lunedì 28 febbraio 2011

I cavalli e l'acqua


La sua particolare caratteristica di animale adatto al trasporto e al movimento lo rende un essere legato sia all'elemento oscuro sia all'elemento luminoso: alla notte segue il giorno e il cavallo diviene quindi l'animale che “porta” la luce (il carro di Apollo è trainato da cavalli), assumendo il colore bianco.
Quando è nero è simbolo della Dea nel suo aspetto terribile di Signora della Battaglia e della Morte, regina del reame oscuro e della divinazione. È interessante notare che in inglese la parola “incubo” (nightmare, letteralmente "giumenta della notte") sembra derivare dalla tradizione celtica e servirebbe ad indicare un essere portatore di sogni e immagini dall'Altromondo.
Il cavallo in ogni caso ha in sé sia il lato tenebroso e malefico (i quattro cavalieri dell'Apocalisse) che quello luminoso e benefico, manifestando alternativamente il buio e la luce, il bene e il male.
Pare esserci uno stretto collegamento fra le dee-cavallo e gli dei legati al mare e all'oceano, come Poseidone-Demetra e Rhiannon-Manawyddan. Epona viene indicata anche come divinità legata al mare e nel mare troviamo i "cavalloni". Altro collegamento tra il cavallo e il mare: nell'Oracolo dei Druidi di Philip e Stephanie Carr-Gomm, ho trovato che "Due cavalli tiravano il carro dell'eroe dell'Ulster Cu-Chulainn, uno si chiamava Mare Grigio, l'altro Gabbiano Nero". La Dea Cavallo rappresentando l'intero ciclo di nascita-vita-morte è legata anche al mare, in quanto per i Celti il viaggio attraverso il mare era legato al viaggio nell'Aldilà, oltre la nona onda. In effetti oltre che alla terra e al sole, il cavallo era legato ai laghi e al mare. La Giumenta rappresentava la Grande Madre o le acque primordiali, la sorgente di tutta la vita. In alcune antiche leggende, cavalli magici portavano gli eroi attraverso il mare verso terre fantastiche, come ne La Ballata di Tommaso il Rimatore:
Lei voltò il suo destriero bianco latte,
E prese in groppa dietro a se Tommaso,
E al tocco delle briglie
Il suo destriero volò più rapido del vento.
Per quaranta giorni e quaranta notti
Sguazzarono in sangue rosso fino al ginocchio;
E non videro sole ne luna,
Ma udirono il fragore del mare.

Le leggende folkloristiche raccontano di cavalli fatati che pascolavano sulle rive dei laghi e degli stagni e se qualcuno cercava di cavalcarli veniva gettato nell'acqua per poi essere affogato o mangiato. In altre storie i cavalli fatati potevano essere identificati dal fatto che i loro zoccoli e ferri erano al contrario. Questi immaginari cavalli d'acqua rappresentano gli aspetti oscuri della luna legati alla morte e al viaggio nelle profondità interiori.
L’acqua evoca il mistero infinito e gli infiniti pericoli della fluidità del nostro inconscio. L’acqua è infatti in continuo movimento, mai diversa e tuttavia mai la stessa. Il cavallo rappresenta, nella sua potenza primitiva, le pulsioni istintive della nostra natura selvaggia.”
I cavalli d’acqua possono perciò rappresentare il pericolo che si scatena quando erompono le forze che dormono sotto la superficie della coscienza.
Da Per le vie dell’altro mondo: l’animale guida e il mito del viaggio di Carlo Donà:
Le conseguenze funeste che si sperimentano seguendo questi animali guida demoniaci o malevoli variano molto da un racconto all’altro: il viaggio può risolversi soltanto in uno scherzo di cattivo gusto, come avviene con il Dunnie del Northumberland, che, presa la forma di un cavallo, porta chi gli sale in groppa sino a un ruscello, e lo getta sghignazzando nell’acqua; ma può anche comportare danni fisici permanenti o fatali, come accade in una leggenda irlandese, in cui il Pooka, un malizioso folletto teriomorfo che si diverte a giocare tiri burloni di dubbio gusto, presentandosi sotto forma di cavallo a un pellegrino un po’ alticcio, lo getta giù dal picco di una montagna, dopo averlo trascinato in una cavalcata forsennata.

domenica 27 febbraio 2011

La betulla degli sciamani



La betulla (Betula alba) è considerata fra gli sciamani siberiani l’Albero cosmico. Eppure non è gigantesca, raggiungendo al massimo i 25 metri d’altezza, né longeva perché la sua vita media supera raramente il secolo. Sono probabilmente il coloro bianco-argenteo del tronco, l’aerea luminosità e anche la resistenza al freddo, che le consente di giungere sino al limitare della tundra, ad aver evocato questo simbolo.
Quest’albero fu al centro di una straordinaria iniziazione che ebbe come protagonista un futuro sciamano dei samoiedi Avam, in Siberia. Malato di vaiolo, rimase in uno stato di totale incoscienza per tre giorni, alla fine dei quali corse il rischio di essere seppellito. Durante quel periodo ebbe luogo la sua iniziazione. Condotto in mezzo a un mare, udì la voce della Malattia che gli diceva: “Dai Signori dell’acqua riceverai il dono dell’iniziazione sciamanica. Il tuo nome di sciamano sarà “Colui che s’immerge”. Egli uscì dall’acqua e salì su un monte dove incontrò una donna nuda, probabilmente la Signora dell’Acqua, che gli permise di succhiare latte dai suoi seni per prepararsi alle gravi prove che avrebbe dovuto affrontare. Poi il marito della donna, il Signore degli inferi, gli dette due guide, un topo e un ermellino, per guidarlo nel mondo sotterraneo.
Quando l’uomo ebbe raggiunto un luogo elevato, le guide gli mostrarono sette tende dai tetti lacerati. Entrò nella prima e vi trovò gli abitanti degli inferi e gli uomini della Grande Malattia. Questi ultimi gli strapparono il cuore per poi gettarlo in una marmitta. Nelle altre tende conobbe il Signore della pazzia e i Signori di tutte le malattie nervose e di quelle che colpiscono i cattivi sciamani. Così ebbe modo di apprendere il significato dei diversi malanni che torturano gli uomini e le terapie per guarirli.
L’uomo, preceduto sempre dalle sue guide, giunse poi nel Paese degli Sciamani-Donne, che gli fortificarono la gola e la voce. Fu condotto subito dopo in un’isola posta al centro di uno dei Nove Mari, dove un giovane albero di betulla era così alto da toccare il cielo: era l’Albero del Signore della terra, circondato dai Nove Mari, su ciascuno dei quali nuotava una specie di uccello con i suoi piccoli: anatre, cigni e sparvieri.
Dopo averne visitato le acque, alcune delle quali salate e altre talmente calde da non potersi avvicinare alla riva, alzò la testa e vide sulla cima della betulla uomini appartenenti a popoli diversi. “È stato deciso” risuonò una voce “che avrai la cassa di un tamburo fatto con rami di quest’albero”. Poi egli cominciò a volare con gli uccelli di quei mari allontanandosi dalla riva mentre la betulla gli gridava: “Il mio ramo è caduto or ora: prendilo e fa’ di esso il tamburo che dovrà servirti per tutta la vita”.
Dal ramo si ripartivano tre ramoscelli con i quali il Signore dell’Albero gli ordinò di costruire tre tamburi. Sarebbero stai custoditi da tre donne per farne un uso speciale: il primo per praticare lo sciamanismo sulle donne partorienti, il secondo per guarire i malati, l’ultimo per ritrovare gli uomini che si fossero sperduti fra la neve.
Il Signore dell’Albero assegnò dei rami anche a coloro che stavano sulla cima della betulla; poi, uscendo con sembianze umane dal tronco fino a metà busto, soggiunse: “Soltanto un ramo non do agli sciamani, perché lo riservo agli altri uomini. Con questo essi potranno costruire delle abitazioni e utilizzarlo per le loro necessità. Io sono l’Albero che dà la vita a ogni essere umano”.
Stringendo il ramo l’uomo era pronto a rimettersi in viaggio, quando udì nuovamente una voce che gli rivelò le proprietà medicinali delle sette piante, trasmettendogli anche alcune istruzioni nell’arte dello sciamanismo.
Ripreso il cammino, giunse a un mare sconfinato dove trovò degli alberi e sette pietre che a turno gli parlarono. La prima, dai denti simili a quelli dell’orso e con una cavità che poteva essere contenuta in un cesto, gli rivelò di essere la pietra che premeva la terra: il suo peso sui campi li proteggeva dal vento che avrebbe potuto spazzarli via. La seconda serviva per fondere il ferro. L’uomo restò sette giorni con le pietre imparando da loro ciò che poteva servire nel mondo degli uomini.
Le due guide lo condussero poi su un monte alto e tondeggiante, dove egli penetrò in una caverna luminosissima, rivestita di specchi. Al centro vi era qualcosa di simile a un fuoco, ma non era fuoco, era una luce che proveniva dall’alto attraverso un’apertura. Vi erano anche due donne nude, ma ricoperte di peli (personificazioni della Madre degli Animali), che partorirono: la prima due renne come animali sacrificali; la seconda altre due renne per nutrire gli uomini e aiutarli nel lavoro quotidiano. Entrambe gli donarono anche un loro pelo che gli sarebbe servito per sciamanizzare.
Concluso questo incontro, l’uomo raggiunse un deserto da dove si scorgeva una montagna. In tre giorni arrivò e penetrò all’interno. Qui trovò un uomo nudo che manovrava un mantice. Sul fuoco vi era un calderone “grande come la metà della terra”. Appena l’uomo nudo lo ebbe scorto, lo afferrò con una tenaglia enorme, gli tagliò la testa, fece il suo corpo a pezzetti e lo gettò nel calderone facendolo bollire per tre anni. Mise invece la testa su una delle tre incudini che si trovavano in quel luogo – incudine destinata a forgiare gli sciamani migliori – e le diede una nuova forma. Poi la gettò in una delle tre marmitte che si trovavano poco distanti – quella che conteneva l’acqua più fredda – e gli rivelò che quando uno sciamano era chiamato a curare qualcuno, la sua opera sarebbe risultata inutile se l’acqua fosse stata molto calda; se fosse stata tiepida, l’avrebbe potuto guarire; se fosse stata invece fredda, l’uomo sarebbe stato sano.
Poi il fabbro ripescò le sue ossa galleggianti su un fiume, le ricompose e le ricoprì di carne. Ma dopo averle contate dichiarò che ve ne erano tre di troppo. Per questo motivo l’uomo avrebbe dovuto procurarsi tre costumi da sciamano. Gli forgiò la testa mostrandogli come si potessero leggere le lettere che conteneva; gli cambiò gli occhi per permettergli di vedere durante i futuri “viaggi sciamanici” con gli occhi mistici e infine gli forò le orecchie permettendogli di “capire il linguaggio delle piante”.
L’uomo, diventato sciamano, si ritrovò sulla vetta di un monte per risvegliarsi infine nella yurta, accanto ai suoi parenti, pronto a compiere i “viaggi sciamanici” senza mai stancarsi.
Che significa tutto ciò? “Si vede che l’estasi iniziatica” spiega Mircea Eliade” ripete fedelmente certi temi tipici: l’aspirante incontra varie figure divine (la Signora delle Acque, il Signore degli Inferi, la Signora degli Animali) prima che i suoi animali guida lo conducano al centro del Mondo, sulla vetta della Montagna cosmica dove si trovano l’Albero del Mondo e il Signore universale; dall’Albero cosmico e dalle mani dello stesso Signore egli riceve il legno per costruirsi il tamburo; esseri semidemonici gli rivelano la natura e la terapia di tutte le malattie; infine altri esseri demonici gli tagliano il corpo a pezzi, che poi essi cuociono e sostituiscono con organi migliori. Ciascuno di questi elementi del racconto iniziatico è coerente e s’inquadra in un sistema simbolico o rituale ben noto nella storia delle religioni.”
Nel racconto già si delinea la figura dello sciamano capace di passare da una regione cosmica all’altra, dalla Terra o al Cielo o dalla Terra agli Inferi, poiché conosce il mistero della “rottura dei livelli”. Egli si pone nel centro del Mondo e attraverso l’Albero cosmico, il pilastro centrale, compie l’ascensione ai cieli o la discesa agli inferi per divinare o curare un malato recuperando l’anima sfuggita al corpo.
I siberiani sostengono infatti che quando il dio supremo, Ajv o Ajv tojen, creò lo sciamano, piantò nella sua dimora celeste una betulla a otto rami sui quali pose dei nidi dove si trovano i figli del Creatore.

