Nebbiario di una Viandante - blog in cui si sale e si scende come nel Tor di Glastonbury. Il cammino non è progressivo, ma ogni scritto apre una porta o discosta un velo di nebbia; non c’è linearità nel procedere, ma un giorno, inaspettatamente, ci troveremo sulla cima del Tor e da lì la Visione sarà chiara, allora saremo in grado di entrare nella collina sacra, allora saremo in grado di chiamare la Barca e di giungere all’Isola delle Mele, finalmente a Casa
Questo momento dell’anno, dominato dal calore solare e dalla generosità della Natura, vede la fine degli sforzi umani per portare a compimento il ciclo agrario con il raccolto. Lughnasadh per noi dovrebbe essere tempo di gioia e di vacanze, un periodo in cui raccogliamo e godiamo i frutti delle nostre fatiche. Le cose che abbiamo portato a termine al Solstizio ora sono mature e possiamo vedere i primi risultati delle nostre azioni intraprese nei mesi precedenti. Ma è anche un momento di preparazione per il futuro, di riflettere che presto sarà autunno e che dovremo affrontare una fase diversa. Per capire l’importanza di questa festa nella nostra vita psichica, ci occorre comprendere l’importanza del tema di morte e di rinascita nelle nostre vite. Diventiamo consapevoli che la vita umana cresce e poi declina, è una ruota che deve continuamente essere equilibrata. Questo è il culmine dell’anno ma anche l’inizio del processo del suo declino. È utile comprendere l’idea del sacrificio in termini di trasformazione, non tanto di morte bensì di lasciare andare via qualcosa per arrivare ad un più alto livello creativo nella nostra vita. Il grano sacrificato diventa pane, il frutto viene raccolto in modo che ci possa nutrire. Lughnasadh è festa di trasformazione e la rinascita è la legge perpetua della Natura. Proviamo ad andare nei campi dopo la mietitura: se saremo fortunati potremo trovare alcune spighe sopravvissute alle implacabili mietitrebbiatrici. Raccogliamole e formiamo con esse una bella ghirlanda intrecciata con nastri dorati, il colore del dio Lugh. Conserviamola in casa o regaliamola alla persona più cara, come auspicio d’abbondanti raccolti materiali e spirituali nelle nostre vite. Se vogliamo provare a celebrare in maniera rituale questa festa, potremmo farlo all’alba del l° agosto oppure nel pomeriggio della stessa giornata. Ci si procura alcune spighe di cereali, alcune manciate di chicchi di grano, una pagnotta di pane e una coppa di vino. Si accendono tre piccoli fuochi oppure (se non possiamo celebrare questo rituale all’aperto) tre candele gialle o dorate. Si inizia da quello di destra dicendo: “In onore di Lugh, Dio della Luce”. Poi si passa ad accendere il fuoco o la candela di sinistra dicendo: “In onore della Dea della Terra”. Infine si accende il fuoco (o la candela) centrale dicendo: “In onore del Re del Grano che muore per donarci la vita”. A questo punto con le spighe che ci siamo procurate formiamo un mazzo, legandolo con un nastro giallo o dorato e collocandolo nello spazio davanti alle tre candele o ai tre fuochi. Si prende una manciata di chicchi di grano e si compie lentamente un giro a spirale attorno al nostro mazzo di spighe, verso l’esterno e in senso antiorario. Camminando si lascia cadere lentamente il grano dietro di noi, dicendo: “Percorro il sentiero della Madre Terra”: dopo aver compiuto tre giri intorno al mazzo, ci si ferma in meditazione sul significato del grano e poi si ritorna verso il mazzo, sempre muovendo a spirale ma stavolta in senso orario. Si lasciano cadere altri semi di grano, dicendo: “Percorro il sentiero del Dio della Luce”.
Ci si ferma in meditazione sul Dio Sole che sta per iniziare il suo viaggio nell’Altro Mondo. Poi si leva in alto il pane, indi la coppa di vino e si consumano questi cibi, lasciando briciole e gocce di vino da versare sulla terra
Uno dei più importanti eventi dell’anno agrario nell’antica Europa era ed è ancora il raccolto del grano. Risalente all’Età Neolitica, la coltivazione dei cereali ha letteralmente plasmato tutte le civiltà europee e mediterranee. La farina e il pane erano letteralmente la vita per le antiche popolazioni.
La mitologia più antica narrò di due entità femminili, madre e figlia, che rappresentavano forse il raccolto maturo e il futuro raccolto da seminare, entrambe simboleggiate dall’ultimo covone mietuto quasi a raffigurare la loro somiglianza e identità. Il folklore europeo ne parlò come la Vecchia del Grano, il vecchio spirito o la vecchia divinità che moriva al momento del raccolto per incarnarsi nella Fanciulla del Grano, raffigurata come una bambola formata con le spighe dell’ultimo covone e conservata come un talismano per tutto l’anno. In epoche precristiane queste due figure venivano chiamate Demetra e Persefone, o Cerere e Proserpina.
Ma non era solo una storia di raccolti e di vegetazione quella che raccontavano gli antichi miti. No, era una storia di morte e resurrezione che coinvolgeva tutti i regni della natura, compreso quello umano. I misteri iniziatici in onore di Demetra e Persefone che si tenevano ogni anno nell’antica città greca di Eleusi rivelavano che la morte è solo un passaggio verso una diversa esistenza. Così come Persefone ritornava dal regno dei morti, anche gli iniziati potevano aspirare alla resurrezione. Il chicco di grano muore ma per rinascere come nuova spiga. Più tardi la divinità del grano assunse aspetto maschile, il Re o Dio del Grano, figlio o amante delle grandi dee. Tali furono Tammuz e Adone, il primo riportato in vita dalla sua sposa Ishtar, il secondo destinato a trascorrere metà dell’anno con la Regina dell’Oltretomba e l’altra metà con Afrodite, dea dell’amore e della fertilità. Entrambi erano giovani dei che morivano per risuscitare a nuova vita, come il grano. Suggerisce nulla tutto ciò? C’era un bosco sacro dedicato ad Adone nei pressi di Betlehem (“Casa del Pane”)...
In molti templi neolitici dell’Europa orientale sono state rinvenute statuette di donne-uccello (la Dea Uccello) e statuette umane che preparano il pane. Ciò richiama i motivi del tempio di Afrodite a Pafo, nell’isola di Cipro dove Afrodite e Adone furono amanti.
Nei paesi celtici del Nord Europa il raccolto dei cereali avveniva più tardi e prima delle dure fatiche del raccolto ci si concedeva una pausa di festa, contrassegnata il I° agosto dalla celebrazione di Lughnasadh (pron. Luunasa), la “commemorazione di Lugh” (nasadh commemorazione o assemblea). In gaelico irlandese Lunasa indica il mese di agosto, in gaelico scozzese la ricorrenza è chiamata Lunasda. L’Irlanda è una terra dove le usanze di Lughnasadh sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Nei secoli in cui la religione cattolica era perseguitata dai protestanti, le masse rurali si radunavano su cime di colline o vicino a sorgenti per celebrare i momenti di passaggio dell’anno, obbedendo a tradizioni molto più antiche del cristianesimo. L’Irlanda ha ancora un cuore pagano, basti pensare al film “Ballando a Lughnasa” dove tra l’altro è mostrato anche un festino intorno a un falò in cima ad un colle... Lugh, dio del fuoco e della luce, può avere derivato il suo nome dalla stessa radice del latino lux, e pare sia una più tarda e più sofisticata versione di Bel/Beli/Balor che regna su Beltane. Lugh è legato alle popolazioni agricole che si unirono a quelle pastorali: Beltane è una festa pastorale, Lughnasadh è una festa più agraria. Lugh nelle leggende irlandesi era un capo dei Tuatha Dé Danann, il “Popolo della Dea Dana”. Nella guerra contro i precedenti abitatori dell’Irlanda, i Fomori, egli scambiò la vita di Bres, capo nemico, con i segreti dell’agricoltura: aratura, semina, raccolto. Il re dei Fomori era Balor (l’antico Bel), ritenuto nonno o padre di Lugh; ciò non deve sorprendere poiché nelle mitologie di tutto il mondo un dio che rimpiazza una divinità più antica, viene sempre collegata ad essa da legami di parentela per poterne ereditare anche violentemente le funzioni. I Tuatha Dé Danann furono i penultimi invasori dell’Irlanda (gli ultimi furono i Milesiani, cioè i popoli gaelici) e si imposero ai più antichi Fomori. Lugh appare così un Balor rigenerato. Lugh è anche divinità delle arti, chiamato “ugualmente abile in tutte le arti” e “luminoso dalla mano abile” per indicare le sue capacità. Nel grande racconto mitologico “La battaglia di Mag Tured” si descrive l’arrivo di Lugh a Tara, capitale sacra dove possono essere accolti solo coloro che possiedono un’arte. I due portinai di Tara interrogano Lugh il quale elenca a una a una tutte le sue specializzazioni ed essi cercano di rifiutargli l’ingresso dicendo che a Tara esistono già persone maestre in ciascuna delle arti nominate. Al che Lugh ribatte dicendo che non sarebbe entrato a Tara solo se il re avesse avuto al suo servizio un uomo abile in tutte le arti. Poiché nessuno possedeva contemporaneamente tutte le capacità di Lugh, egli entrò trionfalmente nella capitale!
Lugh era patrono di molte città, come Lione in Francia, l’antica Lugdunum, per l’appunto e ciò può essere spiegato col fatto che le città dei Celti nacquero quasi tutte come fiere di artigiani e costoro trovavano naturale consacrare inuovi insediamenti al loro patrono.
