Ci sono fate o folletti che quando fanno un grosso favore chiedono in cambio il bambino di chi aiutano, ma se colei o colui che viene aiutato indovina il loro nome non lo portano via. Nelle storie tramandate il nome viene carpito nel luogo in cui vive la fata o il folletto poiché lei o lui lo canticchiano ad alta voce. C’è un episodio identico nella fiaba La figlia del mugnaio dei Fratelli Grimm che si può vedere su youtube. L’episodio ha inizio da questo spezzone: http://www.youtube.com/user/Leo9944#p/u/5/3lWF8SmsEVQ
Quando si sa il nome di una fata o di una divinità la tieni in tuo potere, come avviene nell’antico poema gallese Cad Goddeu (La battaglia degli alberi), in cui vince chi scopre il nome segreto della divinità venerata dal popolo nemico.
Whuppity Stoorie
In una casetta di pietra vivevano un tempo una donna e il suo bimbo. La casa si trovava in collina, a Kittlerumpit, vicino a un grande bosco di pini; quel luogo, stando a quanto si racconta, si trovava nell’area tra l’Esk e il Sark, due fiumi nel sud-ovest della Scozia che delimitano una regione lungamente contesa all’Inghilterra.
Un giorno il marito della donna lasciò Kittlerumpit per andare al mercato. Nessuno lo aveva visto né avrebbe potuto dire cos’era accaduto, fatto sta che non fece più ritorno. Si sparse la voce che si fosse arruolato volontario nell’esercito, poi che fosse stato rapito da una di quelle bande che battevano le campagne per reclutare con la forza e l’inganno i giovani che si lasciavano convincere ad alzare il gomito in loro compagnia. Ad ogni modo, tutti si convinsero che fosse finito su una nave, ormai in acque lontane.
Rimasta sola, la moglie si trovò in difficoltà. Oltre al figlio a cui badare non le restava che una scrofa. Nonostante i vicini si fossero dichiarati immensamente dispiaciuti per l’accaduto, nessuno le dava concretamente un aiuto. Tuttavia la donna non si lasciò scoraggiare. La scrofa era tutto ciò che possedeva? Bene, l’animale era prossimo a partorire, e lei sperava che nascessero tanti e tanti porcellini da poter allevare e ingrassare, fino a che fossero pronti per esser venduti al mercato.
Accadde invece che un mattino, recandosi al truogolo della scrofa per riempirlo di foraggio, la donna trovò la povera bestia agonizzante. La scrofa grugniva sdraiata su un fianco come se stesse per andarsene da questo mondo. La vista dell’animale in quello stato gettò la donna nella disperazione. Forse nemmeno il giorno in cui aveva perso il marito aveva pianto tanto.
Dopo esser stata seduta per un po’ in un angolo della stalla, si asciugò gli occhi e vide una strana figura venirle incontro. Una vecchia stava arrampicandosi lungo il pendio della piccola valle che si stendeva ai piedi della casa. Aveva un vestito verde con un piccolo grembiule bianco e un cappuccio di velluto nero, sopra al quale stava appoggiato un cappello di castoro a forma di pan di zucchero. Tutto sommato, pareva un’anziana signora di buona famiglia che andasse a passeggio con il suo lungo bastone; un bastone alto quanto lei, di quelli che tanti anni fa i vecchi usavano per sostenersi nel loro cammino.
“Buongiorno, signora” la salutò la donna di Kittlerumpit con una piccola riverenza. “Io sono una delle persone più sfortunate sulla faccia della terra.”
“Oh, poche storie” fece la vecchia. “Tuo marito se n’è andato, lo so, e la scrofa non sta bene. Tutti abbiamo i nostri problemi.” E aggiunse: “Come mi ricompenserai se guarirò la scrofa?”
“Le darò qualunque cosa mi vorrà chiedere, davvero, davvero!” rispose istintivamente la donna.
“Bene, allora suggelliamo il patto con una stretta di mano” troncò la vecchia, dirigendosi verso il porcile.
La povera scrofa continuava a grufolare per il dolore e la donna vestita di verde rimase per un po’ a fissarla. Poi cominciò a borbottare fra sé e sé parole simili a queste:
“Scalpiccia e zampetta
Acqua santa.”
Trasse dalla tasca una misteriosa botticella, ripiena di un liquido che spalmò sul muso e sulle orecchie della scrofa, e sulla punta del codino.