L’iniziazione rituale presso i Buriati
Anche nelle iniziazioni rituali dei Buriati la betulla svolge un ruolo importante. Alla vigilia della cerimonia alcuni giovani sotto la guida di uno sciamano si recano a tagliare nel bosco, dove sono sepolti gli abitanti del villaggio, alberi di betulla saldi e diritti e placano gli spiriti del luogo con offerte di carne di montone e di tarasun.
La mattina del giorno di festa viene fissata nella yurta, la tenda del futuro sciamano, una robusta betulla con le radici nel focolare e la cima che emerge dall’orifizio superiore, il cosiddetto buco del fumo. Essa viene chiamata “il custode della porta” perché apre allo sciamano la soglia del Cielo.
Le altre betulle sono piantate nel luogo in cui si svolgerà la cerimonia iniziatica. Fra queste figura l’albero in cui il neofita dovrà arrampicarsi. Dalla betulla principale, quella situata all’interno della yurta, due nastri, l’uno rosso e l’altro turchino, si allungano fino ad abbracciarsi a tutte le altre disposte all’esterno: sono il simbolo dell’arcobaleno, della via attraverso la quale lo sciamano raggiunge il Cielo.
Dopo i rituali sacrifici e le cerimonie di purificazione il “padre sciamano” sale su una delle betulle e pratica nove incisioni sul tronco, verso la cima, a simboleggiare i nove cieli. Scende e si siede su un tappeto che i suoi “figli” hanno disposto lì sotto. Poi a salire sull’altro è il candidato seguito dagli sciamani. È dunque evidente che la betulla simboleggia l’Albero cosmico o Asse del Mondo: arrampicandovisi lo sciamano compie un viaggio estatico

Da: Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante di Alfredo Cattabiani