Lugh era detto anche Lamfhada “dal lungo braccio”, appellativo che lo avvicina al dio solare egizio Aton, raffigurato con raggi dalle lunghe mani. In alcune leggende egli appare nato da un parto trigemino (cioè possedendo una triplice forma), in altre egli sposa tre dee. Questo aspetto trino lo avvicina molto a Brigit, anche essa divinità della luce e delle arti, di cui forse era la controparte maschile. Lugh è il padre spirituale del grande eroe irlandese Cu Chulainn, e divenne Llew Llaw Gyffes (“leone dalla mano veloce”) in Galles e Lud in Inghilterra, figure mitiche i cui miti passarono in quello arturiano di Lancillotto. Nei tempi cristiani il suo posto fu preso dall’arcangelo Michele, una più tarda forma di Lucifero che come Lugh è portatore di luce.
Le origini della festa di Lughnasadh sono collegate però non tanto a Lugh quanto alla sua madre adottiva Tailtiu, la quale si affaticò per preparare le pianure irlandesi all’agricoltura e così morì, dopo aver chiesto che la pianura diventasse la sua tomba. Lugh ordinò che gli uomini di Irlanda tenessero una festa annuale all’anniversario della sua morte, istituendo i giochi funebri in suo onore. La tradizione di giochi funerari ha paralleli in molte culture, basti ricordare le cerimonie funebri dei guerrieri morti ricordate nell’Iliade. Il vero scopo della festa è il raduno delle popolazioni al momento del raccolto sulle terre coltivate, terre che costituiscono il corpo materiale della Dea della Terra. Gli stessi raccolti sono anche essi parte del corpo della Madre Terra.
In questo periodo dell’estate avanzata, si erano lasciate alle spalle le fatiche e le preoccupazioni del raccolto del fieno e ci si preparava al raccolto di grano e orzo, le messi che il calore del sole ha fatto maturare. Lughnasadh era occasione di raduni e feste per le tribù celtiche, in cui ci si dedicava a giochi, gare e banchetti. Era tempo di mostrare la velocità dei propri cavalli e di competere in gare di abilità e forza: ciò era anche un allenamento alle fatiche del raccolto, in cui la velocità e la resistenza erano doti essenziali in epoche prive di macchine. Spesso bisognava fare i conti col cattivo tempo che poteva rovinare il lavoro di un intero anno! Così i giovani partecipavano a gare di lotta, lancio di aste, tiro con l’arco e corse di cavalli, giochi tenuti in grande conto in società guerriere come quella celtica; molte di queste usanze sono state conservate nei Giochi Gaelici che si tengono ancora in Scozia nel mese di agosto. Ma anche le arti erano sotto il patrocinio di Lugh e si tenevano quindi anche competizioni poetiche di Bardi e di musici.
I raduni erano occasioni per tenere fiere in cui venivano ingaggiati braccianti e venduti animali. La festa durava due settimane e si diceva che finché sarebbe durata questa tradizione, ci sarebbe stato “grano e latte in ogni casa, pace e bel tempo per la festa e il raccolto”.
Era tempo di baldorie propiziate dal calore estivo e si celebrava l’inizio del raccolto e l’offerta dei primi frutti agli dei (la festa era detta “del primo raccolto”), così come pure la potenza della luce solare e l’abbondanza generosa della natura. Il sole aveva trionfato su venti, gelo e nebbie e ora il raccolto era pronto, ma la fertilità è anche un concetto legato alla sessualità umana, così nell’antica Irlanda si celebravano i cosiddetti matrimoni di prova che duravano un anno e un giorno. La località principale dove si celebravano questi matrimoni era in Irlanda a Teltown, località che ha preso il nome dalla Dea Tailtiu. Vicino a una fossa dove sgorgava una sorgente era eretto un muro con un foro: uomini e donne stavano sugli opposti lati del muro, senza potersi vedere ma spingendo insieme le mani attraverso il foro le loro mani. Se agli uomini piaceva l’aspetto delle mani delle donne le afferravano e ciò sigillava il patto matrimoniale. Il contratto era rinnovabile, ma se alla scadenza del periodo la convivenza aveva avuto cattivo esito, la coppia non doveva fare altro che ritornare al luogo della cerimonia, mettersi schiena scontro schiena e allontanarsi in direzione opposte. Una separazione consensuale e tranquilla, senza spese per il divorzio!
Questa usanza in realtà è il ricordo di un’antica pratica rituale. La ragione di dare il nome di Lugh alla festa era dovuta alla sua associazione con la Dea Erin alla quale si unì in matrimonio con“nozze di sovranità” (banais rigi in gaelico) in occasione del suo accesso alla sovranità dei Tuatha Dé Danann. Allo stesso modo tutti i re d’Irlanda si univano ritualmente alla Dea della Terra, la sola che concedeva loro la sovranità sul paese. A Lughnasadh troviamo il parallelo dell’accoppiamento rituale di Beltane, dove il Dio dell’anno crescente sposava la Dea della Terra. Allo stesso modo i “matrimoni nei boschi” di maggio hanno un corrispondente nei matrimoni di Teltown e degli amori nei campi di grano a Lughnasad.
Ma occorre tener presente che le nozze rituali di Lugh rappresentano un accoppiamento sacrificale, in armonia del resto col sentimento di morte che aleggia su questa prima festa di autunno. Secondo lo studioso James Frazer, questo era il tempo in cui il re sacro era ritualmente ucciso e il nuovo re sposava la Dea Madre. Così Lugh moriva e rinasceva in accoppiamento con la Dea, unendo in un unico tema di sacrificio la fertilità umana e quella della terra. A noi tutto ciò può sembrare paradossale, come pure il collegamento dei giochi funerari in onore di Tailtiu con le feste nuziali di Lugh. Per comprendere il paradosso delle nozze di Lugh dobbiamo comprendere che le più tarde aggiunte alla leggenda hanno deformato il ruolo della Dea: infatti, pare che in origine i funerali fossero tenuti in onore del Dio che moriva in quanto Dio del Grano e dell’anno crescente. Le nozze erano quindi quelle del Dio dell’anno calante, suo gemello e sostituto. Troviamo questi aspetti nella leggenda gallese di Llew (figura che come si è detto ripete quella di Lugh). Egli visitò il castello di sua madre Arianrhod recandosi là con un coracle, antica e tipica imbarcazione irlandese che simboleggia forse il cesto del raccolto con cui le divinità solari viaggiavano per recarsi dove li attende la Grande Dea. Caer Arianrhod, il castello della Ruota d’Argento era un altro nome della costellazione della Corona Borealis, costellazione circumpolare che non tramonta e quindi ritenuta dimora ultraterrena di divinità e di eroi defunti. Il viaggio di Llew altro non è che il viaggio compiuto in qualità di re dell’anno crescente dopo il proprio sacrificio e in attesa di rinascita. Llew nelle leggende sposò Blodeuwedd, donna creata con ifiori e quindi figura rappresentativa della Giovane Dea della Vegetazione. In seguito Blodeuwedd tradì Llew con Grown il Forte e lo uccise, sacrificandolo e sposando il suo sostituto, il re dell’anno calante.
