si chiamava Verdandi, participio presente del verbo verda, che significa “essere” o “divenire”. Forse potremmo chiamarla l’Essere. “Essere” nel Wyrd è uno stato della vita. La terza si chiamava Skuld, che significa qualcosa di dovuto, un debito da saldare, un obbligo da adempiere. Talvolta queste tre grandi forze vengono compendiate sotto la rappresentazione del Fato, dell’Essere e della Necessità. Le sorelle sono responsabili del destino di un individuo alla sua nascita e stabiliscono anche la conclusione della sua vita. Talvolta sono raffigurate come se decidessero il destino degli uomini durante le battaglie. L’obbligo, il debito di Skuld poteva rappresentare la morte… la riscossione dei debiti della vita di ciascuno al momento designato per la morte. In un racconto che si intitola Njal’s Saga ci si riferisce alla morte come “a un debito che tutti dobbiamo pagare”. Certamente un aspetto importante del dominio delle sorelle sembra essere quello che esercitano sul termine della vita e questa testimonianza lo conferma. Ma la morte è un debito pagato a chi? L’implicazione avvincente è che la vita sia un dono, o almeno un prestito, che costituisca un debito che abbiamo contratto e che infine onoreremo con la nostra esistenza o meglio con la morte. Le datrici della vita sono le Sorelle del Wyrd e perciò sembra che il debito venga pagato a loro. E poiché le Sorelle del Wyrd rappresentano forze di equilibrio nel cosmo – la Terra e il cielo –, è a questo principio cosmico “che dobbiamo la nostra vita”. La vita che conduciamo porta con sé una responsabilità, come se dovessimo qualcosa a qualcuno. Alla Terra? Gli intrecci dei fili che manifestano le forze nascoste dell’universo vengono anche tessuti in schemi del destino per le nostre vite individuali. Ma si tratta di un’idea molto diversa dalla nozione di libero arbitrio adottata inconsciamente dalla maggior parte di noi nel mondo occidentale; sembra piuttosto un’idea simile al determinismo e ci fa sentire a disagio. Come si ponevano i nostri antenati davanti a questo problema? Esistono tra le persone differenze naturali circa il grado in cui ciascuna di esse attribuisce gli avvenimenti della propria vita al mondo esterno o alle proprie azioni. Nel complesso concepiamo la nostra vita quotidiana come una lotta della nostra volontà libera per ottenere scopi che sono alla nostra portata. Affrontiamo i rischi, combattiamo contro i condizionamenti sociali, cerchiamo di dominare i dubbi e le paure interiori. Sentiamo di disporre del libero arbitrio di forgiare il nostro destino, la nostra fortuna e in base a questa idea accettiamo la responsabilità dei nostri difetti, dei nostri fallimenti, dei sogni infranti. Questa libertà può essere crudele, punitiva e negatrice della vita. Ma noi la abbracciamo comunque, perché l’idea opposta ci sembra il determinismo e pensare che le nostre vite siano preordinate e già disposte su un percorso prefissato ci sembra agghiacciante; la concezione deterministica non lascia spazio per il nostro agire. Per noi il libero arbitrio è la libertà di scegliere. Fatto interessante, quando cominciamo a sentire che le nostre vite sono largamente determinate, che le forze schierate contro di noi sono schiaccianti, che gli esiti sono inevitabili e al di là della nostra capacità di controllo, il nostro stato psicologico viene speso etichettato come stato depressivo. L’idea che noi possediamo il libero arbitrio dipende in certa misura dall’idea che siamo in grado di condurre la nostra vita razionalmente e logicamente, assumendo decisioni consapevoli. Oggi, nel mondo degli affari, nell’esercito, nell’istruzione siamo sempre più indotti a cercare di comprendere la nostra vita costruendo modelli di un tale supposto processo decisionale razionale mediante il ricorso al linguaggio dei calcolatori. Pensiamo ai nostri processi cognitivi in termini di elaborazione dati, di programmi logici, di immissione e uscita, di informazioni di ritorno e così via. L’idea che il nostro pensiero funzioni come un computer rafforza il presupposto che noi siamo esseri che prendono decisioni logiche basate su informazioni concrete. E quando commettiamo errori, quando la nostra vita prende direzioni diverse da quelle che avevamo scelto consapevolmente, supponiamo che sia così perché le nostre informazioni non erano corrette o perché non erano sufficienti o perché abbiamo sbagliato nel valutare il peso e la dimensione di quella scatolina dentro di noi che chiamiamo le “emozioni”. Ma ovviamente un’altra concezione è che le nostre vite siano tutt’altro che logiche. Siamo dominati da passioni profonde, da desideri, paure e cupidigie, da impulsi potenti che riconosciamo a fatica e che affiorano nel profondo nei nostri sogni per poi ripiombare nel buio. E anche se possiamo essere consapevoli di questo aspetto e assumere le nostre decisioni nel modo migliore, non riteniamo che quelle funzioni cognitive di cui siamo consapevoli siano gli unici fattori o anche i fattori primari che tessono la trama della nostra vita. Ma la distinzione tra libero arbitrio e determinismo è troppo schematica e riduce a un’antitesi semplicistica un paesaggio sconfinatamente più ricco e complesso di energie che interagiscono e che fluiscono senza sosta.
Da: La sapienza di Avalon di Brian Bates