sabato 26 febbraio 2011

Un druido autentico

Il dottor Angelo Bona, medico psicoterapeuta specializzato in ipnosi regressiva, dopo anni di ricerche e numerosi segnali, ha scoperto che in una vita precedente era stato un druido.
Oggi ho dato un’occhiata all’anteprima Google di un suo libro, Vita nella vita. Ipnosi regressiva a vite precedenti e mi sentivo svenire da quanto è ricco di esperienze straordinarie! Mi ci sono immedesimata molto, dato che anch’io ho una vera fissa per i celti e il druidismo. Chissà che non scopra anch’io di essere la reincarnazione di una druidessa! Però mi emoziona tantissimo anche lo stile country Old America e per ora qualche mio sogno ha avuto a che fare con gnomi, leprechaun, pixie e fatine… se non altro abitatori di terre celtiche… ho fatto anche un sogno ricchissimo di simboli che dopo 10 anni non ho quasi del tutto decifrato, ma ha a che vedere con Cristo e l’alchimia, non col druidismo. Peccato, visto che i druidi non hanno lasciato nulla di scritto, mi sarebbe tanto piaciuto arrivare alla conoscenza del druidismo per via interiore, ma chissà, non è detta l’ultima parola.
Da un’intervista di Renzo Allegri che potrete trovare sul sito:
http://www.tonyassante.com/renzoallegri/bonadruido/indice.htm
“In una vita precedente sono stato un sacerdote druido”, mi ha detto. “Ero uno di quei sacerdoti che gli antichi Celti, il popolo vissuto in Europa oltre duemila anni fa, consideravano i custodi della terra. A questa conclusione sono giunto dopo molti anni di ricerche inseguendo una precisa e forte intuizione interiore riguardante le mie origini. Ho fatto molti viaggi in Irlanda, in Bretagna, in Galles e alla fine, attraverso sogni, regressioni ipnotiche e coincidenze perfette e inoppugnabili, ho fatto la mia incredibile scoperta”.
Se queste parole fossero state pronunciate da una persona qualunque, sprovvista di cultura e di conoscenze storiche e scientifiche, probabilmente mi avrebbero fatto sorridere. Mi avrebbero di certo affascinato ma le avrei anche giudicate frutto di fantasia, quasi sicuramente prive di fondamenti reali. Ma il dottor Angelo Bona è un medico psicoterapeuta, specialista in anestesia, presidente della “Società Italiana Ipnosi Regressiva” e noto saggista. È insomma, un uomo di scienza, al di sopra, quindi, di ogni sospetto. Le sue parole perciò fanno riflettere.
Autore di numerosi e fortunati volumi (l’ultimo, L’amore dopo il tramonto, pubblicato da Mondadori, è nei posti nobili delle classiche), il dottor Bona si dedica soprattutto allo studio dell’ipnosi regressiva, in cui vanta un’esperienza professionale di oltre vent’anni.
“La mia storia può sembrare incredibile ma è reale”, riprende a raccontare il dottor Bona dopo una breve pausa di riflessione. “È un cammino interiore, una vera e propria ricerca che mi ha dato l’esatta percezione di ciò che sono e che sono stato. Fin da bambino, ho sempre avuto strani ricordi, frammenti di una memoria passata. Erano immagini di sacerdoti vestiti di tuniche bianche, incappucciati, con lunghe barbe e capelli candidi. Inoltre, ho sempre avuto una fortissima attrazione verso la Gran Bretagna e il nord della Francia, verso i territori dove un tempo vissero i Celti, verso i “dolmen” e i “menhir”, cioè quegli antichissimi monumenti come Stonehenge, verso le foreste di querce che erano gli alberi sacri dei Druidi.
Poi, anni fa, un vecchio druido mi apparve in sogno. Mi parlò e mi disse: “Ecco il tuo vero nome. Il tuo vero nome è Sir Môn Idrakun.” Da quel sogno straordinario nacque in me l’esigenza di cercare le mie origini, di comprendere la mia vera natura. Con l’aiuto di un collega, psicoterapeuta come me, andai in trance. Tramite l’ipnosi regressiva, volevo sapere qualcosa di più sul mio lontano passato, quello “inciso nel mio DNA”. Quando mi svegliai, il mio amico mi disse che durante l’ipnosi gli avevo raccontato di tre sacerdoti dalle bianche vesti e di un rituale. Avevo descritto una spiaggia, una sorta di anfiteatro in riva al mare, e tanta gente che assisteva al rito. Disse che avevo usato un linguaggio lirico, poetico e che la mia voce era piena di emozione.
Da quel momento dedicai il tempo libero a viaggiare, in costante ricerca di me stesso. Un giorno, mi trovavo in Bretagna. Entrai in una chiesetta, vidi una signora e con la massima spontaneità le chiesi dove potevo trovare i druidi. Lei mi guardò come se fossi un pazzo. Ma poi la sua espressione cambiò. Qualcosa nel mio sguardo le fece capire che non stavo scherzando ma che ero disperatamente sincero. Mi sorrise e mi disse che nella foresta di Broceliande, ad un centinaio di chilometri da lì, c’era il “Grande Collegio dei Druidi”, uno degli ultimi sopravvissuti. Se cercavo i druidi, dovevo dirigermi là. Mi disse che dovevo parlare con Jean Tosh, il Druido anziano. Lui avrebbe potuto aiutarmi.
 Conoscevo di nome la mitica foresta di Broceliande. Le leggende dicono che lì si trovi la tomba di Mago Merlino. Pieno di emozione mi misi in viaggio e quando arrivai in una piccola libreria, sede del Collegio dei Druidi, mi venne incontro una donna anziana. Mi trattò come fossi stato suo figlio e mi disse di chiamarla “Mamy”. Era Yvette Nicol, la moglie del Druido anziano. “Bentornato a casa”, mi disse. Ma non feci in tempo a riflettere sulle sue parole che comparve Jean Tosh. All’epoca aveva già 75 anni. Era vestito in modo normale, aveva i capelli lunghi e bianchissimi. E un’espressione di meravigliosa serenità sul viso. Mi abbracciò e mi diede da leggere Le fatiche di Ercole dicendomi: “Vai sulla costa, in riva al mare, e leggi con calma. Preparati, perché tra una settimana ci sarà un raduno con tutti i druidi d’Europa. Voglio ci sia anche tu.”
Mi pareva di vivere in un sogno. Lessi il libro e le vicende di Ercole. La sua ricerca attraverso le terribili fatiche, mi sembrava l’inizio di un cammino iniziatico. Poi venne il giorno del raduno. C’erano molti Druidi provenienti da tutte le parti d’Europa e tanta gente accorsa per assistere. Molte persone erano lì per chiedere a Tosh di entrare nel cerchio dei Druidi. Non dimenticherò mai quei momenti.
Durante la cerimonia, Tosh mi venne vicino e mi chiese: “Chi sei? Quale è il tuo vero nome?”. Io gli risposi con quel nome che il druido mi aveva confidato in sogno. “Mi chiamo Sir Môn Idrakun.” Tosh mi guardò un attimo, sorpreso. Poi mi sorrise e mi disse: “Tu sei stato druido. E ora tornerai druido” e mi accompagnò tra i membri Anziani del Collegio. Era incredibile. Ci vogliono anni e anni per essere accolti nel “Collegio dei Druidi”, e io, in un attimo, avevo avuto quel privilegio. In quel momento capii che per davvero ero stato un druido in un tempo passato. Ma solo due anni fa scoprii quale fosse la mia terra d’origine.
Non era la foresta di Broceliande, come pensavo in un primo momento. Era il Galles. Due anni fa andai a visitare l’isola di Anglesey, a nordovest del Galles perché avevo scoperto che il nome gaelico dell’isola era Ynys Môn. “Môn”, proprio come il mio nome. Giunto nell’isola, mi sentii subito strano. Da una parte ero felice, come se fossi tornato a casa dopo un lungo viaggio. Ma provavo anche una sorta di angoscia, come qualcosa che mi opprimeva. Mi fermai al museo di Oriel Ynys Môn e chiesi alla signora che lo gestiva se c’era qualcuno che potesse darmi spiegazioni sulle tradizioni del luogo, sulla storia dell’isola. Pensavo che, forse, quelle conoscenze potevano aiutarmi a capire che cosa mi stava succedendo. “Ci sarebbe il professor Gwilym Jones, che è un esperto di tradizioni druidiche”, mi disse la signora senza sapere che io ero interessato proprio ai druidi. “Ma siamo in agosto”, continuò, “e di questo periodo il professore è sempre lontano, in vacanza. Se vuole, provo lo stesso a telefonare”. Beh, non solo il professor Jones rispose subito ma disse anche che stava proprio per venire da quelle parti. Una coincidenza? Non lo so. Ma quando parlammo, confidai al professore il mio nome di druido e lui fu molto sorpreso. Mi disse che l’isola non solo si chiamava Ynys Môn ma era anche conosciuta come Sir Fôn. “Môn” e “Sir”, due parti del mio nome druidico. Mi raccontò che i Romani, nel 61 d.C, per spegnere un’insurrezione dei Britanni, appiccarono un immane incendio sull’isola, bruciando tutte le foreste di querce, gli alberi sacri dei Druidi. Distruggere i santuari dei capi spirituali dei Britanni, era l’unico modo per vincere. Il professor Jones mi disse che, a causa di quell’incendio, sull’isola non si trovava più alcuna traccia delle foreste di un tempo. I ricercatori non avevano trovato pollini di quercia nel terreno se non in strati risalenti a circa duemila anni prima. Io avevo in qualche modo memoria di quella tragedia: ecco perché mi sentivo angosciato nel camminare su quei luoghi. L’isola di Ynys Môn era la mia antica patria.
Ecco, questa è la mia storia. Io sono un druido. Lo sono stato in passato e lo sono tuttora. I druidi erano musicisti e amavano la poesia. Bene, io non conosco la musica, eppure compongo canzoni, scrivo i testi e la melodia. Insieme ad un gruppo, stiamo incidendo queste musiche e sono canzoni che hanno per tema proprio le vite precedenti e i druidi. E per scrivere le parti più poetiche dei miei libri, io vado in trance. Mi addormento, inizio a dettare e la mia segretaria scrive ciò che dico. E sono pagine liriche, con un linguaggio che non sarei capace di usare normalmente. Un giorno venne da me una ragazza. Era oppressa da forti sensi di colpa e non ne capiva la ragione. Decidemmo di indagare con l’ipnosi regressiva nel suo passato. In trance, mi raccontò di essere stata una druidessa di nome Benedicta e mi disse di avermi incontrato, di aver incontrato Sir Môn Idrakun. In seguito quella ragazza mi fece dono di un suo disegno. Vi è raffigurato un Druido anziano, “Sir”, seduto sulla luna, “Môn”, che domina l’idra, cioè “Idrakun”, simbolo del Galles.”


venerdì 25 febbraio 2011

I Rosacroce

Franz Hartmann (1838-1912), fondatore della Società Teosofica Tedesca e dell'Ordo Templi Orientis
Alcuni secoli  or sono il nome di “Rosacroce”  ebbe una grande risonanza nel mondo. Ma come misteriosamente era spuntato all’orizzonte altrettanto misteriosamente non tardò ad eclissarsi.
Si diceva che questi “Rosacroce” formassero una società segreta di uomini dotati di poteri sovrumani se non addirittura soprannaturali. Si diceva che essi sapevano predire il futuro, che conoscevano i più reconditi misteri della natura, come trasformare il ferro, il bronzo, il piombo e il mercurio in oro; preparare un elisir di vita o “panacea universale” con la quale conservarsi giovani per tempo indefinito; e si affermava inoltre che essi sapevano comandare agli spiriti elementali della Natura e che conoscessero il segreto della “pietra filosofale”: quel portentoso elemento che conferiva l’onnipotenza, l’immortalità e la saggezza suprema. Molti fatti storici sembrano confermare la verità di queste asserzioni e vi sono tuttora documenti autentici nei quali si dimostra che l’oro, in alcune circostanze, è stato veramente preparato con mezzi artificiali. Nondimeno i Rosacroce affermavano ripetutamente che una tale arte non era che un lato insignificante della loro scienza divina e che essi possedevano segreti di ben altra importanza.
Alcuni terapeuti, che si diceva appartenessero ai Rosacroce, guarivano gli ammalati con la semplice imposizione delle mani o con qualche prodigiosa medicina e organizzavano cerimonie e feste pari in meraviglia a quelle di cui parlano la Bibbia, gli scritti sacri e la storia delle antiche religioni.
Di alcuni di questi Rosacroce si diceva che avessero vissuto parecchie centinaia d’anni e di altri che da secoli vivessero tuttora sulla Terra.
Gli stessi Rosacroce, lungi dallo smentire questo fatto, affermano che in natura vi sono leggi occulte e poteri misteriosi che la maggior parte degli uomini non immagina nemmeno e che resteranno ancora per molti secoli ignoti alla “Scienza”, poiché ogni scienza si fonda sullo studio dei fatti ed i fatti devono essere percepiti prima di essere studiati.
Ora però gli organi psichici di percezione non sono ancora sviluppati sufficientemente nella maggior parte degli uomini ed essi non possono perciò vedere le cose spirituali. Essi affermavano altresì che se i nostri occhi spirituali fossero perfettamente dischiusi, noi potremmo rilevare che il mondo è popolato da esseri differenti da noi, da esseri dell’esistenza dei quali non siamo minimamente coscienti. E soggiungevano che, se fossimo perfettamente sviluppati, potremmo percepire nell’universo esseri la cui divina bellezza trascende l’immaginazione più fervida e ci si svelerebbero misteri di tal natura che, in verità, l’arte di fabbricare l’oro ci apparirebbe, in confronto, una cosa di minima importanza.
Essi parlavano degli abitatori dei quattro regni della Natura (ninfe, cioè, ondine, gnomi, silfi, salamandre e fate) come di esseri coi quali essi erano in intimi rapporti e che, lungi dall’essere creature immaginarie, sono esseri ben reali, viventi, coscienti, e pronti a servire l’uomo, a istruirlo e ad esserne a loro volta istruiti; ma con il corpo composto di sostanza eterea e troppo fina per essere percepita dai nostri sensi grossolani.
Essi parlavano di spiriti planetari che furono, un tempo, uomini come noi, ma che sono ora altrettanto superiori a noi di quanto noi siamo superiori agli animali; e affermavano seriamente che se gli uomini conoscessero i divini poteri latenti nella loro mente e, anziché dedicare tutte le loro sollecitudini alle transitorie cose della terra e ai piccoli interessi loro personali, tendessero allo sviluppo delle loro facoltà spirituali, essi potrebbero un giorno raggiungere la gloria di detti spiriti planetari, diventare cioè altrettanti Dei.
Noi non siamo in grado di dimostrare quanto ci sia di vero nelle asserzioni degli antichi e dei moderni Rosacroce e se tali asserzioni non siano per avventura state male interpretate; né spereremmo esser creduti se portassimo argomenti e prove a sostegno di una dottrina che da parte degli adepti della scienza moderna (la quale non crede che ciò che è percepibile ai sensi fisici) è vivamente oppugnata.
Noi rifuggiamo dal discutere con coloro che nell’uomo altro non vedono che un animale intelligente, assolutamente scettici per quanto si riferisce all’esistenza di un mondo invisibile; scettici sì, in questo, ma d’altra parte vani e creduli tanto da ritenere che nulla possa esistere nell’universo senza che essi ne siano consapevoli e che dicono: “Se, per ipotesi, qualche cosa di divino e di spirituale esistesse effettivamente, come mai non l’avremmo noi scoperto fino ad oggi?”
Noi rifuggiamo dal discutere con gli scienziati su questa materia perché l’esistenza dell’Invisibile non può essere sperimentalmente provata fino a che questo Invisibile resta per essi Invisibile; infatti anche l’esistenza del sole resta sempre oggetto di opinione e di discussione per i ciechi dalla nascita. Che cosa può mai sapere una scienza puramente materiale di Dio e dello Spirito?
Una scienza che d’altro non si occupa che dei particolari dei fenomeni fisici che cosa può mai sapere dei principi fondamentali, invisibili che sono le cause intime dell’esteriore manifestazione di vita?
Nel Medio Evo ci sono stati dei veri e dei falsi Rosacroce come del resto non mancano anche oggi i veri e i falsi cristiani. I falsi Rosacroce furono assai numerosi. I veri furono raramente conosciuti. Alcuni personaggi sospetti di essere dei Rosacroce furono incarcerati e torturati con la speranza di costringerli a rilevare i loro segreti. Ma tutto fu vano giacché i saggi non rivelano mai le cose divine a coloro che non sono spiritualmente preparati a riceverle. Non si può imparare da altri ad usare poteri spirituali che non si posseggono; e nessuno possiede poteri spirituali senza essere egli stesso uomo spirituale. Non si può imparare la musica o un’altra arte senza avervi una naturale disposizione; allo stesso modo non si può apprendere l’uso di facoltà spirituali senza possedere gli organi animici corrispondenti.
Insegnare ad un materialista l’uso delle facoltà spirituali necessarie per diventare alchimista sarebbe come tentar di insegnare il linguaggio umano ad un animale.
Un tal tentativo sarebbe certamente sterile, poche le leggi naturali che sono immutabili e ciascun essere non può raggiungere che quella condizione, quello stato a cui la natura lo ha disposto. Intellettualità è altra cosa della spiritualità. Intellettualità non è che incipiente effetto dell’attività spirituale. Soltanto quando l’uomo si è affiancato dai suoi impulsi animaleschi, il suo organismo diviene un tempio degno di ospitare Dio.