Anche in Irlanda gli aspetti sacrificali sono adombrati dalle leggende su Crom, dio sacrificale associato a Lughnasadh e chiamato anche Crom Cruach (“il piegato del tumulo”) o Crom Dubh (“il piegato dal nero colore). L’ultima domenica di luglio in Irlanda è la domenica di Crom Dubh, in cui ha luogo un grande pellegrinaggio sul monte Croagh Patrick dove si dice che San Patrizio sconfisse una schiera di demoni. Il sacrificio di Crom era compiuto anticamente sacrificando un suo rappresentante umano presso una pietra fallica circondata da altre dodici pietre, essendo questo il tradizionale numero dei compagni del re-eroe sacrificale. Il Libro di Leinster cita dodici idoli di pietra e la statua d’oro di Crom. Più tardi i sacrifici umani furono rimpiazzati da quelli di un toro. Crom, come pure Balor o Bres, è una forma antica del dio luminoso che produce raccolti, rimpiazzata da Lugh in qualità di nuovo Dio che gli sottrae i frutti del suo potere. Nelle leggende Crom Dubh era sepolto nel terreno fino al collo per tre giorni e poi liberato una volta che i frutti del raccolto erano stati garantiti: un segno del successo del rituale era l’abbondanza di mirtilli, presagio di raccolti abbondanti. Ciò rimase nel folklore col nome di Domenica del Mirtillo dato alla Domenica di Crom Dubh, con i giovani che vanno a raccogliere questo frutto. La sepoltura di Crom e la sua liberazione ci rinviano dunque al tema di sacrificio e di rinascita di Lughnasadh. Lughnasad passò nel folklore britannico con il nome di Lammas, abbreviazione di Loaf-mass (dall’Anglo-Sassone “Hlaf-maess”) o “messa della pagnotta” poiché con il primo grano raccolto si preparava un pane propiziatorio, offerto nelle chiese come parte di riti eucaristici. L’antica divinità divenne John Barleycorn, lo spirito del grano o dell’orzo che muore stritolato nella macina per donare farina agli uomini o annegato nella distillazione per produrre whisky. Non a caso nel mito celtico la dimora funebre di re ed eroi era rappresentata come una costruzione circolare e rotante, il Castello della Ruota d’Argento: non è forse questa una raffigurazione poetica del mulino con la sua macina sacrificale? Ma lo stesso simbolo viene raffigurato dalla ruota che viene accesa e fatta rotolare giù per il pendio di una collina, usanza ancora oggi celebrata in Scozia, Germania e Svizzera. A volte la ruota finisce in un fiume, così come la ruota delle stagioni inizia il suo declino. Questa ruota è nuovamente la ruota solare che abbiamo già visto nelle feste del Solstizio estivo. Lughnasadh ripete in un certo senso alcuni simboli solstiziali, essendo il culmine e l’inizio del declino nel ciclo delle feste celtiche allo stesso modo in cui il Solstizio estivo è culmine e inizio di declino nelle feste astronomico-solari. La festa viene celebrata anche con fuochi rituali accesi in cima alle colline, come in Galles, nell’isola di Man e in Irlanda, dove i falò sono anche occasione di danze di licenziosità. La pianta sacra di Lughnasadh è la spiga di grano o di orzo. Lugh e Llew sono divinità del grano, di morte e di rinascita, perché il grano tagliato rinasce come farina e pane. Durante i raccolti si credeva anticamente che una forza sacra (chiamata dai russi il Vecchio, da altri popoli slavi la Vecchia, e nei paesi germanici la Madonna del Grano) si incarnasse nell’ultimo covone mietuto. Questo spirito del grano era identificato spesso nell’ultimo mietitore che raccoglieva l’ultimo covone. In tempi antichi egli era sacrificato e le sue ceneri sparse nei campi. Poi si passò a sacrificare animali e bruciare fantocci, ma il significato era sempre quello: il sacrificio della divinità primordiale, che moriva come Re del Grano e il cui sangue benediceva la terra, garanzia di futuri e abbondanti raccolti. La festa del sole calante è il punto di svolta in cui l’Uomo Verde di Beltane si prepara a diventare l’Uomo Grigio della morte in autunno, quando inizia il suo viaggio verso l’Altro Mondo. Ora, infatti, è il tempo in cui si arresta la crescita nel mondo vegetale per permettere al raccolto di maturare. Nel folklore europeo, durante i rituali dell’ultimo covone, si estraggono i chicchi del futuro raccolto e si spargono le ceneri delle spighe per fertilizzare la terra. Il tema di morte e rinascita non negava quello della fertilità, espresso dalle orge rituali durante le feste del raccolto che, riattualizzando il mitico caos primordiale, rinnovavano il ciclo dell’anno e la fecondità della terra: fertilità umana e fertilità della Natura. Eros (amore) e Tanathos (morte) costituiscono un binomio inscindibile anche in questo periodo dell’anno
John Barleycorn (lo spirito dell'orzo) vive dalla semina fino al momento della sua morte ad opera della falce, ma poi rinasce dal suo stesso seme, in un ciclo senza fine ma con momenti ben definiti, caratterizzati da celebrazioni rituali. In questo ciclo il Dio muore e discende agli inferi dove la Dea della Terra lo soccorre e lo fa rinascere. Anche la maggior parte (se non tutte) le divinità maschili e femminili legate ai raccolti e al grano discendono negli inferie poi ritornano in superficie.
In Irlanda, Inghilterra e Scozia spesso si canta una ballata popolare, intitolata John Barleycorn must die, incentrata su questo personaggio popolare, che è poi lo spirito dell'orzo, che narra del ciclo annuale dell'orzo, della sua trasformazione in farina e poi in birra e whisky, che è molto simile al ciclo annuale dello spirito del grano. Perché lo spirito del grano doveva morire? Era una metafora del ciclo della mietitura, il grano crescente doveva essere mietuto, quando finiva era finito il raccolto, il mietitore che mieteva l'ultimo covone simbolicamente uccideva il raccolto di quell'anno, quindi uccideva lo spirito del grano e in qualche modo prendeva su di sé la sventura della fine della vita, della morte.
Ma lo spirito sarebbe rinato l'anno dopo, bastava sincerarsi che morisse in modo certo per garantirne la rinascita, e quindi doveva essere inscenata un’uccisione simbolica e inappellabile (nella canzone è il "voto solenne"), con le forme e la brutalità del sacrificio.
Le modalità simboliche dell'uccisione descritte nella canzone sono proprio quelle in uso nelle campagne inglesi del Devonshire e della Scozia fino ai primi decenni del '900. Del testo esistono diverse versioni, raccolte in varie epoche, a partire dal 1600, da tradizioni orali precedenti, tra cui una versione più ampia curata dal poeta nazionale scozzese Robert Burns. Di seguito si può leggere la traduzione del brano nella versione più comune:
C'erano tre uomini che venivano da occidente, per tentare la fortuna
e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn deve morire
loro avevano arato, avevano seminato, loro avevano dissodato
e avevano gettato zolle di terra sulla sua testa
e questi tre uomini fecero un solenne voto
John Barleycorn era morto
lo lasciarono giacere per un tempo molto lungo, fino a che scese la pioggia dal cielo
e il piccolo sir John tirò fuori la sua testa e lasciò tutti di stucco
loro l'avevano lasciato steso fino al giorno di mezza estate e fino ad allora lui era sembrato pallido e smorto
e al piccolo Sir John crebbe una lunga lunga barba e così divenne un uomo
loro avevano assoldato uomini con falci veramente affilate per tagliargli via le gambe
l'avevano avvolto e legato tutto attorno, trattandolo nel modo più brutale
avevano assoldato uomini con i loro forconi affilati che avevano conficcato nel (suo) cuore
e il carrettiere lo trattò peggio di così
perché lo legò al carro
e andarono con il carro tutto intorno al campo finché arrivarono al granaio
e fecero un solenne giuramento sul povero John Barleycorn
assoldarono uomini con bastoni uncinati per strappargli via la pelle dalle ossa
e il mugnaio lo trattò peggio di così
perché lo pressò tra due pietre
e il piccolo Sir John con la sua botte di noce e la sua acquavite nel bicchiere
e il piccolo sir John con la sua botte di noce dimostrò che era l'uomo più forte dopo tutto
il cacciatore non può suonare il suo corno così forte per cacciare la volpe
e lo stagnaio non può riparare un bricco o una pentola senza un piccolo (sorso) di grano d'orzo.
§§§§§§§§§
There were three men came out of the west, their fortunes for to try
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn must die
They've plowed, they've sown, they've harrowed him in
Threw clods upon his head
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn was dead
They've let him lie for a very long time, 'til the rains from heaven did fall
And little Sir John sprung up his head and so amazed them all
They've let him stand 'til Midsummer's Day 'til he looked both pale and wan
And little Sir John's grown a long long beard and so became a man
They've hired men with their scythes so sharp to cut him off at the knee
They've rolled him and tied him by the way, serving him most barbarously
They've hired men with their sharp pitchforks who've pricked him to the heart
And the loader he has served him worse than that
For he's bound him to the cart
They've wheeled him around and around a field 'til they came onto a pond
And there they made a solemn oath on poor John Barleycorn
They've hired men with their crabtree sticks to cut him skin from bone
And the miller he has served him worse than that
For he's ground him between two stones
And little Sir John and the nut brown bowl and his brandy in the glass
And little Sir John and the nut brown bowl proved the strongest man at last
The huntsman he can't hunt the fox nor so loudly to blow his horn
And the tinker he can't mend kettle or pots without a little barleycorn
Io seguo la tradizione avaloniana, che non prevede riti o incantesimi, ma qualche rito spontaneo può nascere da un sogno, una sensazione, una visione… ad esempio immagino un gruppo di sorelle in tuniche bianche trovarsi in una radura in mezzo ad un bosco sacro ogni plenilunio, tenersi per mano in cerchio e intonare questo meraviglioso canto che mi trasmette una pace infinita, magari con al centro una delle fanciulle che suona l’arpa, e poi? Poi si vedrà, intanto imparo le parole:
Lady of the shining stars Lady of the moonlight Lady of the dew at dawn Lady of the twilight
The Goddess is in everything In every form of nature The Goddess is in everything In every form of beauty
Lady of the flowing waters Lady of the mountains Lady of the flowering meadows Lady of the forests
The Goddess is in everything In every form of nature The Goddess is in everything In every form of beauty
Lady, lady Lady of the moonlight
Lady, lady Lady of the twilight
Lady of the shining stars Lady of the moonlight Lady of the dew at dawn Lady of the twilight
The Goddess is in everything In every form of nature The Goddess is in everything In every form of beauty
La caccia , e così la guerra, erano per i Celti attività sacre, che si potevano svolgere solo dopo un apprendistato di tipo iniziatico.
La caccia era in grado di costituire un'esperienza "nutritiva" a tutti i livelli.
A livello fisico l’animale cacciato forniva il nutrimento, a livello mentale la caccia stimolava l'astuzia e il coraggio del cacciatore, che doveva confrontarsi con la forza bruta dell’animale, vincendo grazie all'esercizio dell'intelligenza.
La caccia era vista come qualcosa di più di un’opportunità sportiva; con l’usanza di forgiare le armi si iniziò a considerarla un atto sacro, nel quale cacciatore e cacciato entravano in una relazione del tutto particolare. La caccia divenne simbolo e metafora del viaggio dello spirito, dove vita e morte hanno la loro parte e dove la guarigione è raggiunta cacciando. Cacciare e guarire sembrano attività non relazionate, ma i ritrovamenti archeologici ai santuari di guarigione di Lydney nel Gloucestershire e Nettleton Shrub nello Wiltshire mostrano come i Celti unissero i due concetti. La percezione che la morte di un animale corrispondesse alla vita di un altro portò i Celti a collegare lo spargimento di sangue con concetti come rinascita, guarigione, rinnovamento. Impegnandosi nella caccia erano chiamati a rinnovarsi. La caccia era accettabile solo se gli animali cacciati erano rispettati dai loro predatori, e le prede dovevano accettare la propria morte; tutto si svolgeva in un’atmosfera armoniosa con la natura, in cui i cacciatori hanno un rapporto indissolubile con gli animali: solo in questo modo all'animale morto era riconcesso l'onore di ritornare in vita, e vagare di nuovo nella foresta per essere nuovamente cacciato.
