mercoledì 9 febbraio 2011

La ragazza che non aveva paura di nulla – Prima parte

I Goblin
Sono poche le informazioni riguardanti i Goblin.
Si dice siano parenti dei Folletti. Ne esistono di due specie, una benevola e una malevola.
I Goblin benevoli sono i più piccoli, alti solo 40/50 cm, sono di corporatura esile, con mani ossute e lunghe braccia e gambe, hanno una pelle verdognola e sono molto rapidi. Si dice che questa singolare razza di Folletti viva nelle miniere di stagno del Devon e della Cornovaglia, dove li chiamano i "Picchiettanti" a causa del picchiettio che provocano quando vogliono indicare una vena particolarmente ricca.
I Goblin malevoli, invece, sono alti 50/60 cm, più grassocci ma non meno rapidi, hanno la pelle scura e lunghi artigli. Sono creature infide, esibizioniste e alquanto stupidi. Queste creature sono le più diffuse, amano fare i dispetti e torturare fin quasi alla morte le proprie vittime. Talvolta si camuffano sotto forma di animali, mostrando il loro lato bestiale. Sono i ladri e i mascalzoni del Piccolo Popolo e si cibano di carne avariata.
Non lasciano stare nemmeno le anime dei morti che vagano alla vigilia di Ognissanti, perseguitandole nel loro vagare.
Uno dei loro "scherzi" preferiti è donare (o vendere) i frutti proibiti del Regno delle Fate agli uomini, C. G. Rossetti ne: "Il mercato dei Folletti" così dice:
“Non si devono guardare i Goblin,
E neppur comprare i loro frutti;
Chissà su che suolo hanno cibato
Le radici assetate e affamate?”


