Sii come il salice.
Nelle avversità sii come il salice che asseconda la furia dell'uragano piegandosi di quà e di là, secondo il soffiare del vento; poi passata la tempesta ricompone i suoi rami.
(Pensiero di saggezza zen).
Willow, il salice, è il rimedio floreale di Bach numero 38:
"Per coloro che hanno sofferto a causa delle avversità o della sfortuna e trovano difficile accettarlo, senza lamentarsene e senza provare risentimento, poiché giudicano la vita in base al successo. Sentono di non aver meritato una prova così grande, lo trovano ingiusto e ne sono amareggiati. Spesso accade loro di provare un interesse minore verso quelle cose della vita che prima facevano loro piacere".
(Edward Bach)
Il salice è protagonista di un versetto dei Salmi in cui si rievoca la cattività degli Ebrei:
Lungo i rivi di Babilonia dimorando
là insieme piangevamo al ricordo di Sion.
Ai salici di quel paese
avevamo appeso le nostre cetre.
Per Metodio di Filippi le arpe erano i corpi ancora terrestri, i fiumi di Babilonia “le acque della vita circondata dalle onde assordanti del disordine e commista con la carne”; i salici a loro volta simboleggiavano la castità su cui gli uomini avevano appeso le loro arpe, ovvero i corpi. L’uomo, intorno al quale muggiva la tentazione delle ondate assordanti del disordine, invocava il Signore: “Non lasciare che le nostre arpe cadano, che le ondate della concupiscenza le strappino dall’albero della castità”.
La capacità di germogliare molto velocemente e resistere agli ostacoli fa del salice un albero forte e pieno di vitalità, anche se nell’immaginario popolare, i rami cadenti fino al suolo e le foglie pendule – evocando le lacrime – hanno fatto di quest’albero l’emblema del ricordo nostalgico e della malinconia.
Se viene abbattuto o potato rinasce con un gran numero di rami nuovi e questo ne fa un simbolo di morte e rinascita, ma anche il fatto di prosperare vicino ai corsi d’acqua gli dà la parvenza di un essere tra i mondi e ne fa un testimone delle leggende celtiche di importanti duelli tra eroi o dei che avvengono in luoghi liminali, quali sono i guadi e le rive dei fiumi.
È una pianta allo stesso tempo legata al mondo della luce e a quello delle ombre, alla Vita e alla Morte, alla chiarezza, attraverso la preveggenza, ma anche alla confusione, per via delle nebbie che, secondo le leggende, venivano evocate per mezzo di esso, inoltre è sacro a dee legate all'aldilà, come Ecate e Persefone. Ma è anche una pianta guaritrice, da essa si estrae l'acido salicilico.
Sacro ai bardi e alla Dea Brigid, che era la loro protettrice, oltre che protettrice dei guaritori e dei fabbri. Si diceva che fosse il “vento tra i salici” a portar loro l’ispirazione.
Brigid, oltre che dea del fuoco, era dea dell’acqua e dei pozzi sacri, e il salice è molto legato all’acqua. Acqua e fuoco, dunque, come la nebbia che evoca il salice, come i due elementi che caratterizzano il simbolismo del cigno, anch’esso sacro a Brigid.
Era forse anche per questo motivo che sovente veniva utilizzato dai Celti per la costruzione di arpe. L’arpa celtica più antica e meglio conservata, pare essere quella di Brian Boru, risalente al XII secolo: il corpo dello strumento venne intagliato in un unico pezzo di legno di salice, mentre il ginocchio e la colonna furono ricavati da legno di quercia. Fusione, questa, che vede armonizzarsi perfettamente il principio femminile del salice con quello maschile della quercia.
Inoltre è nel corpo cavo che riceve la vibrazione della corda, mutandola, e portando così alla vita un suono capace di incantare. Possiede, quindi, il potere di trasformare, oltre che di generare, e questo fatto riporta inevitabilmente alla concezione di Nascita/Morte/Rinascita che gli antichi attribuivano alla Dea Madre e al Sacro Femminino in generale.