La caccia e la guerra sarebbero così stati i due aspetti fondanti della ricerca della sovranità. In quasi tutte le storie antiche, inoltre, compaiono episodi di caccia al cervo o al cinghiale, animali che rappresentano l’anima di colui che deve essere ucciso (l'etimo stesso di "animale" deriva dal greco anemos, anima, spirito, il soffio vitale presente in tutte le creature viventi).
Il cervo e il cinghiale sono creature dell’Altromondo che varcano i confini tra i mondi con facilità, fungendo spesso da messaggeri o guide tra una parte e l’altra del confine. La caccia a questi animali viene accostata sia al periodo di Beltane che a quello di Samhain.
I Celti non andavano mai a caccia senza l’aiuto degli Dei e alcune divinità avevano una duplice attitudine verso gli animali, ne erano sia i guardiani che i cacciatori, legati ad essi da un vincolo mutuo ed intimo. Lo stesso si può dire anche per le dee, come la dea-orso Artio e la dea-cinghiale Arduinna.
Anche il dio gallese Mabon in Culhwch e Olwen, è un dio-cacciatore. La Caccia Divina non simboleggiava la morte e la fine ma l’immortalità attraverso l’atto dello spargimento di sangue.
Dato che la caccia era una faccenda seria, che implicava la distruzione di parte della natura, era percepita come un’attività nella quale gli dei dovevano giocare un ruolo chiave.
Cernunnos, il dio dalle corna ramificate di cervo, era la divinità della caccia e della selvaggina e veniva chiamato anche il Signore degli Animali. Per i Celti cacciatore e preda formavano un unico essere e il trapasso nella natura di un animale è caratteristico nei racconti di magia. Ci si identificava completamente nella preda, penetrando, come in uno stato di sogno, nella sua mente, nei suoi movimenti e nelle sue astuzie, così l’abilità del cacciatore diveniva una forma di magia , che gli permetteva quasi sempre di avere la meglio sull’animale braccato. Pare che lo stesso persecutore, nell’ucciderlo, soffrisse in quell’attimo tutte le sue pene, tale era l’immedesimazione della sua coscienza. Naturalmente per ottenere ciò era necessario un rituale rivolto a Cernunnos. Mabon o Maponus è il celtico bambino di Luce che porta la vita eterna. Era un grande cacciatore con un agile cavallo e uno splendido cane da caccia. Mabon ap Modron significa "Grande Figlio della Grande Madre", 'Il Figlio Divino” è il Dio gallese della giovinezza e figlio della Madre Terra Modron e di Mellt ('Illuminante"). Era il Figlio della Luce, della liberazione, armonia, musica e unità (assimilabile anche a divinità come Lugh e Belenos). Ha anche il potere di far fiorire e sviluppare ciò che dipende per la propria crescita dalla sua luce solare (in senso naturale e spirituale). Mabon è associato a Beleno, chiamato anche Bel, Beli o Belenos, Dio del sole, protettore delle pecore e del bestiame. Definito “Padre degli dèi e degli uomini” (e marito della dea Dana), la cui radice ha il significato di “brillante”. Egli è il Giovane Cervo , l’altro lato del Dio Cornuto, la sua controparte luminosa che domina il semestre luminoso, Maponos le corna non le ha ancora, ma le mette nel momento in cui la "corona" passa da Cernunnos a lui. Il cervo con le corna e quello senza corna sono comunque considerabili lo stesso identico cervo, infatti le corna vengono perse e rimesse ciclicamente, ecco perché Cernunnos ha grosse corna, mentre Maponos no. È anche possibile collegare il personaggio di Mabon, il Giovane Divino, a quello dell’irlandese Aengus, Dio dell’amore, della giovinezza e dell’ispirazione poetica, dell’amore fatale: i baci di Aengus si tramutano in uccellini cinguettanti, secondo il mito, e la sua musica ha il potere di attrarre a sé chiunque l’ascolti. In alcune leggende Aengus è in grado di ricongiungere corpi fatti a pezzi e di riportarli in vita.
Quando le dee vengono prese come modello del normale comportamento femminile, la donna che per natura assomigli più alla saggia Atena, o alla competitiva Artemide o alla madre Demetra, esprime il suo sé femminile attraverso l’attività, l’obiettività di giudizio e la concentrazione sulla realizzazione delle mete. È autentica rispetto al modello della dea a cui assomiglia di più e non soffre di un complesso di mascolinità, come diagnosticherebbe Freud, né si identifica con l’Animus, né ha un atteggiamento maschile, come ipotizzerebbe Jung.
Quando una donna segue i modelli Atena o Artemide, attributi “femminili” quali la dipendenza, la ricettività o l’istinto ad accudire possono non essere aspetti che fanno parte della sua personalità. Sono qualità che dovrà sviluppare per riuscire a creare rapporti duraturi, diventare vulnerabile, dare e ricevere amore e conforto e aiutare gli altri a maturare. La polarizzazione contemplativa di Estia tiene la donna a una certa distanza emotiva dagli altri, anche se, per quanto distaccata possa essere, il suo calore silenzioso dà alimento e sostegno. Quello che deve sviluppare, al pari di Artemide e Atena, è la capacità di un’intimità personale. Ciò che queste donne devono fare per crescere è diverso da ciò che serve all’evoluzione di donne Era, Demetra, Persefone e Afrodite. Questi quattro modelli di dea predispongono infatti la donna al rapporto: la loro personalità corrisponde alla descrizione fatta da Jung. Devono imparare a concentrarsi, a essere obiettive, a farsi valere, tutte qualità che non sono forti nella loro natura; devono sviluppare l’Animus, ovvero attivare in sé gli archetipi Artemide e Atena.
Anche quando Estia è l’archetipo dominante, le donne, al pari di quelle orientate al rapporto, per poter essere efficienti devono sviluppare il proprio Animus, ovvero attivare in sé gli archetipi Artemide e Atena
L’aspetto della dea vergine rappresenta quella parte della donna che un uomo può non riuscire a possedere né “a penetrare” mai, che non viene toccata dal bisogno di un uomo o dalla sua approvazione, che esiste di per sé, interamente separata da lui. Quando la donna vive secondo un archetipo vergine, non vuol dire che lo sia fisicamente o in senso letterale, ma che un’importante parte di lei lo è in senso psicologico.
Il termine vergine significa incontaminata, pura, incorrotta, non consumata e non manipolata dall’uomo, come in espressioni quali: il terreno vergine, la foresta vergine; oppure significa che non ha subito processi di lavorazione, come la lana vergine. L’olio vergine viene dalla prima spremitura delle olive e dei semi, con un processo a freddo, che da un punto di vista metaforico, significa non toccato dal calore dell’emozione o della passione. Il metallo vergine è quello che si trova in natura, non sotto forma di lega né mescolato ad altri elementi, come l’oro puro.
Secondo Leda Bearné, in Le vergini arcaiche, per una donna, oggi, è difficilissimo avvicinarsi all’idea di verginità così come veniva intesa nell’antichità, infatti, si tratta di una condizione raggiungibile solo prescindendo da ogni tipo di soggezione all’uomo, ritrovando in se stesse una femminilità pura, al di là di ogni morale e questa è una concezione del tutto contrapposta a quelle moderne.
Si tratta di ritrovare uno stato superiore e sovraumano che pare abbia caratterizzato alcune antiche sacerdotesse, fuse ed identificate con le antiche divinità femminili legate all’Eros, alla Natura ed alla Gioia.
Secondo l’autrice il vocabolo vergine potrebbe derivare:
- dalla parola latina virgo, ritenuta affine a vir, cioè “uomo robusto e forte”
- da vireo, “verdeggio”
- dal sanscrito urg (radice varg) “essere turgido, pieno di succo, forte, vigoroso, lussureggiante, pieno di energia”.
Il concetto per cui risulta lontano da quello di verginità fisica.
Vergine era la fanciulla non sposata, non sottomessa al giogo di un uomo ma non per questo illibata.
Vergine è la donna libera, sempre disponibile, sempre nuova, simbolo di rinnovamento e gioventù, datrice di gioia e libertà e canale per la manifestazione della Dea Primordiale.
Le Dee Vergini avevano degli amanti, chiamati in Grecia Paredri (“Colui che siede accanto”), che non si dovevano mai porre nei loro confronti con atteggiamento di superiorità o prevaricatore, né maestri né padroni.
Spesso erano fratelli o figli delle Dee stesse, divini e a loro paritari.
Quindi non assenza dell'uomo, ma assenza del maschio prevaricatore.
Esempi di questo tipo di donne erano senz'altro le Yogini seguaci di Durga in India, le seguaci della Dea Freya al nord, oppure le baccanti del culto dionisiaco, così come le vestali greche e romane custodi del fuoco.
Attraverso l’Unione con la Dea ricostituivano, per alcuni istanti, l’unità originaria, subito cancellata dall’anelito alla suprema libertà della Vergine, immacolata, perché nessuna forza estranea le ha mai usato violenza.
Un rapporto con uomo che avesse perso la purezza, cioè la capacità di sentire intimamente la sintonia con la Natura e con il femminile, avrebbe comportato la perdita dello stato di Verginità.
La Verginità, probabilmente, comportava per la donna l’avvertire, dentro di sé, la presenza di una pura essenza femminile inebriante e foriera di tenerezza, languore erotico, dolcezza e amore per tutte le manifestazioni naturali percepite come piene di bellezza ed armonia.
Le antiche Vergini avevano dentro di sé una inesauribile fonte di armonia e benessere ed erano in grado di riconoscerla una nell’altra, negli alberi, negli animali in una esaltante congiunzione con il Tutto.