Da: I simboli segreti dei Rosacroce di Franz Hartmann

Gli scones


                                 
Gli scones sono delle focaccine dolci, tipiche dell’Irlanda, a base di farina di grano tenero. Sono molto utilizzate per fare la prima colazione o per accompagnare uno spuntino pomeridiano.


L’abbinamento ideale - e tipicamente irlandese – è con il tè pomeridiano, oppure con marmellata di arance che potrà essere spalmata sugli scones tagliati a metà.

Ingredienti
250 gr. farina
1 cucchiaio di zucchero
1 bustina di lievito per doci
75 gr. burro
50 gr. uvetta
latte q.b.
1 pizzico di sale
zucchero a velo

Procedimento
Impastare tutti gli ingredienti e lasciare riposare circa 30 minuti.
Stendere la pasta grossa circa 1 cm. e ricavarne dei dischi di 4 cm. di diametro.
Metterli in forno a 180° per 15 minuti.
Spolverizzarli con zucchero a velo.

giovedì 24 febbraio 2011

Giorno pagano europeo della memoria



Oggi si ricorda l’anniversario degli editti dell'imperatore Teodosio, emanati a Milano, che portarono alla fine del paganesimo: il Decreto del 24 febbraio 391, "Nemo se hostiis polluat", portò allo spegnimento del Fuoco Sacro di Vesta a Roma e alla condanna e persecuzione dei culti pagani antichi di decine di migliaia di anni. 

E io, per l’occasione, oltre che a partecipare alla commemorazione con le mie amiche, posto qui il mio Credo:

Credo Mezzelfico...!
Credo che tutta  la  natura  sia  popolata  di esseri invisibili,
alcuni dei quali sono brutti e grotteschi, altri malvagi e sciocchi,
 molti di essi belli, ben al di sopra di qualunque bellezza abbiamo
mai veduto, e che quelli belli, non siano troppo distanti
quando 
 passeggiamo per luoghi ameni imperturbati.
Anche quand' ero ragazzo non potevo mai
passeggiare in un bosco senza avvertire che sempre,
 a ogni istante, avrei potuto trovarmi di fronte
qualcuno o qualcosa che avevo cercato a lungo senza
saperlo chiaramente.
E ora esploro a volte ogni piccolo anfratto
di qualche misera boscaglia con passo quasi  ansioso, tanto è profonda l'influenza
di questa immaginazione su di me.
Anche voi, senza dubbio,
vi imbatterete in un'immaginazione simile
da qualche parte ovunque le stelle
che ci governano decidano di attirarvi,
 sia Saturno che vi guida ai boschi,
 o la Luna,forse, sull'orlo del mare.
 Io non vorrò credere mai con ferma sicurezza
che non vi sia nulla nel tramonto,
 ove i nostri progenitori immaginavano le schiere dei morti seguire il sole,
o nient'altro che una vaga presenza destinata
 a commuoverci poco o nulla.


William Butler Yeats, Irlanda 
Luna crescente (1823)


mercoledì 23 febbraio 2011

La pepita d'oro


Durante una delle mie meditazioni, la mia Ombra di nome Spavento mi ha donato con le sue proprie mani una grossa e liscia pepita d’oro. Cercavo un aiuto per entrare in contatto col Divino. Poi ho saputo che:

 “L'Alchimia è un Dono del Divino, e chi vuole pervenirvi deve Leggere, Leggere, Leggere, Pregare, e Sperimentare, e se il suo cuore è puro, raccoglierà nel palmo della sua mano, quella pepita d'oro che, con nessuna moneta, si può comprare.”
http://ilfuoconarrativo.splinder.com/archive/2007-05

Salice - simbologia


Sii come il salice.
Nelle avversità sii come il salice che asseconda la furia dell'uragano piegandosi di quà e di là, secondo il soffiare del vento; poi passata la tempesta ricompone i suoi rami.
(Pensiero di saggezza zen).

Willow, il salice, è il rimedio floreale di Bach numero 38:
"Per coloro che hanno sofferto a causa delle avversità o della sfortuna e trovano difficile accettarlo, senza lamentarsene e senza provare risentimento, poiché giudicano la vita in base al successo. Sentono di non aver meritato una prova così grande, lo trovano ingiusto e ne sono amareggiati. Spesso accade loro di provare un interesse minore verso quelle cose della vita che prima facevano loro piacere".
(Edward Bach)
Il salice è protagonista di un versetto dei Salmi in cui si rievoca la cattività degli Ebrei:

Lungo i rivi di Babilonia dimorando

là insieme piangevamo al ricordo di Sion.
Ai salici di quel paese
avevamo appeso le nostre cetre.

Per Metodio di Filippi le arpe erano i corpi ancora terrestri, i fiumi di Babilonia “le acque della vita circondata dalle onde assordanti del disordine e commista con la carne”; i salici a loro volta simboleggiavano la castità su cui gli uomini avevano appeso le loro arpe, ovvero i corpi. L’uomo, intorno al quale muggiva la tentazione delle ondate assordanti del disordine, invocava il Signore: “Non lasciare che le nostre arpe cadano, che le ondate della concupiscenza le strappino dall’albero della castità”.
La capacità di germogliare molto velocemente e resistere agli ostacoli fa del salice un albero forte e pieno di vitalità, anche se nell’immaginario popolare, i rami cadenti fino al suolo e le foglie pendule – evocando le lacrime – hanno fatto di quest’albero l’emblema del ricordo nostalgico e della malinconia.
Se viene abbattuto o potato rinasce con un gran numero di rami nuovi e questo ne fa un simbolo di morte e rinascita, ma anche il fatto di prosperare vicino ai corsi d’acqua gli dà la parvenza di un essere tra i mondi e ne fa un testimone delle leggende celtiche di importanti duelli tra eroi o dei che avvengono in luoghi liminali, quali sono i guadi e le rive dei fiumi.
È una pianta allo stesso tempo legata al mondo della luce e a quello delle ombre, alla Vita e alla Morte, alla chiarezza, attraverso la preveggenza, ma anche alla confusione, per via delle nebbie che, secondo le leggende, venivano evocate per mezzo di esso, inoltre è sacro a dee legate all'aldilà, come Ecate e Persefone. Ma è anche una pianta guaritrice, da essa si estrae l'acido salicilico.
Sacro ai bardi e alla Dea Brigid, che era la loro protettrice, oltre che protettrice dei guaritori e dei fabbri. Si diceva che fosse il “vento tra i salici” a portar loro l’ispirazione.
Brigid, oltre che dea del fuoco, era dea dell’acqua e dei pozzi sacri, e il salice è molto legato all’acqua. Acqua e fuoco, dunque, come la nebbia che evoca il salice, come i due elementi che caratterizzano il simbolismo del cigno, anch’esso sacro a Brigid.