È interessante notare come anticamente il legno di quest’albero fosse utilizzato in special modo per creare vasi e contenitori di vario tipo, oggetti in grado di contenere o ricevere… tipica simbologia del grembo femminile.
Vi è un'interessante leggenda gaelica che vede protagonista il salice e il suo rapporto con la musica: secondo la narrazione vi era un tempo un re di nome Labra, il Marinaio, che era solito farsi tagliare i capelli una volta l'anno da un uomo che in seguito veniva messo inevitabilmente a morte. Il timore del re era, sembra, che qualcuno potesse venire a conoscenza del suo segreto, ovvero che possedeva orecchie di una lunghezza davvero spropositata. Tuttavia accadde una volta che l'addetto al taglio dei capelli regali fosse anche l'unico figlio di una vedova, che con pianti infiniti e disperati mosse il re a commozione, così che la vita del giovane fu risparmiata. A condizione, però, che mai e poi mai rivelasse ad alcuno quella sua particolarità fisica. Ma col passare del tempo il peso di quel segreto divenne insostenibile, ed il ragazzo cadde malato. Fu perciò chiamato un druido, che gli consigliò di percorrere una strada nel bosco fino ad un punto in cui si incrociassero quattro vie; qui avrebbe dovuto prendere quella di destra e confidare il suo segreto al primo albero che avrebbe incontrato. Il giovane seguì il consiglio e il primo albero che incontrò fu un salice, al quale confidò il suo fardello e grazie al quale poté guarire. Non passò molto tempo che l'arpista Craftiny decise di fabbricarsi una nuova arpa, usando proprio il legno di quel salice. La notte stessa fu invitato come al solito a suonare al banchetto del re, ma come toccò le corde dello strumento, da queste uscì una voce che svelò a tutti l'imbarazzante segreto di re Labra.
Racconto curioso quanto interessante, che potrebbe nascondere tra le righe il potere di quest'albero di svelare segreti e misteri occultati.
I boccioli del salice, che appaiono all'inizio della primavera, sono una grande attrazione per le api che in questo periodo iniziano il ciclo dell'impollinazione. Nell'antichità si diceva che le api selvatiche possiedono la saggezza della Dea proprio per aver succhiato il nettare del salice, oltre a quello dell'erica. In quanto animali sacri all'aspetto femminile del divino, le api sono anche ritenute sue messaggere, e il loro nutrirsi del polline di salice dona a quest'albero un significato ancora più profondo.
Le tradizionali imbarcazioni delle popolazioni del Galles e dell’Irlanda, le coracle, sono costruite in vimini, quindi con rami di salice. Il salice può essere perciò visto come la continuazione dell’ontano, perennemente sommerso dall’acqua per metà, poiché era il legno con cui venivano costruiti i pilastri che reggevano le palafitte. Una volta acquisita la conoscenza di quello che c’è sopra e sotto le acque si può intraprendere la navigazione con l’aiuto del salice, andando alla deriva lontano dalla società con il solo supporto e la guida degli alberi ad assisterci (una forma di punizione presso i Celti era quella di essere allontanati dalla tribù o dal clan, a volte su una coracle alla deriva).
Omero racconta che Circe, accomiatandosi da Odisseo, gli diede una serie di istruzioni perché potesse penetrare nelle case dell’Ade. Gli disse tra l’altro:
E quando con essa [la nave] l’Oceano avrai attraversato
ecco la costa bassa e le selve di Persefone,
ecco gli alti neri pioppi e i salici che perdono i frutti: là tu approda con la nave, sull’Oceano dai gorghi profondi,
e scendi nelle case putrescenti dell’Ade.