Gli uomini e le donne arcaiche, dotati di una particolare sensibilità, probabilmente percepivano l’intero mondo naturale come un grandioso tempio a cielo aperto.
Le Vergini Dee, per difendere i luoghi sacri della Natura, erano in grado di trasformarsi in terribili streghe guardiane in grado di terrorizzare chi non aveva le qualità necessarie per entrarvi.
’uomo doveva essere in grado di percepire in sé la dolce energia femminile perché solo in quel modo avrebbe potuto intendere profondamente e venerare la Grande Madre fino a fondersi nella sua Immensa Gioia.
I congiungimenti tra uomini e donne erano probabilmente più liberi e naturali e non davano origine a legami di coppia.
Le donne riuscivano a lasciare da parte invidie e gelosie e a collaborare assieme alla vita comune.
Con l’affermarsi di una società guerriera, che adorava divinità maschili, il potere femminile fu messo sempre più in secondo piano, e man mano dimenticato, ridotto e infine distrutto.
Nacquero le basi del matrimonio, della famiglia, della discendenza patrilineare e l’idea che un uomo possa possedere una donna, imponendole la sua volontà anche attraverso la violenza.
La donna stessa dimenticò il suo potere, divenne più debole e vulnerabile e perse la Verginità.
Le donne persero la capacità di stare assieme, del vivere corale, si ritrovarono divise ad assumere ruoli incompatibili tra loro: madre, prostituta, fanciulla casta, moglie. Ruoli concepiti solo ed esclusivamente in relazione all’uomo.
La Verginità assunse il significato di chiusura (fisica e psicologica), una condizione di non rapporto con il maschio, diventato inferiore e non più Paredro, per preservare la propria autonomia.
Congiungersi con questo tipo di uomini, per le ultime Vergini sarebbe stato un tradimento ed una violazione dello stato di incondizionata ed assoluta libertà che avrebbero dovuto custodire e difendere. Con la diffusione delle religioni monoteiste l’uomo allargò il suo dispotico dominio sulla Natura.
Il culto fu affidato solo agli uomini e le antiche divinità femminili furono demonizzate.
Oggi, seppur non in tutti i paesi del mondo,le donne partecipano maggiormente a tutte le attività sociali ed economiche; la divisione rigida dei ruoli sembra essere abolita eppure poche donne moderne possono considerarsi davvero e totalmente autonome, indipendenti dai giudizi dei maschi; per lo più appaiono sole e divise, invidiose e gelose le una delle altre.
La donna, oggi, deve compiere uno sforzo immenso per mettersi alla ricerca del modo per ritrovare e risvegliare l’armonia nascosta nel proprio intimo per potersi, prima o poi, ricongiungersi all’infinito Amore della Grande Madre.
Le tre dee vergini della mitologia greca sono Artemide, dea della caccia e della luna; Atena, dea della saggezza e dei mestieri; Estia, dea del focolare e del tempio, che personificano rispettivamente gli aspetti di indipendenza, di attività e di non-rapporto propri della psicologia della donna. Artemide e Atena sono archetipi orientati verso l’esterno e verso la realizzazione, mentre Estia è rivolta al mondo interno. Tutte e tre rappresentano, nelle donne, altrettante spinte interne a sviluppare i propri talenti, a perseguire i propri interessi, a risolvere i problemi, a misurarsi con gli altri, a esprimere se stesse in maniera chiara, a parole o attraverso forme d’arte, a mettere ordine nell’ambiente che le circonda, o a condurre una vita contemplativa. Ogni donna che ha desiderato “una stanza tutta sua”, o che si sente a casa quando è immersa nella natura, o che si diverte a scoprire come funziona una cosa, o che gode della solitudine, manifesta un’affinità con una delle dee vergini.
All’interno di un sistema religioso in un’epoca storica dominata da divinità maschili, Artemide, Atena ed Estia si stagliano come eccezioni. Non si sono mai sposate, non sono mai state possedute, sedotte, violentate o umiliate da divinità maschili o da esseri mortali. Sono rimaste “intatte”, inviolate. Soltanto loro, fra tutti gli dei, le dee e i mortali, sono rimaste indifferenti al potere irresistibile di Afrodite, dea dell’amore, di accendere la passione e di suscitare sentimenti appassionati. Non erano spinte dall’amore, dalla sessualità, dall’infatuazione.
Quando una dea vergine, sia essa Artemide, Atena o Estia, è l’archetipo dominante, la donna, come ha scritto l’analista junghiana Esther Harding nel suo libro I misteri della donna, è “una in se stessa”. Una parte importante della sua psiche “non appartiene a nessun uomo”. Di conseguenza, come scrive la Harding, “la donna che è vergine, una-in-se-stessa, fa ciò che fa non per il desiderio di piacere, essere gradita, o approvata, sia pure da se stessa; non per la brama di estendere il suo potere su un altro, per catturarne l’interesse o l’amore, ma perché ciò che essa fa è vero. Le sue azioni spesso non sono convenzionali. Può dover dire di no, quando sarebbe più facile, ed anche più appropriato, convenzionalmente parlando, dire di sì. Ma, come vergine, non è influenzata dalle considerazioni che inducono le donne non vergini, siano o no sposate, ad orientare le vele e ad adattarsi alla convenienza”.
Se la donna è “una in se stessa” sarà motivata dal bisogno di seguire i propri valori interni, di fare ciò che per lei ha senso e la realizza, a prescindere da ciò che pensano gli altri.
Da un punto di vista psicologico, la dea vergine è quella parte della donna mai manipolata né dalle aspettative sociali e culturali collettive (di matrice maschilista), né dal giudizio di un uomo. L’aspetto della dea vergine è pura essenza di ciò che la donna è e di ciò a cui attribuisce valore; un aspetto che rimane intatto e incontaminato perché lei non lo rivela, perché lo custodisce sacro e inviolato, o perché lo esprime senza alterarlo per adeguarsi ai modelli maschili.
Ciò che caratterizza le dee vergini è una coscienza concentrata. Le donne Artemide, Atena ed Estia hanno la capacità di concentrare l’attenzione su ciò che le interessa, di lasciarsi assorbire in ciò che stanno facendo, e in questo processo di concentrazione è facile che escludano qualsiasi cosa sia estranea al compito che hanno per le mani o che si prefiggono a lungo termine
LaPietra del Destino, la Lia Fáil, fece la sua prima comparsa in Irlanda per mano dei Tuatha De Danann che la portarono dalla città di Fáilias, assieme alla Spada di Luce, Claíomh Solais, da Gorias, al calderone del Dagda da Murias e alla lancia di Lugh da Finias. Essi la regalarono ai Milesi loro successori e antenati del popolo che ora chiamiamo irlandesi.
I Tuatha De Danann (il Popolo di Dana) erano, secondo la tradizione irlandese, gli antichi abitatori dell'Irlanda: un'antica stirpe di natura divina dotata di poteri soprannaturali che, secondo quanto narrato dalla tradizione irlandese, giunse in una nuvola magica e, nella nebbia sollevata dai suoi druidi, sparì.
Si dice che i Tuatha De Danann portarono anche la scienza, la civiltà, l'arte. La pietra era in grado di riconoscere il vero sovrano del paese emettendo un alto grido. Divenne proprietà dei primi re d'Irlanda come "Pietra del Destino" e fu installata nella mitica collina di Tara, nella contea di Meath, sede dell' "Ard Ri", il re supremo che regnava su tutta l'Irlanda. La pietra fungeva da trono per l'incoronazione ed era il luogo in cui veniva amministrata la giustizia.
Nel VI secolo d.C. Tara fu abbandonata e, in seguito, i miti irlandesi e scozzesi concordano nel dire che fu portata in Scozia, dove ne possiamo trovare le tracce successive. Quello che oggi è un modesto villaggio del Tayside, vicino a Perth, era fino all'VIII secolo la capitale del regno dei Pitti: ci riferiamo al villaggio di Scone, allora importante centro religioso, oltre che sede dei regnanti, dove veniva conservata la conoscenza druidica e dove i re venivano incoronati sulla Pietra del Destino. Nel IX secolo il trono dei Pitti e quello scozzese furono unificati e il loro primo re, Kenneth McAlpine, trasportò la pietra nel luogo della sua incoronazione, a Dunnstaffnage Castle, a Perth. Due secoli dopo, il re inglese Edoardo I trovandosi invischiato in un litigio a nord del Border (il confine tra Inghilterra e Scozia), colse l'opportunità di trafugarla portandola a Westminster. Incapsulata nel sedile dorato dall'alto schienale, la pietra costituiva il trono su cui sono stati incoronati sin da allora i re e le regine britannici.
Ma la sua storia avventurosa continua ancora ai giorni nostri: prelevata dai nazionalisti scozzesi nel 1950, la pietra fu recuperata giusto in tempo per l'incoronazione dell'attuale regina, Elisabetta II, nel 1952.
Solo nel 1996 il governo inglese ha restituito definitivamente la pietra, oggi custodita nel Castello di Edimburgo. Ma, secondo alcune ricerche, la magica pietra di Tara non si trovava affatto incastonata nel trono inglese. Edoardo I portò una “falsa pietra”. Gli scozzesi, ritenendola molto sacra, la sostituirono perché non erano del parere che venisse asportata.
La leggenda misteriosa che essa emettesse un grido di fronte al vero re ha delle fondamenta sacre. Non si trattava solamente di magia ma di una vera e propria “vibrazione” intercettatrice delle qualità del designato.