Era forse anche per questo motivo che sovente veniva utilizzato dai Celti per la costruzione di arpe. L’arpa celtica più antica e meglio conservata, pare essere quella di Brian Boru, risalente al XII secolo: il corpo dello strumento venne intagliato in un unico pezzo di legno di salice, mentre il ginocchio e la colonna furono ricavati da legno di quercia. Fusione, questa, che vede armonizzarsi perfettamente il principio femminile del salice con quello maschile della quercia.
Inoltre è nel corpo cavo che riceve la vibrazione della corda, mutandola, e portando così alla vita un suono capace di incantare. Possiede, quindi, il potere di trasformare, oltre che di generare, e questo fatto riporta inevitabilmente alla concezione di Nascita/Morte/Rinascita che gli antichi attribuivano alla Dea Madre e al Sacro Femminino in generale.


È interessante notare come anticamente il legno di quest’albero fosse utilizzato in special modo per creare vasi e contenitori di vario tipo, oggetti in grado di contenere o ricevere… tipica simbologia del grembo femminile.
Vi è un'interessante leggenda gaelica che vede protagonista il salice e il suo rapporto con la musica: secondo la narrazione vi era un tempo un re di nome Labra, il Marinaio, che era solito farsi tagliare i capelli una volta l'anno da un uomo che in seguito veniva messo inevitabilmente a morte. Il timore del re era, sembra, che qualcuno potesse venire a conoscenza del suo segreto, ovvero che possedeva orecchie di una lunghezza davvero spropositata. Tuttavia accadde una volta che l'addetto al taglio dei capelli regali fosse anche l'unico figlio di una vedova, che con pianti infiniti e disperati mosse il re a commozione, così che la vita del giovane fu risparmiata. A condizione, però, che mai e poi mai rivelasse ad alcuno quella sua particolarità fisica. Ma col passare del tempo il peso di quel segreto divenne insostenibile, ed il ragazzo cadde malato. Fu perciò chiamato un druido, che gli consigliò di percorrere una strada nel bosco fino ad un punto in cui si incrociassero quattro vie; qui avrebbe dovuto prendere quella di destra e confidare il suo segreto al primo albero che avrebbe incontrato. Il giovane seguì il consiglio e il primo albero che incontrò fu un salice, al quale confidò il suo fardello e grazie al quale poté guarire. Non passò molto tempo che l'arpista Craftiny decise di fabbricarsi una nuova arpa, usando proprio il legno di quel salice. La notte stessa fu invitato come al solito a suonare al banchetto del re, ma come toccò le corde dello strumento, da queste uscì una voce che svelò a tutti l'imbarazzante segreto di re Labra.
Racconto curioso quanto interessante, che potrebbe nascondere tra le righe il potere di quest'albero di svelare segreti e misteri occultati.
I boccioli del salice, che appaiono all'inizio della primavera, sono una grande attrazione per le api che in questo periodo iniziano il ciclo dell'impollinazione. Nell'antichità si diceva che le api selvatiche possiedono la saggezza della Dea proprio per aver succhiato il nettare del salice, oltre a quello dell'erica. In quanto animali sacri all'aspetto femminile del divino, le api sono anche ritenute sue messaggere, e il loro nutrirsi del polline di salice dona a quest'albero un significato ancora più profondo.
Le tradizionali imbarcazioni delle popolazioni del Galles e dell’Irlanda, le coracle, sono costruite in vimini, quindi con rami di salice. Il salice può essere perciò visto come la continuazione dell’ontano, perennemente sommerso dall’acqua per metà, poiché era il legno con cui venivano costruiti i pilastri che reggevano le palafitte. Una volta acquisita la conoscenza di quello che c’è sopra e sotto le acque si può intraprendere la navigazione con l’aiuto del salice, andando alla deriva lontano dalla società con il solo supporto e la guida degli alberi ad assisterci (una forma di punizione presso i Celti era quella di essere allontanati dalla tribù o dal clan, a volte su una coracle alla deriva).


Omero racconta che Circe, accomiatandosi da Odisseo, gli diede una serie di istruzioni perché potesse penetrare nelle case dell’Ade. Gli disse tra l’altro:

E quando con essa [la nave] l’Oceano avrai attraversato
ecco la costa bassa e le selve di Persefone,
ecco gli alti neri pioppi e i salici che perdono i frutti: là tu approda con la nave, sull’Oceano dai gorghi profondi,
e scendi nelle case putrescenti dell’Ade.

“I salici che perdono i frutti”: così scrive Omero, secondo un’osservazione ripetuta da Teofrasto, il quale notava a sua volta come i frutti dei salici cadessero prima di giungere a maturazione. In realtà dopo la fioritura la fruttificazione si completa assai rapidamente con frutti che sono capsule contenenti alcuni semi attorniati da peli cotonosi e capaci di provvedere a una vasta disseminazione anemocora. Ma la rapidità della loro maturazione e la conseguente caduta evocò nei Greci l’immagine di un albero vivente uccisore del proprio frutto, simbolo della Madre Terra che perpetuamente genera, per poi riprendere nel suo grembo gli esseri generati.
Per questo motivo il salice fu sacro a tutte le dee madri. Era nacque fra i salici dell’Heràion di Samo; e a Sparta si venerava Artemide Órthia o Lygósdesma, così soprannominata perché adorna di rami di lygos, una specie di salice: “E la chiamano non solo Órthia ma anche Lygósdesma” spiegava Pausania “perché fu trovata in un cespuglio di lygos”. Come si è detto, l’albero era sacro anche a Persefone e a Ecate il cui nome, che significa centinaio, alludeva ai cento mesi della permanenza della figlia di Demetra presso Ade. Il suo legame con Persefone è testimoniato dal famoso dipinto di Polignoto a Delfi, descritto da Pausania, dove Orfeo riceveva il dono dell’eloquenza toccando i salici di un boschetto sacro alla dea.
Questo situarsi del salice fra vita e morte è raffigurato nell’affresco Paesaggi dell’Odissea, ritrovato sull’Esquilino e ora conservato nei Musei Vaticani.
Nel giorno sacro delle Tesmoforie, quello in cui rievocando il mito di Demetra e Core si celebrava il mistero della vita primigenia, del campo e dell’utero che offrono nuovi frutti. Le donne, per poter riposare, preparavano un giaciglio di rami di salice deposto a immediato contatto della Madre Terra. Sul simbolismo di quei salici i pareri sono discordi: se è vero che le fonti storiche di cui disponiamo sostengono che il giaciglio salvaguardava la castità delle donne, poiché i salici “distruttori dei frutti” erano considerati anche simboli dell’astinenza sessuale, è pur vero che l’albero della Grande Madre non poteva non alludere alla santificazione del grembo materno, sicché quel giaciglio era anche un invito alla fecondità. “Il salice” commenta Hugo Rahner “è appunto qualcosa di duplice, in riscontro alla duplicità delle dee Demetra e Core che si veneravano ad Eleusi: una pianta che è a un tempo madre e vergine, germogliante e casta, vivente e morta.”
In ogni modo il simbolismo dell’infecondità si radicò nella psiche degli antichi, come testimonia non soltanto il verso di Omero ma anche questo passo di Plinio: “Improvvisamente il salice perde il suo seme ancor prima che questo abbia raggiunto una qualche maturità. Perciò Omero lo chiama “il distruttore del frutto”. In epoca più tarda a questa parola poetica è stata data una spiegazione criminosa affermando che il seme del salice sarebbe per le donne un espediente per procurare l’aborto”. Lo si chiamò anche ágnos, cioè casto, come ricordano gli scoli ai Theriacá di Nicandro di Colofone. “Multifiorito è il lygos o ágnos, che le donne spargono sul loro giaciglio nella festa delle Tesmoforie. Esso è efficace contro gli stimoli sessuali; per tale ragione si chiama appunto ágnos poiché è, per così dire, “privo di figliolanza” (ágonos)”.
In Grecia, quindi, il salice era dedicato alle dee lunari, da Era a Persefone, da Circe a Ecate, tutte personificazioni notturne e infere della Luna come triplice dea. L’albero – heliké in greco arcaico – aveva dato il nome al monte Elicona sul quale dimoravano le nove Muse, originariamente sacerdotesse orgiastiche della dea Luna. A Ea, nella Colchide, Giasone, partito alla conquista del Vello d’Oro, dovette attraversare il cimitero della maga Circe, che era piantato a salici sulla cui cima venivano esposti cadaveri di uomini avvolti in pelli di vacca non conciate.
Si narrava che la culla di Zeus sull’Ida fosse appesa ai rami di un salice cresciuto fuori della caverna dov’era nato il futuro padre degli dei. La sua nutrice, secondo Plutarco, era chiamata Itea, nome greco del salice. Da Itea derivava Itono, “l’uomo salice”, re di Itone, nella Focide. Quei nomi, osserva Jacques Brosse, sembrano indicare che nella Tessaglia fosse esistita un tempo una dea del salice che aveva dovuto cedere il posto ad Atena. Anche gli abitanti di Gerusalemme avevano adorato una dea quasi omonima, Anatha, divinità del “salice propiziatore della pioggia”.


L’albero era sacro alla Luna perché prediligeva l’acqua, e sui suoi rami nidificava il principale uccello orgiastico della dea, il torcicollo: un migratore primaverile che sibilava come un serpente, alzava la cresta quando era adirato, aveva il collo mobilissimo, deponeva uova bianche e aveva sulle piume dei segni a V, simili a quelli presenti sulle scaglie dei serpenti oracolari, consacrati alla Luna nella Grecia antica. Non a caso nell’alfabeto celtico degli alberi il salice era il quinto dell’anno, e cinque era il numero sacro della Grande Madre. Era un albero molto importante per i Celti, tanto che i sacrifici dei druidi venivano offerti al plenilunio in cesti di vimini e le loro selci funerarie avevano la forma di una foglia di salice.