C’era una volta una ragazza che niente e nessuno avrebbe potuto spaventare. Questo, almeno, era ciò che i suoi compaesani pensavano di lei. La ragazza viveva tutta sola in una piccola fattoria nella foresta. La madre era morta quando era ancora piccola e il padre, che passava gran parte del suo tempo alla taverna del villaggio, non se ne era mai preso cura. Un giorno, poi, se ne andò definitivamente e mai fece ritorno.
Poiché la ragazza non aveva altri parenti, i compaesani cercarono di convincerla che sarebbe stato più prudente andare a vivere nel villaggio piuttosto che starsene tutta sola nella casa nella foresta.
“Perché dovrei lasciare questa casa?” domandava la ragazza. “Sto benissimo dove mi trovo.”
“Ma come!” si stupivano i paesani. “Non hai paura a vivere tutta sola in mezzo alla foresta? Chiunque, al posto tuo, tremerebbe!”
“Pensa a tutti gli animali che vivono nei dintorni!” insistevano.
“Sciocchezze!” rispondeva la ragazza. “Sapete benissimo anche voi che non ci sono bestie feroci nel nostro territorio. Al massimo qualche cervo, lepri in cerca di radici o volpi a caccia di galline.”
I paesani rimasero della loro opinione e continuarono a essere molto preoccupati per la ragazza. Nella vasta e tenebrosa foresta poteva accadere di tutto! Nessuno sapeva cosa poteva nascondersi nei suoi oscuri anfratti ed era possibile vi fossero celati pericoli ben più gravi degli animali selvatici.
“Quali pericoli?” chiedeva la ragazza.
I paesani sussurravano a mezza voce: “Il Piccolo Popolo!”
“Goblin, gnomi e creature simili!” rispondeva lei con una risata. “Sono solo chiacchiere messe in giro per spaventare i bambini!”
La gente era sconvolta nel sentirla pronunciare parole del genere: possibile che non credesse davvero all’esistenza dei folletti? A quella domanda la ragazza non rispondeva: che esistessero o meno, a lei poco importava.
I paesani finirono per desistere. Era davvero cocciuta ma – bisognava ammetterlo – nonostante fosse una ragazza era proprio coraggiosa. Così cominciarono a parlare di lei come della ragazza che non aveva paura di nulla.
E quello che poteva sembrare solo un modo di dire era, in effetti, la verità.
Di cosa doveva aver mai paura? Il suo cane e il gatto sapevano bene come tenere lontano dal giardino e dal pollaio lepri e volpi. E se un orso (che, comunque, nella foresta non si era mai visto) fosse venuto a curiosare tra le sue arnie, l’avrebbe sistemato per bene, rimandandolo da dove veniva a suon di calcioni. Nel caso dei folletti o altre creature del bosco, ammesso che ce ne fosse veramente qualcuno, li avrebbe ignorati e ognuno si sarebbe occupato dei fatti suoi.
La ragazza non aveva niente da chiedere più di quanto avesse: la casa e il giardino a cui badare, la vacca e due pecore, le galline e le api, il cane e il gatto erano più che sufficienti a riempirle le giornate.
Anche se nel corso di un intero anno era ben raro che le accadesse di vedere del denaro, non ne sentiva la mancanza: nella bottega del villaggio era in grado di scambiare i prodotti della sua fattoria con quello che non poteva coltivare o fare di persona. Vivendo in questo modo, a cosa le sarebbero serviti dei soldi? Con il suo buon carattere riusciva a essere di buon umore dal mattino alla sera.
Un giorno, uno dei ragazzi del villaggio la vide per strada e si rese conto che era di gran lunga la più bella ragazza della regione. Dopo averla osservata attentamente, pensò che era ormai entrata nell’età in cui poteva cominciare a pensare al matrimonio. Il ragazzo raccontò della bellezza della fanciulla a un paio di amici e questi, a loro volta, diffusero la notizia tra gli altri giovani del paese così che, nel giro di poco tempo, una folla di giovanotti si riunì alla sua porta, ognuno cercando di mettersi in mostra. Come uno sciame d’api le ronzavano intorno perché si decidesse a sceglierne uno per marito.
In verità, un solo ragazzo non partecipò alla gara: Wully, il figlio del tessitore, che aveva un piccolo croft sulla collina nei pressi della foresta. Quando uno dei ragazzi lo informò della bellezza della giovane e di come fosse ormai in età da marito, rispose che già lo sapeva, e anche da tanto tempo. Quando poi gli chiesero se intendeva corteggiarla, rispose di no: preferiva aspettare il momento più adatto; e si avviò verso il suo podere perché doveva accudire le pecore. La risposta lasciò sconcertati gli altri giovani, che lo giudicarono per lo meno stravagante.
La ragazza respinse tutti coloro che la chiesero in sposa.
“Perché dovrei?” rispondeva loro.
Per essere meglio protetta? Non aveva mai avuto difficoltà a cavarsela da sola e, in ogni caso, c’era il suo cane. Per interesse? Il denaro non le serviva. Per amore? A questa domanda rispondeva sorridendo: prima avrebbe dovuto incontrare il ragazzo che faceva per lei, poi avrebbe preso una decisione. Per ora, andava bene così.
Poco a poco, tutti i giovanotti della zona finirono per accettare l’idea di non poterla conquistare e, con un certo sollievo, la ragazza tornò alla sua vita e alle sue abitudini.
Non mancarono quelli che andarono a commentare l’accaduto con Wully, il figlio del tessitore. Aveva fatto bene a non sprecare il suo tempo con una fanciulla così cocciuta, dicevano, ma non era comunque normale che una ragazza non avesse paura di nulla.
Wully non rispondeva, limitandosi a borbottare: “Beh, staremo a vedere”, prima di tornare ad accudire le sue pecore.
Trascorsero giorni e settimane, finché una sera la ragazza tolse dallo scaffale della cucina il vaso con la farina di avena con cui voleva preparare le focaccine per cena.
“Perbacco!” esclamò. “Ho quasi finito la farina! Anche grattando il fondo del vaso non avrò più avena per il porridge di domani mattina.”
Pnesò che le conveniva portare, quella sera stessa, un sacco di avena da macinare da Hughie, il mugnaio.
Così, dopo aver cucinato e mangiato le focaccine, andò al capanno che le serviva da dispensa, riempì un sacco, se lo mise sotto braccio e si diresse verso il mulino. La ragazza immaginava che sarebbe stato piacevole fare una passeggiata in una sera così dolce e luminosa.
Purtroppo, quando arrivò al mulino, lo trovò sprangato. Provò a bussare alla porta di casa del mugnaio ma anch’essa era chiusa. L’uomo era partito con tutta la famiglia per far visita a dei parenti; nessuno, quindi, avrebbe potuto macinare l’avena per lei. Deposto il sacco con l’avena, la ragazza si sedette sul gradino della casa per riflettere.
L’altro mulino nei paraggi, quello del mugnaio Lachie, nei pressi del villaggio successivo, si trovava pur sempre a una bella distanza. Aveva molto cammino davanti a sé e il crepuscolo era ormai calato, ma dovendo procurarsi la farina per il porridge della mattina dopo, riprese il sacco di avena e si avviò.
Giunse alla casa del mugnaio Lachie che era notte fonda; il buio era fitto come all’interno delle caverne di Cruachan. Il mulino di  Lachie appariva immobile nella notte, con la porta chiusa da un chiavistello. La ragazza, però, scorse una sottile striscia di luce che filtrava dalla casa del mugnaio proprio lì accanto. Si avvicinò e bussò alla porta.
Venne ad aprire il mugnaio, che nel vederla rimase muto per la sorpresa.
Ho portato un sacco di avena da macinare” disse la ragazza.
Il mugnaio taceva, continuava a fissarla.
“Mi spiace disturbarti a quest’ora” dovette insistere, sia pure con gentilezza. “Ho finito la farina e non ho più nulla per la colazione domani mattina.”
A quest’ora di sera non si macina niente!” rispose infine il mugnaio. “Torna domattina.”
La ragazza, però, era testarda: “Ti dico che non ho più farina in casa” ripeté con impazienza. “Devi macinare la mia avena per il porridge di domani mattina.”
“Vuol dire che tornerai qui a digiuno” concluse il mugnaio, “perché ti ho già detto che di notte non si macina proprio un bel niente!”
“Allora dammi la chiave del mulino” ribatté la ragazza. “Macinerò l’avena per conto mio!”
“Ascoltami bene!” gridò il mugnaio, davvero infuriato. “Non macinerò la tua avena né ti darò la chiave del mulino! E aggiunse: “Non sai che quando qualcuno macina di notte, un goblin grosso e mostruoso compare all’improvviso, ruba la farina e riduce il poveraccio a un ammasso di ossa rotte?”
“Sono soltanto sciocche frottole! Me la rido del tuo globlin!” gridò la ragazza. “Goblin o non goblin, macinerò la mia avena!” concluse con determinazione. “Voglio la chiave!”
(Continua)

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