In seguito la pietra fu presa dagli scozzesi, ma pare che le sue forze magiche si rifiutassero di collaborare perché, tolta dal grembo della “madre originaria”, era rimasta priva dell’anima divina che la guidava. Allora, per non perdere il prestigio, i caparbi, orgogliosi guerrieri di Scozia asserirono che i loro re venissero ugualmente incoronati tramite la scelta della pietra di Tara. Questo inganno non portò molta fortuna ai re incoronati in presenza di quel masso. Così gli scozzesi decisero di sostituirla con una falsa, nascondendo la pietra verde in un luogo segreto e conosciuto a pochi, poiché temevano le maledizioni e le vendette degli dèi d’Irlanda. Da ciò si deduce che la precedente pietra proveniente da Perth, per opera di Edoardo I, non sia quella originale.
Nelle lande deserte, desolate, la voce della potente Madre grida per il suo parto regale. L’uomo è rimasto solo, senza guida, non rendendosi conto di essere un comune mortale. Gli ultimi esponenti dei vari paesi non sono che simulacri di ciò che un tempo significava essere re, in tutta la pienezza che questo ruolo richiede, spirituale, sacro ed eroico.
Fu proprio la Pietra del Destino a segnare l’inizio di una dinastia regale. Forse venne dal cielo e si fermò per segnare uno spazio sacrale, formando un’aura di energie magiche. Tara fu il cuore celtico del suo popolo.
La Pietra del Destino, insieme agli altri oggetti sacri portati dai Tuatha De Danann. riapparirà in corrispondenti oggetti nel Ciclo del Graal, allo stesso modo che la sede di questo sarà in stretta relazione con l’Isola di Avalon, ma avremo occasione di vederlo nel dettaglio quando parlerò ancora del Graal. Quanto agli stessi Tuatha, essi, secondo alcuni testi, avrebbero abbandonato l’Irlanda, assumendo una forma invisibile come abitanti di meravigliosi palazzi “sotterranei” o di caverne montane inaccessibili agli uomini, fra i quali non tornarono a manifestarsi che eccezionalmente; secondo altri testi, ritornarono nella loro patria d’origine, ad Avalon. Le due versioni si equivalgono, si tratta di due figurazioni del centro primordiale divenuto occulto (“sotterraneo”) e inaccessibile
Fino ad ora abbiamo parlato di purificazione, per la prima Tavola, e di illuminazione, per la seconda, ora, giunti alla terza, parliamo di reintegrazione, di comprensione totale e quindi non solo intellettuale di ogni tradizione.
L'individuo muore una seconda volta, per poter rinascere ad un nuovo stato.
Le lastre sono tre e tre quindi sono le iniziazioni, ma solo due comportano un cambiamento di stato mentre una, quella quadrata, è solo, come abbiamo già notato, un’acquisizione di coscienza.
Nella Tavola circolare il neofita entra dal portale della Cattedrale e si immette in quel percorso che lo porterà ad uno stato nuovo lasciando dietro di sé quello che, con parole tanto sintetiche quanto approssimate, è d'uso chiamare il mondo profano.
Esso muore per quest'ultimo e rinasce ad uno stato dove è elemento equilibrato partecipe di un tutto armonico.
Nel passaggio dalla prima alla seconda Tavola non vi è cambiamento, non vi è né morte né rinascita, vi è soltanto maturazione.
È per questo che il lavoro che si compie in essa è solo intellettuale; è una lenta maturazione dell'individuo che era iniziata dal rifiuto dei conflitti del mondo alla soglia della Tavola rettangolare.
Ora, per questo passaggio, vi è vera morte e vera rinascita.
Lo stato di armonia con il tutto, la conoscenza più completa della tradizione, lasciano il posto alla rivelazione.
Charpentier dice che la Tavola mistica, inclusa nel coro, era chiusa. Le vie di accesso erano due, una riservata ai cappellani, mentre l'altra, "porta stretta, conduceva nell'arcata centrale della tribuna e si situava alla punta della Tavola quadrata nell’incrocio dei transetti".
Una via angusta, che sottolinea la difficoltà dell'attraversamento, passaggio quasi traumatico come fu in passato quello dal grembo materno alla vita del mondo.
Ora, il passaggio avviene dal mondo dell’intelligenza a quello della fede mistica.
Il contatto continuo fra il cielo e la terra, nella Tavola rettangolare, è ripristinato.
In essa, ogni cerimoniale diventa segreto agli estranei, il suo perimetro è rigorosamente delimitato dal resto della chiesa e neppure lo sguardo, in origine, era libero di spaziare al suo interno.
“Il Signore disse a Mosè: "Scendi e avverti il popolo che non irrompano verso il Signore per guardare e non cadano molti di loro. Anche i sacerdoti che sogliono avvicinarsi al Signore si santifichino, affinché il Signore non si avventi contro di loro". Mosè rispose al Signore: "Il popolo non può salire sul Monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertiti dicendo: poni dei limiti attorno al monte e dichiaralo Santo". Allora il Signore disse: "Va, scendi, poi salirai, tu ed Aronne con te, ma i sacerdoti e il popolo non irrompano per salire verso il Signore, perché egli non si avventi contro di loro". Mosè scese verso il popolo e lo disse loro".
Il Sinai è dunque una Tavola rettangolare, è la ricostituzione del Paradiso Terrestre, è decisamente il punto nel quale è possibile la comunicazione fra il cielo e la terra e l'essere in questo punto palesa il possesso del Santo Graal.
Se fino ad ora, per comprendere il significato della Tavola quadrata nella Cerca, ci siamo soffermati sulle avventure di Lancillotto ora, per avvicinarci a quella rettangolare, non possiamo che riferirci a quelle di Galaad.
È lui che assieme ad altri veri Cavalieri partecipa, come un tempo i dodici Apostoli, alla Mensa del Santo Graal.
"Coloro che non devono sedersi alla Mensa di Gesù Cristo se ne vadano, perché è arrivato il tempo in cui i veri cavalieri saranno nutriti con il cibo celeste".
È estremamente importante quanto dice questa voce nel castello di Corbenic. Secondo alcuni il nome del Castello di Corbenic proviene da Corbin-Vicus. La parola Vicus è di chiara matrice latina e sta per "insediamento". Corbin, invece, sembra sia la traduzione francese ("corben") di "corvo" (proprio come "bran" in gallese...). Sicché Castello di Corbenic sarebbe nient'altro che "Castello del corvo"... esattamente come Dinas Bran, la Fortezza di Bran, il dio gallese il cui nome significa “corvo” e che è collegato al calderone e al graal. Inoltre la valle del Llangollen, dominata dal castello di Dinas Bran, è attraversata da un fiume, il Dee River: il castello del Graal descritto da Chretien e dall’anonimo autore del ciclo vulgato è vicino a un fiume. L'Estoire du Saint Graal (secondo il ciclo vulgato) asserisce che Corbenic è un nome caldeo che significa "vaso sacro". Un importante medievalista (R. S. Loomis) invece fa notare che in francese cor benoit significa "corno benedetto" e potrebbe essere una chiara allusione al corno magico posseduto da Bran il Benedetto, uno dei Tredici Tesori di Britannia (colui che vi avesse bevuto vi avrebbe trovato la bevanda desiderata, un altro Graal ante-litteram). Ancora, "corps benoit" significa "corpo santo": Corbenic come una corruzione dell'espressione "corpo santo" inteso come corpo eucaristico di Cristo. La voce nel Castello di Corbenic ribadisce due precisi concetti.
Il primo è che per partecipare alla mensa di Cristo è necessario essere cavalieri.
Per poter entrare nella Tavola rettangolare bisogna cioè essere passati per la Tavola quadrata.
La lastra rettangolare è una Tavola mistica, ma non ammette l'ignoranza, e proprio per questo, nella Cattedrale di Chartres, anche all'ingresso al presbiterio riservato ai chierici e sacerdoti, sul pavimento vi è una Tavola quadrata; certo più piccola di quella della navata centrale ma non per questo svuotata dei suoi significati.
Il secondo è che la partecipazione a questa mensa è un qualche cosa di segreto, di non visibile ad occhi profani.
La comunicazione diretta fra il cielo e la terra non è un qualche cosa che cade sotto i sensi, essa è interiore, come il possesso stesso del Santo Graal.
I sacerdoti stessi debbono santificarsi prima di entrare nel luogo dichiarato santo che è, come il Monte Sinai, ben limitato e nascosto agli sguardi di chi non può salirlo.
Questo stato di inviolabilità del luogo sacro non può che fare pensare alla città di Luz, la misteriosa città di zaffiro della tradizione ebraica, il cui nome significa “mandorla”, il luogo dove si arresta il potere dell’Angelo della Morte. Inaccessibile ai profani e incontaminata dai cataclismi, si trova al centro del Paradiso Terrestre, fra le radici del mandorlo della vita (luz) dove sgorgano, dalla fonte della Rugiada Dolce, il nutrimento dei santi (miele), l’acqua purificatrice, il nettare degli iniziati (latte) e il fluido della conoscenza esoterica (vino): i quattro fiumi che disegnano una croce sulla superficie del mondo terrestre. Alla base del mandorlo una cavità conduce tramite un sotterraneo alla Gerusalemme celeste.
Essa è, ad un tempo, la città sotterranea e la città celeste; è situata nel "cavo", sia essa considerata come caverna o cielo.
Non a caso Dante, per raggiungere il Purgatorio e salire infine sulla vetta del monte dove è situato il Paradiso Terrestre, deve compiere un lungo viaggio sotterraneo.
Essa rappresenta dunque un qualche cosa di nascosto, interamente chiuso all'esterno, evidenziando in questo modo l'idea dell'inviolabilità.