Serviva inoltre, insieme con altri alberi, a trarre divinazioni per mezzo della “recitazione con la punta delle dita di una mano”.
Robert Graves scrive che Il pollice era dedicato alla betulla, l’indice al sorbo selvatico, il dito medio al frassino, l’anulare all’ontano, il mignolo al salice.
Il suo stretto legame con la Luna lo ha tramutato nel Medioevo nell’albero degli incantesimi e in quello prediletto dalle streghe. “Nell’Europa settentrionale” osserva Robert Graves “il suo legame con le streghe è così forte che le parole witch, strega, e wicked, malvagio, derivano dallo stesso termine che anticamente indicava il salice. Altrettanto si dica della parola wicker, vimine.” Nelle campagne inglesi si dice ancora oggi che la cosiddetta “scopa delle streghe” è fatta con un bastone di frassino, rametti di betulla e legacci di vimine, cioè di salice: la betulla, perché gli spiriti maligni, cari alle streghe, vi rimangono impigliati, il frassino perché le salva dall’annegamento, il vimine in onore di Ecate. Le streghe dell’isola di Sein si imbarcavano per i loro viaggi notturni in una cesta di vimini che le portava in mare aperto, dove praticavano i loro malefici.









In Lituania, sopravvisse per molto tempo il culto della dea lunare, chiamata Blinda, il cui nome significa, appunto, salice. Secondo il mito che la riguarda, la dea possedeva una tale fecondità da consentirle di partorire anche da mani, piedi e testa. La dea Terra, invidiosa, un giorno in cui Blinda camminava lungo un prato palustre, le fece affondare i piedi nel fango, imprigionandola e trasformandola per sempre in un salice.
Nel 1805, nel villaggio di Kalnekai, sulla riva destra del Niemen, si vedevano ancora delle contadine recarsi nei pressi di un vecchio salice adorno di ghirlande di fiori e pregarlo per la fortuna e la moltiplicazione dei bambini. Il clero cattolico, dopo aver inutilmente tentato di far cessare quell’usanza pagana, dovette rassegnarsi a porre un crocifisso sul tronco.
In epoca cristiana il salice mantenne l’unica caratteristica che era accettabile dagli esponenti ecclesiastici, ovvero il suo rimando alla castità pura, alla verginità della Madonna e all’opportuno atteggiamento che i fedeli dovevano tenere per condurre una via retta e giusta.
Purtroppo però non tutta la cristianità era in accordo con questa visione, tanto che lo stesso salice era ritenuto “maledetto”, “malefico” e “diabolico”, perché sacro alle antiche divinità femminili e, successivamente, alle streghe.
In latino era detto salix, ma i Romani chiamavano vimen-viminis (vimine) quelle varietà – il Salix alba, il trianda e il purpurea – i cui rametti flessibili, decorticati dopo una lunga macerazione, venivano utilizzati, come d’altronde ancora oggi, per la fabbricazione di cesti, di panieri e di ogni tipo di legacci. Vimen ha ispirato anche uno il nome di uno dei colli di Roma, il Viminale, così detto perché un tempo era ricoperto di salici.
La credenza greca secondo la quale l’albero favoriva la castità ispirò una medicina per calmare l’ardore sessuale, come ricorda Plinio.
Le foglie e le gemme del Salix alba hanno realmente un effetto sedativo anche a livello sessuale, curano le psoriasi e gli eritemi e sono efficaci contro l’insonnia.
Ma la proprietà più nota è quella della corteccia usata nel passato per combattere la febbre e le malattie dovute all’umidità, e in particolar modo i reumatismi cronici: pratica che aveva un fondamento, come hanno dimostrato i fitoterapisti contemporanei. Essa infatti, insieme con le foglie, contiene salicina che svolge un’azione antireumatica, antitermica e astringente. Oggi la salicina è stata sostituita dell’acido acetilsalicilico che è alla base dell’aspirina.
Il salice, dunque, è Luna, Donna, Dea ed Acqua... tutti questi aspetti muliebri fanno parte della sua natura, della sua essenza; perciò, come abbiamo visto, esso diviene l'albero della visione, della sensitività, dell'ispirazione poetica in ogni sua forma. Ma è anche l'albero della trasformazione interiore, dell'incanto e della magia, quella stessa magia che da sempre attrae e affascina l'essere umano, per sua natura assetato di Conoscenza.
È un albero divinatorio ed onirico, in quanto la Luna è l'astro notturno che svela profezie, che solleva i veli della realtà materiale per mostrare quel mondo impalpabile che pare sempre così sfuggente, così lontano, eppure allo stesso tempo tanto vicino, situato addirittura dentro di noi. È un albero psicopompo, in grado d'accompagnare nell'Altromondo, quello, appunto, del Sogno e dell'immateriale.
È la mano forte e salda che ci sorregge durante il viaggio, è il grembo liquido che ci custodisce mentre sorvoliamo quei paesaggi arcani, scoprendo tesori nascosti e arricchendoci di nuove consapevolezze, e che ci guarisce quando ci feriamo o ci ammaliamo di dolore. È protettivo, amorevole, ma, se necessario, può divenire fatale, quasi spietato. Ha in sé il triplice volto divino: l'innocenza fanciullesca, l'amorevole passione, la mano scheletrica che infonde morte ai propri figli...
Le sue radici cercano l'abbraccio del terreno acquoso, bagnato. È un ricercare il ritorno alle origini, all'umido tepore della Madre, mentre con tutto il suo corpo si solleva più che può sino al Cielo, desideroso di sfiorare quel volto argentato e materno che nella notte lo osserva con pazienza, benedicendolo. Poi, stanco, abbassa sinuoso le braccia vegetali, per cercare nuovamente conforto nella calda Gea, adorno di raggi lunari rubati di soppiatto e posati con civetteria femminile sulle proprie piccole e sottili foglie. E forse, abbassando lo sguardo sulla superficie dell'acqua, si sofferma a contemplarne i riflessi opalescenti e, ipnotizzato, inizia così a sognare a sua volta.


Da: Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante di Alfredo Cattabiani
Celtic Tree Mysteries. Practical Druid Magic & Divination di Steve Blamires

lunedì 21 febbraio 2011

Il risveglio dei Fianna



Questo è il racconto che parla di un tempo passato, e di quello ancora da venire.
 
Racconta la gente, che l'ultimo dei grandi uomini del popolo Gaidheal fu Finn MacCumhail; e Finn, insieme ai guerrieri Fianna, proteggeva il suo popolo da ogni male, era un potente scudo contro ogni nemico. E quando Finn andò via da questo mondo, il cuore dei Gaidheal divenne pesante di tristezza, e l'anima dei Gaidheal cadde in un sonno profondo, racchiuso nelle sognanti profondità della sua terra.
Ma io ho sentito narrare un'altra storia, una storia che dice che il grande Finn è ancora tra noi; sì, egli riposa addormentato nel cuore più profondo delle nostre colline; e di quando in quando un viaggiatore di passaggio, in cerca di un riparo per la notte nei profondi recessi della montagna, trova per caso la porta che conduce al rifugio, dove Finn MacCumhail riposa e dorme il suo magico sonno. 
E una volta, proprio un viaggiatore perduto tra le colline, mentre era in cerca di un rifugio per la notte, si imbattè nella nera bocca di una caverna che si addentrava profondamente dentro la montagna. 
Entrò, esitando, tastando le pareti con le mani, addentrandosi sempre di più nel buio profondo. Tanto scura era l'oscurità davanti a lui che gli sembrava di avere una solida parete di buio dinnanzi agli occhi, tanto profondo era il silenzio, che il suo stesso respiro sembrava un rombo di tuono alle sue orecchie. Oh! Non gli portava nessun conforto quel rifugio! Anche l'eco sembrava farsi gioco di lui, mentre proseguiva nelle tenebre, lento e malsicuro, passo dopo passo. Credeva quasi di sentire innanzi a lui, o forse dietro di lui, o forse ovunque intorno a lui, nell'oscurità... un respiro... diverso dal suo. 
E poi, ne fu sicuro. 
"Non sono solo qui!" gridò in preda al terrore; ma la sua voce non era che un sussurro spaventato. 
Ascoltò, aspettando, nelle tenebre. 
La sua voce sussurrò: 
"Chi c'è qui?" 
Silenzio. 
Ma il respiro estraneo ancora si sentiva, lieve nelle tenebre profonde; l'uomo fece un passo indietro e la sua mano toccò la parete di roccia; e sentì la pietra sotto le dita, la pietra umida ricoperta di muschio, e poi... qualcos'altro. Un corno da caccia. 
"Che cos'è...?" 
E allora una Voce si levò nelle tenebre, una Voce mai udita prima, una Voce che sembrava provenire dalle profondità del Tempo, e che la sua anima avrebbe udito di nuovo solo nel momento della morte. Eppure... strano! Gli sembrava che fosse la sua propria anima a parlare. 
"Questo è il corno di Finn! E' il corno da caccia dei Fianna" 
E la Voce proseguì con un accenno di comando indescrivibile: 
"Suonalo!" 
"No!..." gemette l'uomo, e non voleva farlo; ma il sussurro che era la Voce ripetè, suadente: 
"Suonalo!" 
Lentamente l'uomo sollevò fino alle labbra il grande corno da caccia 
"No...!" 
"Suonalo!!" 
Travolto da un'improvvisa esaltazione, l'uomo sollevò allora il corno e vi soffiò dentro con tutte le sue forze, chiudendo gli occhi. 
Una nota si levò alta e possente, percorrendo tutta la caverna col rombo di mille tuoni, e nella musica si sentì distintamente un richiamo: 
"Svegliatevi!!" 
L'uomo cadde all'indietro sulla fredda roccia, intontito. Davanti a lui nell'oscurità si mossero corpi di tenebra, teste di tenebra parvero prender corpo nell'aria e accostarsi e chinarsi su di lui: e la Voce Antica sussurrò di nuovo alle sue orecchie: 
"Suonalo!" 
"Svegliatevi!!" 
E nelle tenebre si udì chiaramente il clangore di metalliche armature, il tendersi di fionde di pelle, lo scalpitare soffocato di molti cavalli; e la tenebra parlò con formidabile accento: 
"Chi chiama e risveglia Finn e i Fianna?" 
L'uomo cadde in ginocchio e pianse. 
"Non sono stato io, non sono stato io a farlo! E' stata la Voce, è stata la Voce!" 
"Chi ci chiama? Chi ha bisogno di noi?" 
"Io vi chiamo! Io ho bisogno di voi!" rispose la Voce Antica; e di nuovo sussurrò con bisbiglio di tuono alle orecchie dell'uomo: 
"Suona! Suona! Suona per la terza volta il corno da caccia dei Fianna!" 
Ma l'uomo era adesso così terrorizzato, che nel suo cuore e nella sua mente non c'era più posto che per la paura; egli non comprendeva più il richiamo della Voce; lasciò cadere il grande corno da caccia, e corse, corse incontro al buio della notte, fuori dalla caverna, senza più ascoltare l'appello della Voce dietro di lui; e corse, e corse, finchè il cuore parve scoppiargli nel petto; e corse, e corse, mentre la Voce lo chiamava ancora, scongiurandolo di suonare per la terza volta il corno da caccia dei Fianna. 
E così l'uomo corse, e corse, fino a perdere completamente il sentiero che avrebbe potuto riportarlo davanti alla caverna. E il sentiero fu di nuovo dimenticato. E al sorgere dell'alba cadde la pioggia, come un pianto sopra la terra, mentre pian piano la nera bocca della caverna si confondeva con la nera parete della montagna; e infine, dalla roccia bagnata di lacrime di pioggia, si levò, a innalzarsi nel cielo, un arcobaleno. 
Ma questa non è affatto la fine della storia. 
Quando il corno da caccia dei Fianna fu trovato, e suonò per la prima volta, ogni vero Gaidheal, ovunque fosse nel mondo, fu scosso da un brivido, fin nel profondo del suo cuore, e si chinò, qualunque cosa stesse facendo, per toccare la terra; e quando il corno fu suonato per la seconda volta, ogni vero Gaidheal, ovunque si trovasse nel mondo, levò il viso a guardare il cielo, e le lacrime gli comparvero negli occhi; sì, lacrime per qualcosa che era morto ma che si poteva ancora ricordare, lacrime per qualche cosa che non c'era più, ma che si poteva ancora sentire; e lacrime per qualche cosa che era stato, e che forse avrebbe potuto ancora una volta ritornare. 
Così questa storia non ha una fine. Non fino al momento in cui il corno dei Fianna sarà ritrovato, e qualcuno non lo avrà suonato per la terza, e definitiva, volta; e allora i figli dei Gaidheal si sveglieranno, e finalmente lo spirito dei Gaidheal potrà tornare a volare, ancora una volta, di nuovo, libero."