“I salici che perdono i frutti”: così scrive Omero, secondo un’osservazione ripetuta da Teofrasto, il quale notava a sua volta come i frutti dei salici cadessero prima di giungere a maturazione. In realtà dopo la fioritura la fruttificazione si completa assai rapidamente con frutti che sono capsule contenenti alcuni semi attorniati da peli cotonosi e capaci di provvedere a una vasta disseminazione anemocora. Ma la rapidità della loro maturazione e la conseguente caduta evocò nei Greci l’immagine di un albero vivente uccisore del proprio frutto, simbolo della Madre Terra che perpetuamente genera, per poi riprendere nel suo grembo gli esseri generati.
Per questo motivo il salice fu sacro a tutte le dee madri. Era nacque fra i salici dell’Heràion di Samo; e a Sparta si venerava Artemide Órthia o Lygósdesma, così soprannominata perché adorna di rami di lygos, una specie di salice: “E la chiamano non solo Órthia ma anche Lygósdesma” spiegava Pausania “perché fu trovata in un cespuglio di lygos”. Come si è detto, l’albero era sacro anche a Persefone e a Ecate il cui nome, che significa centinaio, alludeva ai cento mesi della permanenza della figlia di Demetra presso Ade. Il suo legame con Persefone è testimoniato dal famoso dipinto di Polignoto a Delfi, descritto da Pausania, dove Orfeo riceveva il dono dell’eloquenza toccando i salici di un boschetto sacro alla dea.
Questo situarsi del salice fra vita e morte è raffigurato nell’affresco Paesaggi dell’Odissea, ritrovato sull’Esquilino e ora conservato nei Musei Vaticani.
Nel giorno sacro delle Tesmoforie, quello in cui rievocando il mito di Demetra e Core si celebrava il mistero della vita primigenia, del campo e dell’utero che offrono nuovi frutti. Le donne, per poter riposare, preparavano un giaciglio di rami di salice deposto a immediato contatto della Madre Terra. Sul simbolismo di quei salici i pareri sono discordi: se è vero che le fonti storiche di cui disponiamo sostengono che il giaciglio salvaguardava la castità delle donne, poiché i salici “distruttori dei frutti” erano considerati anche simboli dell’astinenza sessuale, è pur vero che l’albero della Grande Madre non poteva non alludere alla santificazione del grembo materno, sicché quel giaciglio era anche un invito alla fecondità. “Il salice” commenta Hugo Rahner “è appunto qualcosa di duplice, in riscontro alla duplicità delle dee Demetra e Core che si veneravano ad Eleusi: una pianta che è a un tempo madre e vergine, germogliante e casta, vivente e morta.”
In ogni modo il simbolismo dell’infecondità si radicò nella psiche degli antichi, come testimonia non soltanto il verso di Omero ma anche questo passo di Plinio: “Improvvisamente il salice perde il suo seme ancor prima che questo abbia raggiunto una qualche maturità. Perciò Omero lo chiama “il distruttore del frutto”. In epoca più tarda a questa parola poetica è stata data una spiegazione criminosa affermando che il seme del salice sarebbe per le donne un espediente per procurare l’aborto”. Lo si chiamò anche ágnos, cioè casto, come ricordano gli scoli ai Theriacá di Nicandro di Colofone. “Multifiorito è il lygos o ágnos, che le donne spargono sul loro giaciglio nella festa delle Tesmoforie. Esso è efficace contro gli stimoli sessuali; per tale ragione si chiama appunto ágnos poiché è, per così dire, “privo di figliolanza” (ágonos)”.
In Grecia, quindi, il salice era dedicato alle dee lunari, da Era a Persefone, da Circe a Ecate, tutte personificazioni notturne e infere della Luna come triplice dea. L’albero – heliké in greco arcaico – aveva dato il nome al monte Elicona sul quale dimoravano le nove Muse, originariamente sacerdotesse orgiastiche della dea Luna. A Ea, nella Colchide, Giasone, partito alla conquista del Vello d’Oro, dovette attraversare il cimitero della maga Circe, che era piantato a salici sulla cui cima venivano esposti cadaveri di uomini avvolti in pelli di vacca non conciate.