Conseguentemente, Luz è il nome di una particella indistruttibile del corpo, alla quale l'anima rimane legata dopo la morte, fino al giorno della resurrezione.
Allora Luz, che contiene gli elementi necessari alla totale restaurazione, quando sarà giunto il momento, sotto l'azione della rugiada celeste, porterà l'essere alla sua rinascita gloriosa.
Ed è questa rugiada celeste che troviamo, sotto altro simbolo, nella Cerca del Santo Graal..
Le gocce di sangue, che Galaad raccoglie dalla lancia posta sopra il Santo Vasello e che ridanno vita ed energia alle membra di Re Vulnerato, sono questa rugiada, che agendo sulla potenzialità restauratrice dell'essere, il Luz, le porta alla salute.
E questa è certamente specchio di una salute interiore, non già fisica.
Le simbologie dell'albero e della lancia sono dunque da ritenersi simili, sottendendo entrambe medesimi significati che vanno ben oltre quello appena menzionato.
Infatti, sia l'albero che la lancia rappresentano l'asse del mondo, e sono perciò da mettere in stretta relazione alla montagna polare. Conseguentemente, la loro presenza rende possibile l’ identificazione del centro spirituale, del Paradiso Terrestre, ed è perciò non a caso che nella Cerca la lancia fa la sua apparizione assieme al Santo Vaso.
È in questa situazione che si ha lo stadio massimo di elevazione spirituale, la mondanità dell'individuo lascia il posto al rapporto diretto con Dio ed è il raggiungimento di questo stato sovraumano che fa si che Galaad possa dire: "L'altro giorno quando vedemmo una parte delle meraviglie del Santo Graal che Nostro Signore ci mostrò per compassione, io contemplavo le cose segrete che non sono svelate a tutti ma soltanto ai ministri di Gesù Cristo; e, mentre vedevo ciò che nessun cuore di uomo terreno potrebbe immaginare, né lingua descrivere, il mio cuore fu colmato da una tale gioia e soavità che, se fossi morto in quell'istante, sono certo che nessun mortale avrebbe conosciuto un trapasso migliore del mio". Analogamente in Matteo si legge : "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte sopra un alto monte.
E si trasfigurò alla loro presenza e il suo volto risplendette come il sole, e le sue vesti divennero bianche come la luce.
Ed ecco che apparvero loro Mosè ed Elia a colloquio con lui.
Pietro allora, prendendo a parlare, disse a Gesù: "Signore è bello per noi stare qui, se vuoi farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia."
Concludendo il suo parlare intorno alle tre lastre di iniziazione Charpentier dice che non è affatto strano che si presentino nell'ordine in cui le abbiamo situate a partire dal portale reale, quello che custodisce re e regine che non hanno più nome.
"La loro nascita corrisponde proprio alle nascite realizzate nella navata coperta."
Ogni volta che un individuo percorre con pieno profitto la via iniziatica delle tre lastre, persi i "pensieri e i sentimenti personali", egli genera il proprio lo superiore.
Quell'io superiore che nelle Nozze Chimiche è rappresentato dal Re e dalla Regina generati dalla iniziazione.
E per questo che il Re dice a Christian Rosenkreuz che egli è suo padre.
Essi sono senza nome, in quanto esistenti allo stato di potenzialità; chi dà loro il nome e, ad un tempo, li genera (in questo caso possiamo considerare le due cose coincidenti) è l'oggetto di ogni iniziazione: chi porta a termine la conoscenza di tutte e tre le lastre
Christian Rosenkreuz si trova di fronte a quattro strade ed è piuttosto imbarazzato nello scegliere quale prendere, soprattutto perché l’indicazione gli dice che, qualsiasi egli scelga, non c’è possibilità di ritorno. La prima è sassosa e pericolosa perché le aride rocce di un secco materialismo fanno sorgere l’inganno. Un ricercatore spirituale deve essere molto maturo per percorrere con sicurezza questa strada.
La seconda è una strada lunga ma sicura, la via della vita terrena, la via della fedele e paziente meditazione che porta lentamente ma sicuramente alla meta, purché il viaggiatore non si volti né a destra né a sinistra. Una porta a trascurare i compiti terreni per sogni non realistici ed è chiamata, nella Scienza Spirituale, la Via di Lucifero, la deviazione a sinistra. La deviazione a destra va in una così profonda immersione nelle cose materiali che niente di spirituale sembra avere realtà, ed è la Via di Arimane.
La terza strada è la Via Regia attraverso la quale gli uomini che hanno raggiunto la maturità in una reincarnazione precedente possono velocemente e facilmente trovare la loro Via allo Spirito.
La quarta, circondata di fuoco e di nubi, può essere attraversata soltanto da coloro che non siano più carne; è adatta soltanto per corpi incorruttibili.
Le quattro strade sono le vie aperte dalle quattro incarnazioni del nostro pianeta: l’antico Saturno, l’antico Sole, l’antica Luna e le fasi evolutive della Terra.
Noi denominiamo Luna quel pianeta precedente la Terra, e con ciò nondimeno la Luna di oggi, ch’è solo un frammento, un residuo della Luna antica, ma intendiamo uno stato precedente della nostra Terra che ebbe esistenza una volta e passò poi per un periodo di vita spirituale che usiamo chiamare pralaja, così come l’uomo passa per uno stato spirituale dopo la morte. Quel pianeta lunare è poi rinato, come rinasce l’uomo. A sua volta però lo stato planetario della Luna è la reincarnazione di uno stato planetario precedente che chiamiamo Sole. Questo Sole, che però non è il Sole attuale ma un essere del tutto diverso, è la reincarnazione dell’ultimo pianeta al quale dobbiamo guardare, quando parliamo delle diverse reincarnazioni della nostra Terra, e cioè l’antichissimo Saturno.
La strada rocciosa e sassosa è quella dell’antica Luna; la strada lunga e sicura è quella della Terra; la Via Regia quella dell’antico Sole, che soltanto gli alti iniziati possono percorrere; la strada “adatta soltanto ai corpi incorruttibili” è quella dell’antico Saturno.
Christian Rosenkreuz si siede e comincia a mangiare il suo pane. Improvvisamente una colomba bianca come la neve vola giù, messaggera di pace e di amore, ed egli divide il suo pane con lei. Possiamo dire che la sua volontà è messa a disposizione di questa messaggera dello spirito. Ma anche il corvo che la molesta è un messaggero del mondo spirituale: ci vengono in mente i corvi di Elia, ed il fatto che il Corvo era il primo grado in certe iniziazioni.
Seguendo i due uccelli nello sforzo di aiutare la colomba, il viaggiatore si trova già sulla seconda strada. Una tale scelta non può essere presa dalla mente conscia, e noi sappiamo che avvenimenti apparentemente sfortunati possono portarci a fare un passo nella direzione giusta. Christian Rosenkreuz sente pietà ed amore per l’uccello, e questi sentimenti sono spesso una guida più sicura del giudizio intellettuale. Si volta e considera se tornare indietro; ma un vento così forte soffia contro di lui che egli si accorge che sarebbe impossibile. Una volta intrapreso un sentiero occulto, il ricercatore spirituale non può tornare indietro. Si accorge anche di aver lasciato il suo pane – la sua volontà spirituale – dietro di sé.
Così egli procede con sicurezza per tutta la giornata lungo la strada, viaggiando verso sud, seguendo la direzione del volo della colomba e usando la sua bussola per non deviare a destra o a sinistra.
Abbiamo detto che la tavola quadrata è quella della Cabala, o meglio, Quabala che significa tradizione; quelle tradizioni ebraiche che si vogliono risalenti ai primi uomini.
A quei primi uomini che non avendo ancora commesso il peccato d'orgoglio, ed essendo quindi in uno stato di contatto diretto con Dio, possedevano la conoscenza di quella dottrina che è esposta nei Sacri Libri.
La rivelazione della chiave per l'esatta comprensione delle Sacre Scritture è stata fatta, perciò, all'Adamo Terrestre: l'uomo e gli uomini ad un tempo.
Questa è perciò una tavola di illuminazione, che tende a recuperare la Parola, la conoscenza globale del mondo.
Tramite essa si ha il raggiungimento di quello stato adamitico verso il quale tende Christian Rosenkreuz dopo la prova dei pesi. Dopo aver dimostrato di possedere la conoscenza delle sette arti liberali gli vengono date dal re le insegne del Toson d'Oro e del leone rampante.
Il primo rappresenta la trasfigurazione della vita nel sentimento ed il secondo che questo sentimento si innalza verso lo spirito.
Gli adepti, quindi, iniziati alla Grande Opera, hanno accesso alla comprensione della Tavola quadrata ma non a quella rettangolare poiché per arrivare ad essa bisogna che, come per Christian Rosenkreuz, l'Alchimia lasci il posto alla Teologia.
La prima è infatti rivolta alla penetrazione dei segreti della terra mentre la seconda è rivolta verso i segreti del Cielo.
"Lancillotto, se non state attento nell'astenervi dal commettere peccato mortale e non abbandonerete i pensieri terreni e le delizie del mondo, invano andrete in questa Cerca. Sappiate che la vostra cavalleria non vi sarà di nessun aiuto se lo Spirito Santo non vi mostrerà la via da seguire in tutte le avventure che incontrerete". Questo disse l'eremita a Lancillotto e questo è l'ammonimento che deve sempre tener presente ogni iniziato alla Tavola quadrata. Ma non basta, l'eremita prosegue ancora dicendo che chiunque avesse una fede cosi misera e debole da credere che il proprio coraggio possa servire più della Grazia di Nostro Signore, allora per costoro non esisterebbe altro che vergogna e non potrebbe ottenere assolutamente alcun risultato.