Da: I Carmina Gadelica. Sortilegi ed invocazioni dell'arte druidica di Alexander Carmichael

giovedì 17 febbraio 2011

La rosa - simbologia


La Rosa, presa singolarmente, è simbolo di completezza, raggiungimento totale del fine, perfezione.
Ad essa quindi si associano tutte le idee collegate a simili qualità: il centro mistico, il giardino dell'Eros, il Paradiso di Dante, l'emblema di Venere, l'essere amato.
Inoltre la rosa è simbolo della transizione o del passaggio necessari al raggiungimento della perfezione finale: nella Divina Commedia si giunge al paradiso attraverso "La Rosa Mistica" e la Vergine Rosa regna su quella candida dell’empireo, formata dai beati disposti nella concentricità della spirale dei petali.
Il protagonista dell'Asino d'oro di Apuleio recupera le fattezze umane mangiando delle rose (appartenenti ad una corona dedicata ad Iside, dea vivificatrice).
È dottrina che una delle vie per raggiungere la perfezione sia quella dell'Amore.
L'amore, infatti, è unione, annullamento del dualismo, della separazione, ritorno dell'androgino primordiale, quindi modo di pervenire al centro.
Lo stesso atto fisico dell'amore esprime il desiderio di "morire" nell'oggetto del desiderio medesimo, dissolversi in ciò che è già dissolto: morire, dunque, per rinascere nella non-separazione.
Simbolo di questo, del trasferimento nel "centro segreto" (segreto nel senso che non esiste nello spazio, ma è tuttavia perfettamente definibile), è ancora la rosa o, nell'Estremo Oriente, il fiore di loto.
Dalla corolla di una rosa nasce Peyoda Siri, una delle mogli del dio Vishnu.
Tutto questo complesso di significati simbolici pervenne in Europa attraverso i contatti che ebbe l'Ordine dei Templari con l'esoterismo arabo degli Israeliti , una volta insediatosi a Gerusalemme.
Intanto, già nel 1200 il Roman de la Rose di Guillame de Lorris, attribuisce a questo fiore il significato di veicolo e fine della trascendenza mercè il potere santificante dell'amore.
L'identico senso si trova un secolo dopo in Dante ( seguace, com'è noto, della setta dei "Fedeli d'Amore", di derivazione templare ): Dante stesso tradusse in 120 sonetti proprio il
Roman de la Rose.
I
l "sentiero" di misticismo pratico elaborato dalla setta orientale dei Sufi a Baghdad nel XII secolo era denominato Sebil-el-Uard : che vuol dire "La Via della Rosa".
Simbolo di elezione e di segreto non a tutti accessibile –  si pensi al cuore delle rose intuibile eppur recondito e nascosto –  la rosa divenne attraverso i secoli un emblema ricorrente in stemmi principeschi d'oltralpe oltre che nell'araldica inglese.
Simbolo chiave delle scuole ermetiche ed esoteriche occidentali ed orientali la rosa la si ritrova anche nelle tradizioni autoctone, e soprattutto nella leggenda del sacro Graal.
Sul piano della psicologia e del profondo, il Graal, calice della Salvezza e della santificazione, è un elemento femminile, simbolo della ricettività e della prodigalità, una sorta di utero spirituale per tutti coloro che si affidano alla dottrina segreta, ancora la rivivificazione attraverso un processo alchemico di unione del femminile e con il maschile, in questo caso l'eroe che beve dalla sacra coppa.
E sempre connesso al simbolismo della rosa è l'ordine cavalleresco assoldato da Re Artù al fine del ritrovamento del Graal: l'ordine de La Rose Noire.
Nella Cappella di Rosslyn c’è quella che è considerata come la pietra sepolcrale di Sir Guglielmo Saint Clair (1297-1330), figlio di Enrico Sinclair, morto in Spagna mentre cercava di combattere i Saraceni. La lastra di granito, lunga solo poco meno di un metro, presenta un calice con un lungo stelo su un lato e una spada sull’altro. Al centro del calice c’è una croce fiorita – uno schema ottagonale con una rosa al centro. Tale schema a ottagono è parte del monogramma a otto punte che è noto per essere stata utilizzato dai Templari.
Il motivo della croce fiorita si trova anche in altre chiese situate nei dintorni.



A causa dell’effimera vita la rosa aveva assunto nell’antichità anche il ruolo di un fiore funerario particolare: simboleggiava sui sepolcri chi era morto precocemente.
Ma la sua struttura concentrica ha evocato anche l’idea della ruota, simbolo del tempo che scorre, dell’eterno ciclo di vita-morte-vita. E non per caso l’oculo a raggiera aperto nelle facciate delle chiese medievali, che gli storici dell’arte chiamano rosa o rosone, è detto propriamente rota.
I rosoni nel rappresentare, per la loro forma, la bellezza e la perfezione della Creazione, sono altresì proiezioni del mistero di Dio-Luce e Fonte di vita. Queste finestre, porte di comunicazione tra il mondo divino e quello dell’uomo, sono più ampie nella parte rivolta all'interno e più strette in quella che guarda l'esterno, poiché la luce, specchio della Rivelazione Divina, penetra nella chiesa, simbolo dell'interiorità dell'uomo, attraverso piccoli spiragli, ma subito si diffonde nell'esperienza della contemplazione. Vi sono vari tipi di rosoni e ognuno ha un suo significato: a sei petali è associato al sigillo di Salomone, a sette petali indica l'ordine settenario del mondo, a otto petali la rigenerazione, a dodici petali gli apostoli o lo zodiaco. La disposizione dei tre rosoni nel costante orientamento dell’architettura delle cattedrali suggerisce un nesso con la scienza alchemica: nel corso della giornata, seguendo il percorso del disco solare, nei tre rosoni si succedono i colori dell'Opera secondo un processo circolare che va dal nero (il rosone settentrionale mai illuminato dal sole), al colore bianco (il rosone del transetto meridionale illuminato a mezzogiorno) al colore rosso (il rosone del portale illuminato al tramonto).



La Rosa, sembiante del lapis philosophum, la pietra filosofale, è uno dei fiori eletti degli alchimisti, i cui trattati hanno titoli come "Roseto dei filosofi", "Rosarius", o il "Rosarium" attribuito ad Arnaldo da Villanova. La Rosa bianca era associata alla pietra al bianco della "piccola opera", mentre la Rosa rossa era collegata alla pietra al rosso della "grande opera", la Rosa azzurra era la figurazione dell'Impossibile, inoltre ciascuno dei sette petali della Rosa alchemica evocava un metallo, un pianeta o un passaggio dell'Opera.