Si narrava che la culla di Zeus sull’Ida fosse appesa ai rami di un salice cresciuto fuori della caverna dov’era nato il futuro padre degli dei. La sua nutrice, secondo Plutarco, era chiamata Itea, nome greco del salice. Da Itea derivava Itono, “l’uomo salice”, re di Itone, nella Focide. Quei nomi, osserva Jacques Brosse, sembrano indicare che nella Tessaglia fosse esistita un tempo una dea del salice che aveva dovuto cedere il posto ad Atena. Anche gli abitanti di Gerusalemme avevano adorato una dea quasi omonima, Anatha, divinità del “salice propiziatore della pioggia”.
L’albero era sacro alla Luna perché prediligeva l’acqua, e sui suoi rami nidificava il principale uccello orgiastico della dea, il torcicollo: un migratore primaverile che sibilava come un serpente, alzava la cresta quando era adirato, aveva il collo mobilissimo, deponeva uova bianche e aveva sulle piume dei segni a V, simili a quelli presenti sulle scaglie dei serpenti oracolari, consacrati alla Luna nella Grecia antica. Non a caso nell’alfabeto celtico degli alberi il salice era il quinto dell’anno, e cinque era il numero sacro della Grande Madre. Era un albero molto importante per i Celti, tanto che i sacrifici dei druidi venivano offerti al plenilunio in cesti di vimini e le loro selci funerarie avevano la forma di una foglia di salice.
Serviva inoltre, insieme con altri alberi, a trarre divinazioni per mezzo della “recitazione con la punta delle dita di una mano”.
Robert Graves scrive che Il pollice era dedicato alla betulla, l’indice al sorbo selvatico, il dito medio al frassino, l’anulare all’ontano, il mignolo al salice.
Il suo stretto legame con la Luna lo ha tramutato nel Medioevo nell’albero degli incantesimi e in quello prediletto dalle streghe. “Nell’Europa settentrionale” osserva Robert Graves “il suo legame con le streghe è così forte che le parole witch, strega, e wicked, malvagio, derivano dallo stesso termine che anticamente indicava il salice. Altrettanto si dica della parola wicker, vimine.” Nelle campagne inglesi si dice ancora oggi che la cosiddetta “scopa delle streghe” è fatta con un bastone di frassino, rametti di betulla e legacci di vimine, cioè di salice: la betulla, perché gli spiriti maligni, cari alle streghe, vi rimangono impigliati, il frassino perché le salva dall’annegamento, il vimine in onore di Ecate. Le streghe dell’isola di Sein si imbarcavano per i loro viaggi notturni in una cesta di vimini che le portava in mare aperto, dove praticavano i loro malefici.
In Lituania, sopravvisse per molto tempo il culto della dea lunare, chiamata Blinda, il cui nome significa, appunto, salice. Secondo il mito che la riguarda, la dea possedeva una tale fecondità da consentirle di partorire anche da mani, piedi e testa. La dea Terra, invidiosa, un giorno in cui Blinda camminava lungo un prato palustre, le fece affondare i piedi nel fango, imprigionandola e trasformandola per sempre in un salice.
Nel 1805, nel villaggio di Kalnekai, sulla riva destra del Niemen, si vedevano ancora delle contadine recarsi nei pressi di un vecchio salice adorno di ghirlande di fiori e pregarlo per la fortuna e la moltiplicazione dei bambini. Il clero cattolico, dopo aver inutilmente tentato di far cessare quell’usanza pagana, dovette rassegnarsi a porre un crocifisso sul tronco.
In epoca cristiana il salice mantenne l’unica caratteristica che era accettabile dagli esponenti ecclesiastici, ovvero il suo rimando alla castità pura, alla verginità della Madonna e all’opportuno atteggiamento che i fedeli dovevano tenere per condurre una via retta e giusta.