In tutta la Cerca è costantemente ribadito questo concetto della pericolosità della cavalleria, che dà forza e potenza a chi vi appartiene e che quindi dà la possibilità di fare, ad un tempo, molto bene ma anche molto male.
L'Eremita dice a Lancillotto che entrò a far parte del grande ordine della cavalleria provvisto di tutte le bontà e virtù terrene ma, quando rinnegò il Cristo per diventare il servo del Diavolo, in lui "entrarono tante virtù del nemico quante prima erano state quelle di Nostro Signore".
"Appena i tuoi occhi furono riscaldati dall'ardore della lussuria, cacciasti l'umiltà per accogliere l'orgoglio, cominciasti ad andare a testa alta, fiero come un leone: segretamente pensasti che non avresti più badato a nulla finché non fosti riuscito ad ottenere ciò che volevi da colei che ti sembrava così bella".
E questo ci mostra come gli strumenti di lavoro per l'edificazione dell'uomo possono diventare strumenti di offesa e di morte quando l'orgoglio prende il posto dell'umiltà.
La cavalleria diventa solo cavalleria terrena e ai suoi appartenenti viene interdetta ogni possibilità di elevazione, intenti, come sono, alla ricerca di gioie mondane.
"Infatti la Cerca non è di cose terrene ma Celesti" e perciò la vista del Santo Graal sarà preclusa a tutti coloro che non si lasceranno guidare da Dio nell'arida razionalità di questa Tavola. È necessario perciò lasciare la cavalleria terrena per appartenere a quella celeste.
Solo così si potrà passare dalla Tavola quadrata a quella rettangolare; dalla scacchiera alla Tavola dell'Ultima Cena.
La lastra
quadrata ben si lega al simbolismo della scacchiera.
Il gioco degli scacchi, come è noto, è originario dell’India, ma anche gli
Egizi conoscevano un gioco molto simile: il Senet, la cui prima raffigurazione
risale al 2600 a.C.
con il faraone Hesy. L’Occidente medievale lo ha conosciuto grazie alla
mediazione dei Persiani e degli Arabi, come testimonia fra l’altro l’espressione
“scacco matto” (in tedesco: Schachmatt)
derivante dal persiano shah (re) e
dall’arabo mat (è morto).
Rappresenta essenzialmente il conflitto fra devas
e asuras, che si disputano la
scacchiera del mondo. È qui che il simbolismo del bianco e del nero, già
contenuto nell’alternanza delle caselle della scacchiera, acquista tutto il suo
valore: l’armata bianca è quella della Luce, l’armata nera è quella delle
tenebre. Da un punto di vista relativo, la battaglia raffigurata sulla
scacchiera rappresenta sia quella di due veri e propri eserciti terreni,
ciascuno dei quali combatte in nome di un principio, sia quella dello spirito e
delle tenebre nell’uomo (in una guerra santa, è possibile che ciascuno dei due
avversari possa legittimamente considerarsi il protagonista della lotta della
Luce contro le tenebre. È questa un’altra conseguenza del duplice senso di ogni
simbolo: quello che per
l’uno è espressione dello Spirito, può essere l’immagine della materia
tenebrosa agli occhi dell’altro). Ma la scacchiera è anche un simbolo legato ai
Templari e al loro vessillo, il beauceant, (spesso scritto anche in altre
grafie: baussant, bauçant o beaucant), che sia in forma di scudo che di bandiera era suddiviso
in due parti opposte: il bianco e il nero.
Essa arrivò in Europa proprio dalla Terrasanta, luogo di operazione dei
Templari, importata dai soldati che tornavano dalle Crociate con qualche
piccola modifica occidentale (il pezzo del visir si tramutò nella regina). Si
dice che i pavimenti del Tempio di Salomone (sulle rovine del quale
alloggiavano i Templari in Palestina) fossero disegnati proprio di quadrati
bianchi e neri, come simbolo della contrapposizione del bianco e del nero e, in
senso allargato, del bene e del male, dell’istinto e della ragione. Nella
costante lotta tra il buio e la luce c’è insita la consapevolezza che l’uno non
può esistere senza l’altra (una sorta di versione occidentale del ben più noto
simbolo dello yin e dello yang).Molti edifici sacri legati ai Templari riportano ancora oggi l’elemento del bianco e del nero, in alcuni simboli e negli stessi pavimenti con piastrelle bianche e nere alternate, enormi scacchiere sui quali si camminava come pedoni umani.
Il Bianco muove sempre per primo. Il Bianco rappresenta oltre la Luce, l'anima pura, l'energia
sacra che abbiamo al nostro interno. Il Nero invece, alchimisticamente,
rappresenta la Nigredo,
la Nera Notte
dell'Anima, la morte spirituale che dobbiamo affrontare in vista della
Resurrezione.
Anche presso i Celti vi era un gioco simile agli scacchi: il fidchell (o fidhcheall, fidceall, fithchill) in irlandese
o gwyddbwyll in gallese. Il nome in irlandese e in gallese è un
composto col significato di "la saggezza del legno". Nelle leggende irlandesi il fidchell è giocato da re,
dèi e guerrieri, ossia da chi manovra opportunamente le Forze del Bianco e del
Nero e può determinare le sorti dei popoli.
La sua invenzione era attribuita al dio Lugh e un abilissimo
giocatore era suo figlio Cúchulainn. Varie partite di fidchell formano un importante
episodio del Tochmarc Étaíne.
Nella letteratura gallese appaiono
spesso tavole di gwyddbwyll prodighe, a volte mistiche. Ne Il Sogno di
Rhonabwy, un racconto associato al Mabinogion,
re Artù
e Owain mab
Urien giocano a gwyddbwyll con pedine d'oro su una scacchiera
d'argento. Ne Il
Sogno di Macsen Wledig Eudaf sta intagliando le pedine per la
sua scacchiera d'oro, quando viene visitato dall'imperatore Magno Massimo.
La scacchiera di Gwenddoleu ap Ceidio appare tra i Tredici
Tesori dell'Isola di Britannia in cataloghi risalenti al XV-XVI
secolo: la scacchiera era d'oro, le pedine erano d'argento e giocavano tra di
loro muovendosi da sole. Tradizionalmente l’argento simboleggia il principio
lunare, mentre l’oro simboleggia il principio solare e regale. Una scacchiera
magica simile appare in Peredur
ab Efrawg. Una serie di versioni francesi delle storie sul Graal citano scacchiere
simili con pedine semoventi (la Seconda Continuazione
del Perceval
di Chrétien de Troyes) o con solo una parte che si
muovono da sole, mentre le altre vengono mosse dall'eroe (la Storia del Graal).
Tornando al simbolismo della scacchiera e dei suoi pezzi, l’Alfiere è Giove,
si muove definendo un triangolo rappresentando il potere spirituale.
Il
Cavallo è Marte, si muove con un salto improvviso, rappresentando il salto
intuitivo dell’iniziato.
Il
Pedone infine è l’uomo che percorre la scacchiera con piccoli umili passi, ma,
nel caso riesca ad arrivare senza soccombere alla fine del campo di gioco
superando tutti gli ostacoli, potrà ottenere il potere assoluto della Madre
Terra, un percorso iniziatico che porta alla trasformazione alchemica di se
stesso come uomo in Regina come Dea che può andare ovunque, il ritorno al
Femminino sacro universale. Ma questo solo per l’unico pedone in tutta la
scacchiera che riuscirà nell’intento.
Non a
caso raramente interviene la fortuna, come accade in molti giochi dove vi è
spesso l’elemento del caso, negli scacchi vince il più astuto e intelligente
giocatore. Colui che sa vedere “oltre”, che sa intuire le mosse dell’avversario, che sa costruire una attenta strategia. L’eterna lotta tra luce ed ombra ove
viene messo in gioco il cosmo intero.
Inoltre
i quadrati sono 64, il numero della realizzazione dell’unità cosmica.
L’intero
gioco era un’unica ricerca del Graal, si doveva combattere contro forze oscure
e affrontare astute prove. Inoltre la Regina e il Cavallo possono muoversi nella
scacchiera in tutti i sensi. È quella cavalla, “cabala”, conoscenza della
tradizione, che montata dal cavaliere lo fa muovere nella scacchiera quadrata
utilizzando il cerchio.
L' importante, ora, è porre in evidenza che questa, che è una tavola
intellettuale, non può per questo fare a meno della precedente iniziazione per
non cadere nell'aridità di quei numeri che si possono usare con la sola facoltà
del cervello ma che nulla significano se non si è stati istruiti alla loro
lettura.
"Disgraziato colui che prende il vestito per la legge stessa, dice lo
Zohar".
Il cavaliere è quindi l'iniziato alla tavola quadrata, è colui che entra nella
Cattedrale montando il cavallo.
Ogni operazione che si compie sulla Tavola quadrata è essenzialmente razionale,
al limite, di organizzazione, ma, contemporaneamente, le leggi che presiedono a
queste operazioni non sono assolutamente il frutto del puro intelletto umano.
Sempre, ogni operazione dell'uomo deve essere guidata da Dio e questa è, più
delle altre, la Tavola
delle incertezze, e perciò molto difficile; simile alla prima strada che si
presenta di fronte a Christian Rosenkreuz nelle sue Nozze Chimiche:
"La prima è breve ma pericolosa e passa attraverso vari scogli che tu
potresti superare solo a grande fatica".
Sono questi gli scogli del materialismo, generatori dell'inganno che fanno sì
che quel ricercatore spirituale che vuole percorrerla senza pericolo e incertezze
debba essere molto maturo
Da:http://digilander.libero.it/ilsitodelmistero/trelastregraal.htm http://www.luoghimisteriosi.it/toscana_vicopancellorum.html