Il turbine dei petali verso il centro del bocciolo, quasi sfere concentriche rotanti, è un’immagine della manifestazione dell’Uno che si dispiega negli archetipi.
Alla Rosa simbolo dell’Uno ineffabile s’ispirò nel XVI secolo Vicino Orsini, l’ideatore del Sacro Bosco di Bomarzo, creando il cimiero di famiglia: un orso eretto che regge una rosa d’oro o rossa a cinque petali. Questo fiore allude anche al segreto ermetico sicché esso è diventato emblema del segreto anche in senso profano. Rose a cinque petali racchiuse in un nimbo venivano scolpite con il medesimo significato nei confessionali e nelle decorazioni delle sale riservate agli affari di Stato.
Secondo un’altra interpretazione più superficiale la rosa è sinonimo del “custode del segreto” poiché nasconde con i petali la sua parte più intima.
Così scriveva nel XV secolo un monaco del convento di Tegernsee: “Quel che sotto la rosa si dice non si deve riferire. Verità o invenzioni tacite stiano sotto la rosa”. L’espressione sub rosa deriverebbe dall’usanza di appendere il fiore al soffitto delle locande o di avvolgere intorno ai boccali una ghirlanda di roselline per rammentare agli avventori l’obbligo morale di non propalare discorsi tenuti “sotto la rosa”. Anche un proverbio suggerisce: “Amore e affare sotto la rosa dovrai serbare”.







Una Rosa d’oro, che in realtà era un ramoscello di rose d’oro, diventò nel Medioevo il simbolo del Cristo.
Guillame Durand scrisse: “In senso spirituale la Rosa designa quest’altro Fiore che nel Cantico dei Cantici ha detto di se stesso: Io sono il giglio delle valli; e di cui il profeta parla così: Un germoglio uscirà dalla radice di Jesse, e un fiore crescerà da questo germoglio. È veramente il Fiore dei fiori, vale a dire il santo dei santi che, al di sopra di tutti gli altri fiori, rallegra la vista poiché è il più bello dei bambini degli uomini”.
Se le rose sono rosse, simboleggiano invece le piaghe del Cristo. Una sola rosa simboleggiava invece il Sangue redentore.
La rosa fu per i Greci l’attributo di Afrodite, la Grande Madre dai tanti nomi che apparve nell’isola di Citera. Narra il mito che Crono scagliò in mare i genitali da lui recisi al padre Urano. Dalla schiuma che si formò emerse la dea la quale, cavalcando graziosamente una conchiglia, giunse dapprima nell’isola di Citera e poi si trasferì, passando per il Peloponneso, a Cipro. Dalla schiuma spuntò anche un ceppo spinoso sul quale gli dei stillarono nettare facendo fiorire rose bianche. Un giorno, mentre Afrodite accorreva in aiuto di Adone, che era stato ferito mortalmente da un cinghiale inviato dal geloso Ares, le si conficcò una spina nel piede, dal quale uscì del sangue che tinse di rosso il fiore.
A un livello simbolico inferiore la rosa rossa è diventata anche l’emblema poetico di ciò che vi è di più intimo nella donna, tant’è vero che espressioni come “entrare nelle rose”, “perdere la ghirlanda di rose” e “strappare la rosellina” alludono al rapporto amoroso o alla iniziazione della giovinetta a Venere.


Quando a maggio fioriscono le rose, cantano gli usignuoli che nella poesia persiana dichiarano instancabilmente il loro amore per la regina dei fiori: tema che si ritrova anche nelle liriche islamiche con una duplice valenza, di amore terrestre e di amore celeste, dove tale uccello è simbolo dell’anima che si affretta a volare al Giardino delle Rose non appena avverte il profumo del fiore paradisiaco.
Le rose simboleggiavano in epoca ellenistica il primo grado di iniziazione ai misteri di Iside.
Nel XII secolo la scuola dei filosofi cristiani fiorita a Chartres aveva rielaborato il concetto classico di Natura in cui si ritrovarono tanti aspetti della Grande Madre precristiana. Chartres era allora un santuario mariano. La Madre Natura andò assumendo a poco a poco i tratti della Madonna. Nel suo trascolorare simbolico la rosa venerea diventò anche mariana.
In onore della Rosa-Maria si recita il rosario. Il Rosario s’ispirava a quelle corone di fiori – chapelets in francese – che erano l’ornamento usuale nelle feste profane e religiose, doni cortesi, omaggi, dimostrazioni d’amore. Per sottolineare il legame con il fiore venivano proprio fabbricati con il legno di questa pianta. Letteralmente rosaio deriva dal latino rosarium: sicché pregare è costruire simbolicamente un rosaio in onore della Rosa Vergine Maria, della “faccia che a Cristo più si somiglia”.
Nella fiaba La bella e la bestia il mercante, prima di partire per un lungo viaggio domandò alle sue tre figlie cosa volessero come dono al suo ritorno. Le due maggiori chiesero collane e monili. La minore, Belinda, invece disse: “Una rosa, soltanto una rosa”.  Il Mostro si trasforma nel bel principe quando Belinda s’è totalmente lavata da ogni ruggine di fantasticheria, da ogni sogno di adolescente. La bellezza del principe è la copiosa gioia promessa a chi ha desiderato l’essenziale: “Una rosa, soltanto una rosa”.
Ogni tipo di rosa ha evocato nel linguaggio dei fiori un sentimento o un messaggio. La rosa bianca, il Silenzio e la Segretezza, ma anche il Candore e l’Innocenza. La rosa a fiore variegato, l’Amor tradito. La rosa borracina, la Bellezza capricciosa; la canina, l’Indipendenza ma anche la Poesia; la cappuccina, la Pompa e lo Splendore; la cannella, la Maturità precoce; la rosa del Bengala, la Compostezza dell’anima ovvero “Siete bella nella prospera e nell’avversa fortuna”. La rosa della Cina, “Riconciliamoci!”; se però è a fiore rosso doppio indica Dispetto. Con una rosa di Banks si dice: “Voi siete bella nel riso e nel pianto”; con la gialla si denunciano l’Infedeltà e la Vergogna; con la rosa muschiata si accusa: “Siete bella ma capricciosa!” e si ammonisce che “la Bellezza è caduca”. Con la rosa tea si sottolinea la Gentilezza della donna amata, mentre la multiflora augura Fecondità.



Come abbiamo visto, la rosa, innanzitutto, è un fiore altamente simbolico e solo pochi Iniziati ne possono comprendere il significato profondo. Tale significato è legato al mistero, infatti non poche Società segrete hanno la rosa come emblema, si vedano, al proposito, la Santa-Vehme, i Templari, la Massoneria e la Fraternità dei Rosacroce.
L'emblema della Rosacroce è uno dei simboli divini. La scuola dei Misteri occidentali (a cui appartiene la Rosicrucian Fellowship) ha per emblema una rosa rossa (simbolica nel rappresentare la natura del desiderio) su una croce (la materialità). La stella dorata a cinque punte, che ingloba la croce, indica che il Cristo è nato nell'intimo del discepolo e irradia dal capo, dagli arti superiori e da quelli inferiori. Il sottofondo blu rappresenta il Padre in manifestazione: l'Unità nella Trinità. Visto nella sua pienezza questo simbolo racchiude anche la chiave per comprendere l'evoluzione fatta dall'uomo. Nella sua forma attuale essa rappresenta lo spirito dell'uomo che irradia attraverso i suoi quattro veicoli, ma un tempo la croce mancava della parte superiore in quanto l'uomo era ancora privo della mente (Epoca Atlantidea). Prima ancora (Epoca Lemuriana) essa era priva del braccio orizzontale; era in effetti come lo stelo di una pianta e rappresentava l'uomo ancor privo del corpo delle emozioni, perciò casto e privo di desideri. Il significato attuale della croce ci porta a considerare la sua parte inferiore come simbolo della materia, in quanto, come la pianta, affonda le sue radici nel mondo chimico e fisico dei minerali. La parte superiore rappresenta invece l'uomo, che a tutti gli effetti può essere considerato come una pianta capovolta. La pianta si procura infatti il cibo attraverso le radici che sono in basso, mentre l'uomo usa la bocca che è situata nella sua parte superiore. Non solo, mentre l'uomo riceve un'alta influenza spirituale che proviene dal Sole e lo attraversa dalla testa ai piedi, le piante ricevono le correnti spirituali dal centro della Terra dove risiedono i loro Spiriti di gruppo. Gli animali, simboleggiati dal braccio orizzontale, sono a mezza strada tra i vegetali e l'umanità. La loro spina dorsale è orizzontale per poter ricevere gli influssi spirituali che arrivano loro dagli spiriti di gruppo che circondano la Terra. Nel simbolo dei Rosacroce appaiono pure sette rose rosse ed una bianca al centro della croce. Questi due simboli ci ricordano le dodici Gerarchie creative che hanno supportato la creazione del nostro universo. Di queste gerarchie sette sono tuttora all'opera nei nostri confronti (le 7 rose rosse) mentre due sono quasi sul punto di ritirarsi (le due punte basse) e le altre tre si riferiscono alle rimanenti Gerarchie, ormai ritirate, che hanno lavorato per noi, senza obbligo alcuno, con sacrificio e abnegazione. Una vita vissuta nell'armonia e nel servizio trasformerà il nostro sangue fino a renderlo simile a quello del Cristo. La verde linfa tramutata nel rosso della rosa ci rammenta questo processo per cui, un giorno, saremo in grado di generare, in completa purezza, per mezzo della laringe, rappresentata dalla rosa bianca al centro della croce. Come ultima interpretazione l'emblema si offre come il punto di arrivo di ogni aspirate al servizio dell'umanità. La rosa bianca rappresenta il cuore puro di colui che è diventato un aiutatore invisibile dell'umanità, senza più ambizioni o desideri personali. La croce è il suo corpo; le sette rose rosse il suo sangue purificato; la stella dorata il suo corpo animico: il veicolo spirituale con il quale può lasciare il suo corpo fisico addormentato per accorrere in aiuto della sofferente umanità. L'emblema è colmo di profondi significati, dovremo meditare a lungo su quanto esso ci propone, ciò potrebbe elevare la nostra coscienza, stabilire in noi le verità più profonde e farci sempre più comprendere la grandezza di Dio ed il suo amore per noi






Da: Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante di Alfredo Cattabiani
I Templari e il Graal di Karen Ralls
Le Nozze Chimiche di Christian Rosenkreuz