Purtroppo però non tutta la cristianità era in accordo con questa visione, tanto che lo stesso salice era ritenuto “maledetto”, “malefico” e “diabolico”, perché sacro alle antiche divinità femminili e, successivamente, alle streghe.
In latino era detto salix, ma i Romani chiamavano vimen-viminis (vimine) quelle varietà – il Salix alba, il trianda e il purpurea – i cui rametti flessibili, decorticati dopo una lunga macerazione, venivano utilizzati, come d’altronde ancora oggi, per la fabbricazione di cesti, di panieri e di ogni tipo di legacci. Vimen ha ispirato anche uno il nome di uno dei colli di Roma, il Viminale, così detto perché un tempo era ricoperto di salici.
La credenza greca secondo la quale l’albero favoriva la castità ispirò una medicina per calmare l’ardore sessuale, come ricorda Plinio.
Le foglie e le gemme del Salix alba hanno realmente un effetto sedativo anche a livello sessuale, curano le psoriasi e gli eritemi e sono efficaci contro l’insonnia.
Ma la proprietà più nota è quella della corteccia usata nel passato per combattere la febbre e le malattie dovute all’umidità, e in particolar modo i reumatismi cronici: pratica che aveva un fondamento, come hanno dimostrato i fitoterapisti contemporanei. Essa infatti, insieme con le foglie, contiene salicina che svolge un’azione antireumatica, antitermica e astringente. Oggi la salicina è stata sostituita dell’acido acetilsalicilico che è alla base dell’aspirina.
Il salice, dunque, è Luna, Donna, Dea ed Acqua... tutti questi aspetti muliebri fanno parte della sua natura, della sua essenza; perciò, come abbiamo visto, esso diviene l'albero della visione, della sensitività, dell'ispirazione poetica in ogni sua forma. Ma è anche l'albero della trasformazione interiore, dell'incanto e della magia, quella stessa magia che da sempre attrae e affascina l'essere umano, per sua natura assetato di Conoscenza.
È un albero divinatorio ed onirico, in quanto la Luna è l'astro notturno che svela profezie, che solleva i veli della realtà materiale per mostrare quel mondo impalpabile che pare sempre così sfuggente, così lontano, eppure allo stesso tempo tanto vicino, situato addirittura dentro di noi. È un albero psicopompo, in grado d'accompagnare nell'Altromondo, quello, appunto, del Sogno e dell'immateriale.
È la mano forte e salda che ci sorregge durante il viaggio, è il grembo liquido che ci custodisce mentre sorvoliamo quei paesaggi arcani, scoprendo tesori nascosti e arricchendoci di nuove consapevolezze, e che ci guarisce quando ci feriamo o ci ammaliamo di dolore. È protettivo, amorevole, ma, se necessario, può divenire fatale, quasi spietato. Ha in sé il triplice volto divino: l'innocenza fanciullesca, l'amorevole passione, la mano scheletrica che infonde morte ai propri figli...
Le sue radici cercano l'abbraccio del terreno acquoso, bagnato. È un ricercare il ritorno alle origini, all'umido tepore della Madre, mentre con tutto il suo corpo si solleva più che può sino al Cielo, desideroso di sfiorare quel volto argentato e materno che nella notte lo osserva con pazienza, benedicendolo. Poi, stanco, abbassa sinuoso le braccia vegetali, per cercare nuovamente conforto nella calda Gea, adorno di raggi lunari rubati di soppiatto e posati con civetteria femminile sulle proprie piccole e sottili foglie. E forse, abbassando lo sguardo sulla superficie dell'acqua, si sofferma a contemplarne i riflessi opalescenti e, ipnotizzato, inizia così a sognare a sua volta.
Da: Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante di Alfredo Cattabiani
Celtic Tree Mysteries. Practical Druid Magic & Divination di Steve Blamires