“Alzati!” intimò infine all’animale. La scrofa emise un grugnito e si alzò, zampettando subito verso il truogolo per fare colazione.
La padrona di casa, al colmo della gioia, non sapeva più cosa fare per dimostrare alla vecchia la sua gratitudine. Avrebbe voluto addirittura baciarle l’orlo della veste ma la donna in verde era di altro avviso.
“Ferma” le disse “non mi piacciono queste smancerie. Piuttosto, ora che ho guarito la tua bestia è venuto il momento di parlare del nostro patto. Ti prometto che non sarò avida né irragionevole con te, in cambio della mia buona azione tutto ciò che ti chiedo è il bimbo che tieni nelle tue braccia.” E aggiunse. “Sì, è lui che mi darai.”
La brava donna di Kittlerumpit comprese allora con chi aveva a che fare: si trattava di una fata che voleva portarle via il suo bimbo. A nulla valsero i pianti, le suppliche e le implorazioni.
“Smettila di gridare come se fossi sorda! le intimò la vecchia. “Non ti servirà a niente.” La legge delle fate stabiliva infatti che avrebbe potuto venire a reclamare il bimbo dopo tre giorni, ma solo nel caso in cui entro quel termine la donna non fosse riuscita a indovinare il nome della fata.
La vecchia vestita di verde se ne andò, lasciando in preda alla disperazione la donna di Kittlerumpit, che rintanata in un angolo della stalla pianse e pianse per tutta la notte senza riuscire a dormire neppure un istante. Le lacrime non smisero di sgorgare dai suoi occhi anche il mattino seguente: strinse a sé il bambino singhiozzando fin quasi a farsi spezzare il cuore.
Il secondo giorno prese il bimbo e cominciò a vagare per il bosco, fino a che giunse nei pressi d un piccolo avvallamento pieno di ginestre selvatiche; lì si trovava una vecchia cava, accanto alla quale scorreva un ruscello. La donna si fermò, attratta da un suono che somigliava al cigolio di un arcolaio.
Una voce cantava:
“La nostra brava donna non sa
Che Whuppity Stoorie è il mio nome.”
“Ah, ora ti tengo in pugno” disse fra sé la donna. E tornò a casa con l’animo sollevato, sempre stringendo a sé il figlioletto, decisa a sfidare la fata.
Il terzo giorno nascose il bimbo fuori dalla casa dietro un grosso mortaio di pietra, e vi si sedette sopra ad aspettare. Si sistemò il berretto di traverso sul capo, simulando una grande disperazione, e si mise a piangere con tutta la forza che aveva.
La fata non si fece attendere. Di lì a poco comparve all’orizzonte e risalì la valle di buon passo.
“Brava donna di Kittlerumpit, sono contenta di vedere che sai cosa mi ha portato qui” le gridò da lontano. “Alzati in piedi e consegnami ciò che mi spetta.”
La donna si mise a gemere ancora con più insistenza e, quando la vecchia fata fu giunta al suo cospetto, si prostrò in ginocchio davanti ai suoi piedi.
“Oh ti prego, buona signora, lasciami il mio piccino” disse singhiozzando. “Prenditi piuttosto la scrofa!”
“Che se la prenda il diavolo, la tua scrofa!” gridò la vecchia. “La carne di maiale non mi interessa. Son o venuta fin qui per prendere il tuo bambino. E non aspetterò oltre.”
“Dolce signora, ti prego” la implorò la donna. “Prendi me, piuttosto!”
“Devi essere impazzita” la schermì la dama in verde. “Chi potrebbe voler avere qualcosa a che fare con una come te?”
Ferita nell’orgoglio, la brava donna di Kittlerumpit trattenne la collera e, simulando una profonda riverenza, le disse: “Perdonami! Una povera donna del mio rango non è degna nemmeno di allacciare le stringhe delle scarpe alla nobile e potente principessa Whuppity Stoorie.”
A quelle parole, come se fosse stata vittima di un’esplosione la fata schizzò per aria, per poi ricadere fragorosamente a terra e darsela a gambe levate.
Vedendo la vecchia che fuggiva gridando, come inseguita da un’orda di streghe, la donna di Kittlerumpit scoppiò in una risata liberatoria. E rise, rise di gioia finché poté. Poi si incamminò cantando verso casa, cullando dolcemente il bimbo fra le sue braccia.
Da: Fiabe celtiche. Gnomi, folletti, fate: storie del Piccolo Popolo a cura di Francesco Fornaciai
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